mercoledì 7 novembre 2018

"I formidabili Frank", Michael Frank - Lo sguardo che cambia il tempo...

E' stato pubblicato un nuovo post sul nuovo blog per "I formidabili Frank" di Michael Frank.
Buone letture,
Simona Scravaglieri

martedì 6 novembre 2018

"7-7-2007", Antonio Manzini - Tutto il mondo... #MarcoGiallini #6

E' uscito un nuovo post sul nuovo sito di LettureSconclusionate relativo alla serie di libri di Antonio Manzini e lo trovate qui: "7-7-2007", Antonio Manzini - Tutto il mondo...

lunedì 5 novembre 2018

"I pregiudizi di Dio", Luca Poldelmengo - Di quella volta in cui vennero demoliti i miei pregiudizi...

E' uscito un nuovo post, nel nuovo sito sul libro "I pregiudizi di Dio" di Luca Poldelmengo
Buon inizio di settimana,
Simona Scravaglieri





venerdì 26 ottobre 2018

“Era di maggio”, Antonio Manzini – Il duello della resa finale… #Marco Giallini #5

Per gli iscritti ai FEED: vi comunico che il blog ha cambiato indirizzo e che il post di oggi lo potete trovare a questo indirizzo!

https://letturesconclusionate.com/2018/10/25/era-di-maggio-antonio-manzini-il-duello-della-resa-finale-marco-giallini-5/

Buone letture!
Simona Scravaglieri

venerdì 19 ottobre 2018

"Non è stagione", Antonio Manzini - La storia nera della cronaca nera... #MarcoGiallini #4

Fonte: Mangialibri


Messaggio di informazione: a seguito delle modifiche mal gestite di Google, che continuano a complicarmi la vita, ho deciso alla fine di traslocare. LettureSconclusionate migra verso lidi, si spera con una migliore assistenza, più stabili e ricomincia con addirittura un dominio tutto suo. Il trasloco avverrà nel mese di Ottobre ma ci sono già quasi tutti i pezzi qui riportati e lo trovate qui:letturesconclusionate.com 


E nulla. A me, le correzioni, quando tocca riscrivere un post veramente bello, non riescono bene. Quindi ricominciamo: quando a settembre vi avevo detto che avevo fatto i compiti leggendo nel giro di poco tempo tutti i romanzi/racconti legati alla prima stagione di Rocco Schiavone, ho inconsapevolmente mentito. Me ne sono accorta la scorsa settimana mentre scrivevo questo post: mi era sfuggito "Era di Maggio". Il problema è dato dal fatto che se sulla carta i due romanzi sono molto legati, nella trasposizione televisiva lo sono ancora di più dando vita a tre episodi di particolare tensione, che un po' ribaltano l'effetto dei libri da cui sono tratti. Così ho dovuto scindere le considerazioni fatte in quell'ambito in due post separati.

Come di consueto l'inizio è un momento di presentazione: ci sono due loschi tipi che sono su un furgone e stanno percorrendo una stradina che costeggia la montagna. Chiacchierano, uno è italiano e l'altro rumeno, parlano animatamente di qualcuno da chiamare ma una distrazione fatale mette fine alla conversazione e alla loro vita. Buio. Siamo ad Aosta in questura, c'è  una chiamata della polizia stradale che chiede supporto perché c'è stato un incidente con due morti e il problema non sarebbe quello, ma che il furgone è di proprietà dell'italiano che lo guidava, ma la targa no. Non ci sono evidenze di altri illeciti ma bisogna indagare anche se all'apparenza i due facevano lavori saltuari, come ad esempio lavorare per un ristorante campano con degli orari strani. Buio. L'indagine si è un po' arenata, anche se Rocco ha potuto fare l'ennesimo dispetto a D'Intino e al suo collega amico inviandoli con una chiave a cercare la porta giusta di Aosta che sveli quale sia l'ultimo domicilio del rumeno, ma non c'è pace per il vicequestore che, nel bel mezzo di una cena a casa veramente venuta male, sente suonare il citofono di casa a sera tarda. È quell'ingegnere amico di Nora e della sua amica Anna ed è venuto con la figlia preoccupatissima per la sua amica del cuore che sembra svanita nel nulla. Lui, l'ingegnere, è stato a casa della ragazza e i genitori gli sono sembrati strani, hanno detto che l'hanno mandata dalla nonna, ma quando mai una diciassettenne va dalla nonna senza il telefono o tenendolo sempre spento? E, alle dieci di sera, al vice questore Rocco Schiavone, di stanza ad  Aosta da settembre, piove l'ennesima rottura di coglioni, ovvero un sospetto rapimento.

Nella precedente revisione avevo scritto che questo, nell'insieme dei libri e racconti che ha scritto fino al 2015, è davvero l'inizio di una serie, seppure con un'abile mossa da attempato scrittore riesca a scrivere due romanzi autoconclusivi. Il trucco sta nel puntare a quello che di solito non si vede nei libri gialli; di solito c'è il fattaccio, o viene raccontato, un'indagine che porta chi investiga a girare come una trottola o a passare lunghi momenti di riflessione mentre la vita ne interrompe in continuazione il filo conduttore, la risoluzione e l'arresto. Possono esserci anche riflessioni a monte o a margine o anche alla fine, ma il momento di quella storia è una slabbratura della quotidianità che, a fine storia tende a ricompattarsi. È raro invece, almeno per la mia esperienza di lettrice, che si prosegua con l'istruttoria del caso per il giudizio. In questo caso non è proprio un'istruttoria, più che altro una serie di strascichi di un caso a correlare i due romanzi dando la possibilità a Manzini di creare quasi in simultanea sei casi in una volta sola. È un po' come lavorare in prospettiva, non solo perché a volte delle cose in un singolo pezzo non possono coesistere pena l'appesantimento dell'insieme generale o la confusione di ruoli e personaggi, ma anche perché stavolta l'impianto è sicuramente più complesso e articolato dei casi precedenti: intervengono fattori come la criminalità organizzata di stampo mafioso, il galeotto ex terrorista, le banche, il crimine dei colletti bianchi che sono tutti fatto che, esauriti in 300 pagine, avrebbero fatto pensare ad uno scrittore alle prime armi.

