mercoledì 1 giugno 2016

[Dal libro che sto leggendo] Dieci prove di fantasia



Fonte: geudensherman


Oggi il testo tutto giustificato per un motivo valido, sarà sicuramente più difficile leggerlo a video ma perdonatemi, ma il pezzo vale il sacrificio. Mentre leggevo questo libello che, sinceramente, pensavo di non avere mi sono resa conto di quanti immensi, grandissimi sforzi si fanno per divenire originali e appetibili ai ragazzi quando, e questo testo lo dimostra in pieno, ci vuole veramente poco! Se leggete l'estratto di oggi, vi renderete conto che sembra davvero scritto come uno young adult, ma sembra solo, perché l'aderenza alla leggenda de "La chanson de Roland" è fatta in maniera ricercata e puntuale.

Segre in alcune di queste prove agisce così, parte dall'opera letteraria e immagina situazioni differenti, o ne esplode alcune per andare a fondo a situazioni che non hanno mai avuto così tanta luce.
Ne vengono fuori racconti ritmati che si nutrono, come nel caso di Gano di Maganza, dei sentimenti del loro protagonista trascinando il lettore nel mondo che vanno a ricreare. Il crescendo della voce, della tensione è quasi teatrale e ti capita di sentire la voce che parte con un "basso rabbioso" e piano piano, man mano che la veemenza e la frustrazione aumentano, diventare più forte e insistente.

Ecco è un anno che dico che, se alcuni mondi fantasy fossero in mano a gente che sa veramente il fatto suo,  il genere sarebbe ancora più apprezzato e noi potremmo non vergognarci di far leggere ai giovani lettori castronerie come quelle che mi capitano ogni tanto sottomano. Il testo di oggi parla da sé.
Buone letture,
Simona


1. 

«Così ho sacrificato Rolando ai Saraceni» 

I quattro cavalli muovono ogni tanto una zampa, di rado accennano un nitrito; hanno un’aria tranquilla. Domani, frustati e spronati a sangue, partiranno verso i quattro punti cardinali facendo a pezzi il mio corpo, braccia e gambe legate a ognuno di loro. Meglio non pensarci. Intanto stanno cancellandosi i segni dei pugni e delle bastonate che mi hanno dato i cuochi, miei carcerieri, dopo l’arresto. Morirò da traditore, ma non lo sono; non so proprio chi possa prender nota di quanto dichiaro qui. Credono di disonorarmi con questo tipo di supplizio. Non sanno che un supplizio analogo è stato inflitto anche a dei santi martiri, come Ippolito. Non che mi creda un santo, figurarsi; ma innocente sì. Sento già i cantastorie che raccontano la mia vicenda demonizzandomi; chissà che mostro diventerò nella memoria dei secoli futuri. Ma alla fin fine non me ne importa molto. 

Dal processo che hanno istruito contro di me dopo la battaglia di Roncisvalle e gli avvenimenti che seguirono, sono uscito a testa alta. Tutti i baroni dell’impero, cioè le persone più sagge e autorevoli della Corte, hanno chiesto a Carlomagno di assolvermi. Sarebbe dovuto bastare; ma si sentiva nell’aria una voglia di linciaggio. Ed ecco che quel fanatico di Tierri d’Argonne chiede e ottiene un duello giudiziario. Era Carlo che ci teneva, in verità: la morte del suo adorato nipote Rolando lo aveva sconvolto. Pinabello, mio compare, si è battuto per me, con onore e valore, su un prato vicino ad Aquisgrana, ma è stato vinto e ucciso. Io considero quel tipo di giudizio di Dio una barbarie: non capisco perché chi vince un duello debba immancabilmente aver ragione; ma l’esercito, sobillato dagli amici di Rolando, ha sostenuto tumultuosamente il verdetto. Non ho scampo. 

Mi accusavano di tradimento, ma è falso. Carlomagno era in difficoltà nell’assedio della imprendibile Saragozza. Marsilio, re dei Saraceni di Spagna, mandò un ambasciatore per offrire condizioni vantaggiosissime, purché Carlo e le sue truppe rientrassero in Francia. Quando l’imperatore convocò il consiglio dei baroni, io, come tutti gli anziani, ero favorevole alla pace e a una ritirata abbellita dagli opulenti doni dei nemici. Anch’io sono signore di un cospicuo territorio; penso che le guerre inutili, come questa di Carlomagno in Spagna, debbano terminare appena sia possibile senza perdere la faccia. La guerra distrugge uomini e mezzi, distoglie dalle opere agricole o commerciali e dalla raffinata vita di corte, annulla i vantaggi della tranquillità generale.  

Ma Rolando voleva fare l’eroe. Già ha conquistato terre e terre a beneficio di Carlomagno, con qualunque mezzo. A Noples il sangue delle sue vittime aveva colorato i prati di rosso; lui li allagò per togliere ogni traccia. Era il braccio armato di Carlo: una volta gli preconizzò, offrendogli una mela, in un gesto simbolico pieno di piaggeria, che un giorno avrebbe dominato il globo terrestre. Si capisce che avesse bisogno di far valere la sua eccellenza, e procurarsi potere e riconoscimenti, lui che di terre non ne aveva ancora. Ma non si vive solo per strappare le cose agli altri, con prepotenza. I guerrafondai non mi piacciono, e perciò non mi piaceva nemmeno Rolando.