Invece Manzini conosce bene il tema, la collusione, i sotterfugi, i mezzi con i quali una mafia agisce in maniera diversa dalle altre viene trattato da persona che non sceglie a caso le 'ndrine al posto della camorra, ad esempio, eppure non cede alla tentazione di mischiare i ruoli e confondere un po' i suoi lettori. Schiavone parla di 'ndrangheta, c'è un ristorante un po' strano denominato Posillipo, con un proprietario strano che si ingegna a parlare campano ma è siciliano. Ma quel che viene a galla alla fine è una buona ricostruzione delle tecniche di collusione già utilizzate e non più così sommerse dopo tutta una serie di inchieste. Nel 2015 a Milano c'è stata l'Expo e già più di anno prima si commentavano le infiltrazioni nelle maglie della gestione degli appalti proprio delle 'ndrine.
Quello che invece si trascura di mettere in evidenza è il momento in cui si creano le condizioni perché l'infiltrazione sia possibile e "Non è stagione", seppur nei limiti di un libro di genere, ne è una buona ricostruzione, per nulla pesante ma articolata e ritmata che punta il dito proprio su una attività che vive di parcellizzazione di micro mosse, tutte apparentemente indipendenti fra loro, magari ignare delle altre co-presenze che agiscono per un progetto più grande. Ben curata l'indagine sul rapimento, si muove al millimetro con un vice questore che ogni tanto cede il posto alla nostalgia come al suo solito, ma che non dimentica di ricordare a collaboratori e lettori che cosa bisogna tenere presente e a cosa bisogna rispondere e, in questo caso, non è tanto chi abbia rapito la ragazzina quanto il perché.

Meglio il libro o la serie? Stavolta, come accennato, meglio il libro anche se guardando insieme i due lavori, la trasposizione in tre episodi da più spazio per trattare i tre grandi temi, di cui uno è personale, che invece nei libri hanno comunque visibilità ma con un ritmo totalmente diverso.
Del libro di oggi si perde quella voce fuori dal coro, che irrompe in mezzo alla storia. Si capisce che viene da lontano, si percepisce l'odio e anche la follia di un uomo che vive per un unico scopo rispondendo alle leggi di un onore deviato e malato.
La storia che lo riguarda si intravvede tra le maglie di quella principale e spunta fuori all'improvviso senza alcuna logica rendendo perfettamente l'idea della contemporaneità di eventi in luoghi diversi e ha un che di soluzione teatrale ed è davvero ben riuscita.


Nella trasposizione televisiva tutte le sfumature che riguardano l'indagine e che sono costruite secondo una connessione logica invece devono essere selezionate a favore di scene aggiunte e/o decurtate. E nel selezionale la connessione logica si perde un po' e quindi, se fai come me che ho visto prima la serie e poi ho letto i libri ti ritrovi a dire "Ah ecco perché!". Non è un bene, ma se guardi la serie tutta di seguito o con più interruzioni pubblicitarie non te ne accorgi subito.

Cambiano anche i pesi, nonostante lo svolgimento sia in tutta sostanza il medesimo, il ruolo di Rocco si arricchisce e si caratterizza a scapito di questa voce fuori campo che non c'è più ma che si materializza nel momento meno atteso. Cliffhanger all'italiana, che grazie alla clemenza della programmazione ha permesso di non attendere due anni per sapere come sarebbe andato a finire... o meglio lo ha fatto, ma con uno stile, per fortuna nostra, decisamente più elegante.

Marco Giallini. In questo ruolo ha già dato tanto, ma in questo caso si trova a dover far conto su un personaggio che in questo caso non ha altri personaggi di, diciamo, "appoggio". C'è Marina, Italo, D'Intino, Anna, ma nessuno di quelli che lo affiancano è in questa situazione una possibilità per cambiare per essere un altro Rocco Schiavone rispetto a quello che è il vice questore. Quindi la tensione delle indagini, la sovrapposizione delle stesse e il disvelamento dei meccanismi sono tutto quello che deve portare a casa. Poteva venire fuori un'episodio alla Montalbano e invece grazie al puntuale ripescaggio di quelle frasi da grande verità, grazie al ritmo dato alla sceneggiatura, i confronti continui vanno a regalare ai telespettatori un Rocco ancora diverso. È uno che vive l'indagine come l'attore dice di vivere il ruolo: in totale immersione per il tempo dell'indagine, che deve ricercare nei ricordi e nelle sensazioni i motivi per i quali determinati indizi o risultanze non sono così come dovrebbero essere e via dicendo.


Rimane un lavorone di sceneggiatura che ha costretto l'autore e chi l'ha coadiuvato a mettere mano su una vicenda alquanto complessa cercando di tenere in piedi un sistema di tracce che fosse inattaccabile come poi alla fine risulta. La coerenza delle figure rappresentate e degli atteggiamenti tenuti, finanche alla raffinatezza di alcuni dialoghi che imitano quelli di determinati ambienti, ne fanno un lavoro davvero completo che dietro ha una pianificazione articolata e precisa.
Però una cosa la devo dire: la scena dell'intrusione con il vecchio guardiano in pensione, a video, mi è molto mancata. 


Buone letture,
Simona Scravaglieri


Gli altri articoli del percorso:


Non è Stagione
Antonio Manzini
Sellerio Editori Palermo, ed. 2015
Collana "La memoria"
Prezzo 14,00€
Fonte: Sellerio.it

    mercoledì 3 ottobre 2018

    "Castore e polluce" e "L'anello mancante", Antonio Manzini - La denuncia in giallo... #MarcoGiallini #3

    Fonte: Terni in rete

    Messaggio di informazione: a seguito delle modifiche mal gestite di Google, che continuano a complicarmi la vita, ho deciso alla fine di traslocare. LettureSconclusionate migra verso lidi, si spera con una migliore assistenza, più stabili e ricomincia con addirittura un dominio tutto suo. Il trasloco avverrà nel mese di Ottobre ma ci sono già quasi tutti i pezzi qui riportati e lo trovate qui:letturesconclusionate.com 
    Simona Scravaglieri


    Il problema vero sapete qual è? È che Schiavone non sia stato concepito come Giallini, l'attore infatti non era nei pensieri dell'autore, ma che Giallini ci stia come in un guanto dentro. E così, anche quando quelli che sono i testi originali, un po’ lo mettono da parte, lui comunque rimane rilevante e, manco a dirlo, irriverente. Siamo alla terza puntata della serie dedicata a #MarcoGiallini e Antonio Manzini - ci credevate voi che sarei stata così puntuale? io no!- e ai gialli scritti e poi sceneggiati da quest’ultimo. La puntata è associata a due racconti del 2015, usciti in due raccolte diverse rispettivamente “Castore e Polluce” in “Turisti in giallo” e “L’anello mancante” ne “La crisi in giallo”, e non credo che Manzini abbia pensato che l'amalgama che ne è risultata accoppiandoli sarebbe riuscita così naturalmente conservando, però, le caratteristiche peculiari di ogni storia, anzi valorizzandole in una sorta di contrapposizione. Lo dice anche il vice questore verso la fine dell’episodio mentre parla, con fare paterno, ad una Caterina commossa che riesce a malapena a dire che “non è giusto” e le chiede che cosa non sia giusto: che ci sia gente che nonostante abbia tanti soldi voglia accaparrarsi anche quelli degli altri, o che la società si dimentichi di chi per una vita ha lavorato e che oggi non riesce a sopravvivere. E' in questa frase che si può racchiudere tutto il senso dell'episodio costruito abilmente da Manzini perché qui la forma della discussione e dello sguardo sulla società si fa più evidente e mirato grazie anche al tema di fondo delle raccolte a cui i racconti appartengono.



    Da un lato infatti, nella raccolta “Turisti in giallo” - che vi anticipo già di non aver letto in toto perché, santa Sellerio ha previsto un e-book solo per il racconto di Manzini-, la storia di “Castore e Polluce” parte con una vacanza del tutto particolare: siamo in alta montagna e dal rifugio in alta quota stanno uscendo tre alpinisti, sono tre architetti, soci del medesimo studio, che si sono presi una meritata pausa per festeggiare la vincita di un appalto che porterà a tutti un sacco di soldi. Merito del lavoro di gruppo, anche con la collaborazione di Ludovico, il più giovane dei tre, quello che si impunta sempre quando si fanno le cose solo per far contenta la committenza. Ludovico ci tiene all'aderenza allo spirito architettonico che ha sposato per la vita. Ha anche un altro difetto, ha sempre la gomma in bocca e, infatti, mentre escono dal rifugio, dopo una foto di rito, la prima cosa che fa, prima di rimettersi i guanti per ripararsi dal freddo, è prendere e offrire una gomma da masticare. Ma in alta montagna il tempo cambia presto e siccome la fase principale di questa vacanza di festa è portare anche il novellino dello studio alla conquista del Polluce, i tre si incamminano. Nel contempo, e qui siamo nel secondo racconto “L’anello mancante” che è inserito in una raccolta che invece ho letto completamente – “La crisi in giallo”-, non c’è una sola crisi, ma più di una. La morte di un illustre cittadino di Aosta scatena una serie di situazioni che portano ad una débâcle totale: la scoperta di un cadavere nella tomba e sulla bara della donna amata da Brionati, l'illustre di cui sopra, e con la quale aveva il desiderio di ricongiungersi almeno nell'eterno sonno, la corona di fiori che Rocco ordina per non andare al funerale che lo mette in ulteriore difficoltà con Nora che lo vede uscire dal fioraio e con la quale ha già avuto una violenta lite, la soluzione del caso che lo pone nuovamente in quella posizione di giudice prima che Vice Questore.