Ci fu dunque il consiglio dei baroni: drammatico. Le posizioni contrapposte dei pacifisti, cioè della maggioranza, e quelle dei guerrafondai, stretti intorno a Rolando, vennero esposte concitatamente. Alla fine si accese una discussione violenta fra Rolando e me. Rolando, per mettermi in imbarazzo, propose che andassi io a trattare con Marsilio. Come se io, Gano di Maganza, fossi un qualunque ambasciatore e non un grande signore. Faceva intendere che chi vuole la pace deve anche saper rischiare per ottenerla. L’ambasceria era pericolosa; se mi avessero ucciso, avrei messo a repentaglio le mie terre, lasciandole in mano a mio figlio Baldovino che è ancora così giovane, e su cui certo si sarebbero gettati come avvoltoi chissà quanti miei nemici. Quando ho rifiutato mi ha dato del vigliacco. Allora non ci ho visto più, e ho giurato pubblicamente quella vendetta che poi di fatto mi sono preso macchinando l’agguato di Roncisvalle. Ho sempre agito a carte scoperte, a differenza dei veri traditori. Ma l’ambasciata ho dovuto farla: quel serpente non mi aveva dato alternative.  

Già, i miei rapporti con Rolando, mio figliastro, sono sempre stati pessimi. Era troppo arrogante, anzi tracotante. Si comportava come se fosse stato non nipote, ma figlio di Carlomagno. E c’è chi dice che lo fosse davvero: frutto di un rapporto incestuoso fra l’imperatore e la sorella, quella che poi divenne mia moglie. Potete immaginare se io non l’abbia messa alle strette, questa moglie, minacciandola di morte, per sapere la verità. Ma è stata più muta della tomba in cui mi dicevo pronto a gettarla. Sia vera o no questa voce, un bastardo lo era in ogni caso; e sono contento di avergli dato una lezione definitiva. Io non potrò avvantaggiarmene, ma lui non potrà più continuare a pavoneggiarsi nella sua gloria.

Non sono un traditore, e lo ripeterò per le poche ore che camperò ancora. Con Marsilio ho agito coraggiosamente. Mi sono recato presso di lui, e nel viaggio ho studiato col suo ambasciatore, Blancandrino, la tattica da usare: la morte di Rolando era infatti un interesse vitale per tutti e due. Nell'incontro con Marsilio ho ancora inasprito, pur consapevole del mio rischio, le condizioni di Carlo per la ritirata, così da eccitare il re moro. Poi gli ho esposto il modo in cui avremmo potuto ottenere, io e lui, l’eliminazione di quel bravaccio di Rolando. Avrei proposto nel consiglio dei baroni che, durante la ritirata, stesse lui a difendere l’esercito nella retroguardia: non avrebbe potuto rifiutare, se no sarebbe stato lui a fare la figura del vigliacco. Bastava che Marsilio attaccasse la nostra retroguardia al momento opportuno, quando il grosso delle truppe fosse già rientrato in Francia. 

Non mi pareva che la morte di Rolando e di una piccola parte dei guerrieri dovesse danneggiare molto Carlomagno. In cambio, la fine di quell'eroe di professione avrebbe reso più tranquilla la vita dell’impero. Il consiglio in cui proposi Rolando a comandante della retroguardia si svolse all'inizio come previsto da me. Rolando naturalmente accettò subito, pur insultandomi come al solito. Ma come potevo prevedere che tutti i paladini avrebbero deciso di stare al suo fianco? Mi pare che Carlomagno, abituato a guardare le cose troppo dall'alto, quasi sentendosi un dio, sia stato di un’imprudenza madornale nel permettere che i suoi migliori guerrieri si schierassero nella retroguardia, che in linea di principio deve soltanto coprire la ritirata dell’esercito. Comunque, le cose sarebbero andate ancora secondo il mio piano, se non fosse stato per quel gradasso di Rolando. Anche sullo scontro di lui e dei paladini a Roncisvalle corrono già canzoni, e sento dire che Olivieri, al primo attacco dei Saraceni, gli aveva consigliato di suonare l’olifante per richiamare Carlo, ormai sull'altro versante dei Pirenei. Olivieri era un guerriero di prim'ordine, ma prudente: e così dev'essere un vero guerriero. Se Rolando gli avesse dato retta, Carlo sarebbe potuto tornare indietro abbastanza presto. Rolando sarebbe morto lo stesso, come previsto da me e da Marsilio, ma le perdite dei Francesi sarebbero state probabilmente modeste. Invece Rolando s’è incaponito a non chiedere soccorso, e ha suonato solo quando la retroguardia era pressoché annientata. È morto per ultimo, col viso rivolto alla Spagna per mostrare che era lui il vincitore. Riferiscono i suoi ultimi discorsi, in cui, oltre a chiedere perdono a Dio padre, e ne aveva bisogno, si è vantato di tutte le conquiste compiute al servizio di Carlo. La sua preoccupazione maggiore è stata quella di distruggere la spada di Durendal, perché questo strumento di vittoria non cadesse nelle mani degli Infedeli. Nemmeno un pensiero per la fidanzata Ada, che, ben diversa da lui, è poi morta di dolore appena appresa la sua fine.



Insomma è stato un disastro: roba da far andare in estasi gli appassionati di scontri all'ultimo sangue e di carneficine. Devo riconoscere a ogni modo che i nostri si sono battuti splendidamente, vendendo cara la loro vita ad avversari in un numero preponderante. Al suo arrivo, Carlo ha potuto solo constatare la tragedia, e ha pianto Rolando come un padre piange un figlio morto. Le cose sono andate comunque diversamente da come avrei voluto. Ma di questo non mi sento responsabile.


Questo pezzo è tratto da:

Dieci prove di fantasia
Cesare Segre
Einaudi editore, ed. 2010 
Collana "L'arcipelago Einaudi"
Prezzo 12,00€

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