    Che poi a dirla tutta, nel redigere tutti questi post e a fare le pulci a Manzini, io non sono molto d’accordo con il giudice Baldi che tiene a sottolineare al Vice Questore che il suo ruolo non è quello di giudice. Perché in fondo anche nel rilevare un atto illecito, comunque, si diventa giudici, nel prendere in considerazione lo svolgimento e le eventuali attenuanti che lo hanno scatenato. Sì, nell'idea di Baldi c’è che, queste valutazioni, possano essere accettabili solo nel giudizio in aula, ma Manzini riesce comunque a farti venire il dubbio che non sempre quel che succede sia roba da tribunale. Comunque apriamo una piccola digressione – piccola lo prometto!- sulla raccolta che ho letto, "La crisi in giallo": ci sono tanti autori e ottime prove, alcune forse un po’ lunghe altre un po' meno coinvolgenti, ma a me oltre Manzini, sono piaciuti Gaetano Savatteri, Francesco Recami. Questa lettura non prevista mi ha dato modo di capire perché con Malvaldi non vado d'accordo, o almeno di formulare un'ipotesi, i suoi nonnetti, le chiacchiere da bar fatte sui casi che sconvolgono la cittadina sono per me un vero e proprio rumore di fondo, per una che come me che non ha letto null'altro su quel mondo. In un romanzo magari si può fare, in un racconto forse sono eccessivi.
    “L’anello mancante” è una vera e propria denuncia sociale e contrappone già così due mondi: quello ricco e quello dei nuovi poveri. I nuovi poveri sono quelli per i quali il loro status è un atto di colpevolezza dello stato: sono quelli che hanno lavorato per una vita e che, nonostante tutto, ora percepiscono una pensione da fame. E’ un campanello d’allarme che spesso si ignora sperando che quel momento per noi non arrivi mai e che invece è sempre una realtà dietro l’angolo, anche dentro il caseggiato davanti cui, magari, distrattamente passiamo ogni mattina. E la povertà alza un’altra cortina di silenzi come succedeva anche per la violenza domestica.

    Ed è qui che Manzini diventa Schiavone, non si sostituisce a Baldi ma a qualcuno più su che renda almeno in parte giustizia dove non c'è. La famiglia che si contrappone ai poveri di cui sopra è un gruppo completamente sfasciato: il figlio che non ha visto la madre che rare volte e attaccata al braccio di uomini che non erano suo padre, che odia anche dopo la morte perché gli ha tolto quel bersaglio contro cui puntare tutta la sua rabbia. Un padre lontano e poi morto anche lui. L'unico superstite rimane lui, un uomo non più giovane, in compagnia di un gatto pieno di rancore e solo. Per contro il lato povero della storia è unito anche oltre la morte e la rosa bianca ne è il simbolo: "si può vivere anche senza speranza, ma nella morte la dignità la dobbiamo pur avere" dice la donna ad uno Schiavone che fatica a rimanere saldo nel suo ruolo. Credo che sia la scena, sia nel libro che nella puntata e forse nella serie, più forte e intensa.
    Per contro in "Castore e Polluce", che è il racconto che si contrappone alla denuncia de "L'anello mancante", la questione è molto più facile da gestire, il problema è dimostrare il modo in cui si siano svolti i fatti e il movente che ha generato l'irreparabile gesto. Non c'è un attimo di dubbio e come di consueto ogni omicidio o presunto tale ha un particolare squadrato rispetto l'immagine generale, sul Polluce manca un orologio e nel cimitero di Aosta manca un anello. Sottile ma decisamente raffinato il riferimento al mito classico: Castore e Polluce erano considerati da greci e romani come gli dei del soccorso, ma erano anche quei due fratelli inseparabili che, quando uno muore, l'altro che al padre di poter rinunciare al dono dell'immortalità per poter raggiungere il fratello. In questo caso non ci sono fratelli ma una simbiosi di opportunità fra due dei tre personaggi.

    Meglio i racconti o la puntata? Mettiamola così, il lavoro fatto da Manzini per amalgamare i due racconti insieme è magistrale, le contrapposizioni sono evidenti, la formula di raccontarli in simultanea è vincente e le battute dei racconti, nella quasi totalità riportate in sceneggiatura sembrano nate proprio per essere pronunciate prima che scritte. Mi rimane solo un dubbio sul numero di pensioni del secondo racconto: c'è una coppia di domestici presentati come tali, c'è un custode andato in pensione e una sola pensione riconosciuta, quando dovrebbero essere due. Ma mi si potrebbe obiettare che non tutti ti pagano i contributi, e io potrei anche accettarlo ma, in tutta l'attenzione maniacale di Manzini, la non specifica mi squadra il quadro generale e mi sento un po' Schiavone anche io. Quindi, non avrei mai creduto di scriverlo, questa volta meglio la puntata anche se, e bisogna specificarlo, la mancanza di spazio per la vicenda personale di Schiavone e Nora, l'ho gradita nei racconti perché non lo mette in condizione di gestire una situazione di disturbo.

    Giallini vs Schiavone. Quando all'inizio della recensione dicevo che Giallini nei panni di Schiavone ci sta benissimo è perché, in particolare in questo episodio, mette in luce tutti quei particolari che nell'immaginario di ogni romano, e forse anche non, appartengono ad uno cresciuto nel rione, Trastevere o Nomentano non ha importanza, e che sono sfumature ma che rendono il personaggio rotondo, veritiero. Tra queste, a parte la gestione delle milioni di sigarette e canne con il suo particolare modo di fumare, c'è l'andatura un po' da ragazzotto figo - non mi viene un termine più altolocato perdonatemi! -, c'è un mood generale romano più persistente in parole, tradotte da Italo, in azioni, i confronti con i sottoposti stupidi, in confronti quello con Caterina dove c'è un contatto, un abbraccio e un bacio paterno, che di solito al Nord non è così marcato e poco discreto.
    Sicuramente il lato drammatico delle vicende le gestisce in scioltezza, ma in particolare il confronto comico con D'Intino è davvero irresistibile. Ed è un peccato che D'Intino non stia un granché simpatico manco al suo creatore: da buon abruzzese è di coccio e non è mai sceso a patti con Manzini, mai si è svelato per la sua storia personale e lo scrittore non ha gradito, tanto che in un paio di presentazioni, de "La costola di Adamo", sentenziava, fra le risate generali, che per questo motivo avrebbe volentieri fatto fuori D'Intino vendicandosi dello sgarbo.

    Detto questo, credo che recupererò anche la raccolta che non ho letto, giusto per onor di completezza, ma, per oggi, vi metto però i riferimenti di quello di cui vi ho parlato.
    Buone letture,
    Simona Scravaglieri 


    Gli altri post di questa serie:
    Castore e Polluce
    Antonio Manzini
    Sellerio Editori Palermo, Ed. 2017 (solo ebook)
    Prezzo 2,99€

    La crisi in Giallo
    Antonio Manzini, Nicola Fantini, Laura Pariani, Dominique Manotti, Francesco Recami e Gaetano Savatteri
    Sellerio Editori Palermo, Ed. 2015
    Collana "La memoria"
    Prezzo 14,00€

    Fonte: Sellerio
    Fonte: Sellerio


    domenica 30 settembre 2018

    "Caterina", Vincenzo Zonno - L'annichilimento dell'eccesso...



    Fonte: Lo schermo.it
    Messaggio di informazione: a seguito delle modifiche mal gestite di Google, che continuano a complicarmi la vita, ho deciso alla fine di traslocare. LettureSconclusionate migra verso lidi, si spera con una migliore assistenza, più stabili e ricomincia con addirittura un dominio tutto suo. Il trasloco avverrà nel mese di Ottobre ma ci sono già quasi tutti i pezzi qui riportati e lo trovate qui:letturesconclusionate.com 

    Simona Scravaglieri

    Questa è una delle recensioni che non mi piace scrivere perché io ho già letto questo autore, in un altro libro che continuo a consigliare a chiunque mi capiti a tiro, ma questa volta purtroppo non è andato tutto per il verso giusto. Caterina è un romanzo composito con tinte un po' gotiche e un po' horror, che ha un'idea di fondo geniale. Si costruisce su una serie di fotografie, di quelle in bianco e nero, un po' sbiadite e particolarmente grottesche, avete presente? Lo scorrere della storia sembra andare verso una meta e, invece, all'improvviso tutto quello che sembra in un modo non è più tutto quel che è. Il problema è la scrittura, questa volta, scelta per questo tipo di immagini; troppe parole per montare su una storia che non ha bisogno di un gran linguaggio, la bellezza sta nel meccanismo, ma si perde inesorabilmente sotto il peso delle tante, troppe parole che a volte sono anche un po' troppo retoriche.

    Siamo su un carro, nella penombra si scorge una ragazzina. Fuori non si vede poi molto e il carro che la trasporta è pieno di rumori, le pareti e il pavimento scricchiolano sotto l'ondeggiare del carro sul terreno sconnesso. Caterina non vede l'ora di arrivare, i rumori le danno il mal di testa, sono ore che deve andare in bagno ed è stanca. Una radura finalmente si trova, si decide di non proseguire e di accamparsi e, intanto, scopriamo che ci sono più carri e che Caterina lavora in un circo. Non è ancora troppo brava a fare quel che vorrebbe e così il suo impiego è più come tuttofare che come circense. Sua madre sì che era un'artista ma poi è morta e Caterina è finita nel circo dove lavorava che è gestito dal suo ex amante.
    Normale storia di ragazzina senza arte e ne parte che si riscatta? Sì e anche no, non sta a me raccontarvela, ma già dal primo tintinnio di stoviglie si sente che c'è qualcosa che non va, di oscuro e che ti si appiccica addosso fino alla fine del libro.

    La storia c'è come detto, è frammentata composta di inquadrature in cui bosco, radura, i rumori e gli animali, nonché la musica e il vociare delle maestranze si percepiscono distintamente. Non è raccontata a spezzoni, ma i punti cardine, in cui quella che dovrebbe essere una una storia lineare dovrebbe passare per avere una svolta decisiva, sono così grandi e pieni di colori da far sembrare i punti di congiunzione fra uno e l'altro molto più piccoli di quel che dovrebbero essere.
    Il risultato è il ritmo che non viene da un alternarsi di velocità nella scrittura ma proprio dal susseguirsi dei quadri. Ci sono boschi rigogliosi, c'è il senso di comunità strana, diverso da quello che noi percepiamo come tale, perché si sta insieme per sopravvivenza e non per comunanza; c'è anche un che di grettezza che si assocerebbe ad un circo che non se la passa poi benissimo. Ci personaggi che si intravvedono attraverso la  fitta boscaglia, a volte si percepiscono solo e questo non fa che aumentare quel soffocante sentire che c'è qualcosa che non va e la gestione con quadri che rappresentano i punti di snodo, con questo ambiente ci va a nozze. Non ci sono distrazioni esterne, Zonno ha tutto lì e gioca tutto lì, gli echi del mondo lontano, che immagini ma non vedi, sono completamente assenti se non contiamo i ricordi di Caterina. In un crescendo dosato arriva al clou con una buona gestione dei ritmi e dei tempi per poi finire in maniera totalmente inaspettata, come un cerino che ha fatto la fiammata ma si spegne subito. Il suo lavoro al dunque l'ha fatto, ma ti ha lasciato lì a sorpresa.

    Cosa c'è che non va quindi? La scrittura. Seguitemi che è un po' complicato da spiegare.
    È una gran storia, ha tutti i meccanismi dell'horror con questo senso di maligno che ti aleggia intorno, ma è come guardare un film di genere, la protagonista è lì davanti alla porta, urla come un'indemoniata, lei lo sa che succede ha letto il copione, noi intuiamo che se sei andata in un posto così qualcosa dovrà pur succedere e abbiamo già le nostre idee sul fatto che di sicuro la scema aprirà la porta e sarà la fine, e pure quel che sta dietro la porta, di qualsiasi natura esso sia, sa quel che succederà, perché ha tutta l'intenzione a far sì che succeda e ha letto il copione... vi siete stufati? Vi è passato l'attimo d'ansia perché aspettate che io arrivi al punto? Ecco quel che succede!
    Il punto in cui molti scrittori sbagliano è che ci sono storie nate per avere una narrativa minimalista, perché tutta la forza dell'insieme non sta nel vocabolo che si sceglie ma nel meccanismo che si muove. Ogni aggiunta, ogni ricciolo magari in un aggettivo fuori luogo stride, ti disturba e distrae. Così perdi l'attimo perché stai lì a cercare di capire se tutto questo descrivere o riversare vocaboli che si sovrappongano precluda a qualcosa di grandioso e quel che si para di fronte, ovvero il meccanismo nudo e crudo, ne viene annichilito perché non sembra all'altezza delle aspettative.

    Si perde quindi il senso perchè linguaggio scelto e meccanismo delle situazioni percorrono due binari in opposte direzioni e non hanno nulla in comune fra loro. Crea confusione e anche un po' di frustrazione in chi, come me, ha già letto Zonno e sa perfettamente che c'è talento in quella maledettissima penna. Ma questo è il caso classico in cui lo scrittore trova la sua nemesi in un buon editor, che questa volta non è stato al suo ruolo evidentemente. Si sente che era una storia che andava rivista con un occhio esterno che è avulso dall'affezione al proprio scritto. Avere un occhio esterno è pernicioso, lo so, ho due amici che leggono le rare volte che scrivo qualcosa e solitamente uno dei due è l'editor cattivo che mi continua a scrivere "Taglia!", "Taglia!" per poi, quando la storia è ridotta all'osso dirmi, "Uhm, mi sa che manca qualcosa!" (è ancora vivo perché gli voglio bene, sebbene abbia rischiato un paio di volte di non rivedere l'alba!), però avere una persona così ti da la misura di come viene percepito quello che tu non vedi. In questa ampollosità si annidano una serie di errori che potrei dire di leggerezza, ci sono delle frasi che galleggiano o che si ripetono, ci sono termini che sembrano fuori luogo il significato è corretto per l'azione, ma il vocabolo è avulso dal tono generale dello scritto.
    Ripeto, è un vero peccato, ho rimandato questa recensione a lungo perché avevo promesso di scriverla, ma mi scoccia parecchio farla. Per me, il lavoro migliore di Vincenzo è e rimane Non è un vento amico e io continuerò a consigliarlo a chiunque mi capiti a tiro e Zonno rimane sempre un gran maestro nel creare le ambientazioni giuste per le giuste storie.
    Buone letture,
    Simona Scravaglieri  

    Caterina
    Vincenzo Zonno
    Watson Edizioni, Ed. 2018
    Collana "Ombre"
    Prezzo 14,00€


    Fonte: LettureSconclusionate

    sabato 29 settembre 2018

    "La costola di Adamo", Antonio Manzini - Il delitto perfetto... #MarcoGiallini #2

    Fonte: Foggia Today

    Messaggio di informazione: a seguito delle modifiche mal gestite di Google, che continuano a complicarmi la vita, ho deciso alla fine di traslocare. LettureSconclusionate migra verso lidi, si spera con una migliore assistenza, più stabili e ricomincia con addirittura un dominio tutto suo. Il trasloco avverrà nel mese di Ottobre ma ci sono già quasi tutti i pezzi qui riportati e lo trovate qui:letturesconclusionate.com 
    Simona Scravaglieri

    Nel post precedente avrei voluto inserire questa foto, ma purtroppo il libro che ha fra le mani è quello di oggi e quindi ho dovuto soprassedere. Qui Manzini sembra molto rassicurante e l'immagine che da di sé è in contrasto, invece, con quello che si trova ad affrontare il suo protagonista nella storia che ci apprestiamo ad analizzare. Spicca anche un altro aspetto di Schiavone, il suo protagonista, e il fare sottile ed elegante dell'autore gli regala, nelle presentazioni che mi è capitato di trovare in rete - e che giuro cercherò di inserirvi prossimamente-, un grande apprezzamento proprio dal pubblico femminile. 

    Il libro di oggi parla di donne, di violenze domestiche e della solitudine che ne deriva; si occupa anche di immigrazione e di forme di integrazione che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni e non ci soffermiamo nemmeno a considerare. Parla anche un po' dell'autore, attraverso l'amore per i libri e la lettura, ma anche molto della generazione degli anni sessanta e di uomini che guardano al mondo ancora con fare gentile, anche se non sempre, all'apparenza, "gentile" è il primo aggettivo che ti fanno venire in mente.

    In questa storia ci sono tre donne protagoniste tutte con storie personali diverse: c'è Ester la vittima, la sua amica libraria e la domestica di Ester della bielorussia. Sono tre donne molto diverse che entrano in contatto per motivi diversi ma che hanno ampio spazio in questo romanzo.

    Irina è in Italia da qualche anno e fa la domestica, il suo compagno è un musulmano che viene da un luogo completamente opposto a quello in cui lei è vissuta, lui ha un banco di frutta e verdura al mercato. Insieme vorrebbero costruirsi un futuro insieme, e in parte hanno già cominciato convivendo, ma non si possono sposare. La religione glielo impedisce; i parenti di entrambi non gradirebbero la rinuncia al credo religioso in favore dell'amore. Irina, una mattina come tante apre questa storia. Sta andando a casa di Ester in bicicletta anche se c'è ancora neve ai bordi della strada. Arriva, parcheggia, sale ed entra in casa. Il caos regna sovrano in salotto, ma è in cucina che Irina capisce che non è frutto di una litigata o di una festa e corre fuori spaventatissima urlando che ci sono i ladri. È un maresciallo dei carabinieri a venirle, suo malgrado, in aiuto, chiamando la polizia e attendendo l'arrivo delle forze dell'ordine.
    Quando Schiavone entra i ladri non ci sono, ma nello studio c'è Ester che pare essersi impiccata. "Pare", perché in effetti ci sono alcune incongruenze in questo suicidio e Schiavone se ne accorge dopo un po'. Non ci mette tanto perché da subito sente che c'è qualcosa che non va e mentre cammina verso un bar, nel libro, o mentre aspetta l'arrivo della scientifica con Fumagalli (il medico legale) nel film ripercorre in continuazione quei pochi secondi della scoperta del corpo ossessivamente. Il punto è il cortocircuito e sarà quello che si domanderà e ci domanderà praticamente per tutto il libro.
    C'è anche l'amica di Ester, ma la sua storia la dovete scoprire da soli.

    Una delle cose che chiedono più spesso a Manzini, se non contiamo la curiosità su cosa e quanto ci sia dell'autore nel vice questore, è se, prima o poi, Schiavone si innamorerà di nuovo. Io mi aspetto sempre che, stufo di sentirselo chiedere, prima o poi risponda alla maniera della protagonista della serie di video di Educazione cinica. Ma lui non è il tipo ed educazione vuole che si sia disposti e disponibili verso i propri lettori anche quando ti verrebbe da chiedere: ma di tutto il giallo costruito ad arte, di tutte le declinazioni noir inserite in incastri perfetti, dello sguardo al sociale così profondo e che cerca di tirare fuori le emozioni dietro la cortina di omertà e silenzi, lei, davvero sente solo la mancanza dell'attimo rosa? Che poi, nota di colore, a quanto pare è Il Problema di buona parte dei giallisti, thrilleristi e scrittori noir italiani contemporanei a quanto pare.

    In fondo la situazione del protagonista è proprio quel riferimento di base che permette di confrontare quello che dovrebbe essere normalità, ovvero il rapporto tra due persone che si amano, con quanto di brutto si possa nascondere oltre la porta di casa. Mettere Schiavone in condizione di vivere una normalità diversa e reale lo esporrebbe ai soliti litigi, perché non c'è, perché non ha risposto al telefono, non ha fatto la spesa e via dicendo, situazioni che smorzerebbero in buona parte la forza del personaggio. Quindi questa necessità di romanticismo è un po' tanto fuori luogo (magari poi scopro che l'ha fatto ed è riuscito nell'impresa di non deludere le mie aspettative e quelle delle lettrici succitate!).
    Anche se poi Rocco ha comunque delle storie disastrose, che evidentemente sono l'ennesimo metro di misura per poter osservare un uomo che sopravvive in un mondo che non gli appartiene più; con Nora, la donna che frequenta ad Aosta, è scostante, assente e distante. Identifica persino il rimanere a dormire con lei come appendere il cappello. C'è solo in quell'unico attimo di appartenenza nel sesso, ma per la restante parte del tempo rifugge da una donna che pensa di ricoprire nella sua vita un ruolo diverso da quello dell'amante. 

    A far da contraltare arriva il caso di Ester, suicida, che sembra essersi ritirata da un po' dal mondo. Se uno fa la somma di lei si sa poco, sia chiudendo il libro che alla fine del film. Sai che è sposata, è una donna che ancora non ha raggiunto la mezza età. Si aggiunge anche quell'amica libraia che svela quanto amasse leggere e della sua passione per i gialli, che le avevano fatto venire la voglia di scrivere un libro con un delitto perfetto, e quale dolore sia stato il suo ritiro dal gruppo di lettura per un marito geloso. A far da contorno a tutto ciò, c'è Irina, che venuta dalla fredda Bielorussia ha trovato non solo il lavoro in Italia ma anche l'amore. I due sono presenti il giusto ma non sono tanto visibili, nel libro però esce la semplicità della loro vita, una normalità strappata alla loro provenienza e alle convenienze religiose; la loro casa è povera ma pulita ma il loro amore si esplicita nel tenersi per mano in alcune scene del filmato. Il figlio di lui è un poco di buono, le sue amicizie sono ancor meno raccomandabili e non lo è perché figlio di uno straniero ma come un ragazzo qualunque che nell'età dell'adolescenza ha un rifiuto verso quello che vive e che sceglie di percorrere la strada sbagliata; lo sguardo attento di Schiavone capisce al volo la situazione ma non si sofferma più del consentito, dopotutto è un giallo che richiede indagini. 

    Ma è lo sguardo alla storia di Ester che mette a nudo le debolezze che Schiavone nasconde a tutti, l'attenzione verso il gentil sesso, il senso di sconfitta per la mancata prevenzione di un sopruso domestico, quel pugno dato a punizione di quelle botte inferte da un marito che si dichiara "educatore" della propria compagna di vita, è qui che, come donna, ti senti un po' vendicata sebbene l'atteggiamento sia più virile di quanto certe femministe "accetterebbero". Non è così marcato ed è veramente interessante vedere questo apparente contrasto fra la concezione dei rapporti universali, una donna non si tocca e va rispettata, con un senso di poco rispetto percepito da Nora ma non compreso da Rocco. Nora non sembra sapere di Marina, il marito di Ester non sa di quel che scrive la moglie, l'amica libraia non sa se si può fidare del vicequestore e c'è qualcosa che rimane sospeso nelle loro chiacchierate e quest'ultimo come al solito sente il peso degli incastri recependolo e dichiarandolo come l'ennesima rottura di coglioni.

    Meglio il libro o la puntata? Entrambi, se in "Pista nera" era un problema di indizi, che nella trasposizione televisiva si smarrivano in mezzo a tante occorrenze che passano tutte insieme e quindi per poter cogliere la raffinatezza dell'incastro e dell'orchestrazione dell'omicidio te lo dovevi leggere e/o guardare più volte, qui invece l'incastro perfetto è ben visibile ma più complesso diventa carpire l'atteggiamento del protagonista. Se l'altra volta la dicotomia era il vicequestore diviso fra legalità e illegalità, qui il rapporto con il mondo femminile, la questione sociale del rispetto del ruolo femminile su tutti i piani fisico, spirituale e morale fa, all'apparenza, a cazzotti sul comportamento di Schiavone ed è più chiaro solo ed esclusivamente se si tiene in considerazione il ruolo di Nora come amante. D'altronde lo Schiavone virile, con un'immagine ben precisa della donna in testa, lo avevamo già visto in precedenza quando in un interrogatorio si scontra con chi seppur donna, e benché incinta, ha potuto progettare  un crimine violento senza pari. Perché se da un uomo tanta ferocia si può associare, anche se non puoi capirla, il sapere che una donna possa solo pensarlo è un peso che Schiavone non riesce ad accettare. Ed è uno spirito che io associo alla generazione della decade precedente alla mia. Me lo ha fatto ricordare un libro, tra i milioni visto che mi piace complicarmi la vita da lettrice, che ho al momento sottomano: "La nuova generazione perduta" (David Leavitt, trad. Delfina Vezzoli, Mondadori, 1998). E' una raccolta di saggi dell'autore, e nel primo di questi, che da il nome alla raccolta, del 1985 racconta un'immagine della generazione degli anni sessanta che mi ha un po' ricordato una serie di persone che conosco e che a quella decade appartengono. Un po' a dire che se sei nato negli anni sessanta sei un con un piede nel passato e un altro nel futuro e la tua formazione passata è stata forte e non sbiadita. Per quanto tu possa dover rincorrere la tecnologia che hai visto nascere con il Commodore 64, tu hai qualcosa che le generazioni successive hanno perso: delle radici certe e solide; è da qui che parti, che contesti, cui rifiuti l'apparenza e persino l'identificazione. E' chiaro che sono diversi i nostri attuali cinquantenni da quelli americani, ma non perché da noi tutto veniva percepito diversamente o arrivava più tardi, ma proprio perché gravava questo pesante retaggio culturale.

    Una nota di folclore la possiamo svelare però: nell'episodio, ma nessun riferimento nel libro, ad un certo punto il vice questore si ritrova davanti la libreria personale di Ester, molto fornita, visto che anche il marito conferma che fosse una grande lettrice e quale libro esce fuori? L'amica geniale di Elena Ferrante (Edizioni E/O), che io non ho letto ma che amici che lo hanno fatto mi confermano riportare qualche caso di violenza domestica. Ebbene sì, aderenti fino all'ultimo, al tono della storia.

    E Giallini? Giallini ha recentemente (Agosto) rilasciato un'intervista all'ennesima giornalista - che non ritroverò mai!- che lo ha raggiunto nel luogo di vacanza e, a una domanda che non ricordo, ha dato una risposta lapidaria che mi è rimasta impressa e che, riassunta in breve, corrispondeva a: la vita dei personaggi che interpreta nasce sul set e finisce con la chiusura delle riprese. Lui non porta mai il lavoro a casa o oltre la lavorazione del film.  Mi è rimasta particolarmente impressa non perché non me lo aspettassi ma spiegherebbe il perché, quando gli domandano ogni volta se gli è piaciuto interpretare questo o quel ruolo e cosa pensa abbia in comune con il personaggio o se si rispecchia  in quel tipo di vita, lui abbia un secondo di tentennamento, assuma un'espressione corrucciata e poi dia una risposta, che molto spesso si racchiude con sì o no - molti più no che sì-, e con qualche frase a commento. Sembra così estraneo al ruolo di cui si parla, come se fosse uno che è stato tirato dentro mentre passava fuori per la strada a parlare di una cosa che non gli appartenga. Invece è un'evidenza del distacco avvenuto da quel ruolo, e la distanza dalle fasi del set e della lavorazione alla messa in onda, non siano sempre d'aiuto almeno a questo attore. 

    Nei panni di Rocco ci sta benissimo, Rocco è anch'egli degli anni 60, come anche Manzini. Hanno visto le stesse cose, hanno probabilmente giocato agli stessi giochi e magari storpiato l'italiano creando o attribuendo nuovi significati alle parole. Questo gli permette quindi di mantenere quel piglio che ben ricorda, quel passo sfacciato e leggermente ondulato, da ex spaccone educato e cresciuto, quello sguardo ad un mondo che solo per età sembra allontanarsi dalla giovinezza ma che fa a cazzotti con la tua testa che ancora ragiona come un trentenne. E' divertente vederlo con uno sguardo paterno a volte e divertito in altre quando prende in giro Italo e trova la sua nemesi con Massimo Reale, il cui atteggiamento, prima ancora che il testo della sceneggiatura a lui destinato, è perfettamente in linea con quello del vicequestore. Strafottenza che non è solo quella del toscanaccio ad Aosta, ma anche quella del tramezzino all'obitorio, l'attaccamento ad un grembiule che sembra suggerire uno sgozzamento in una camera, dove c'è i corpo di Ester sterilizzata e pulita, che porta sempre.
    C'è del cameratismo inaspettato fra i due nel prendere in giro Italo, ma si percepisce più nei consigli di Fumagalli a Schiavone, non richiesti, su come si dovrebbe vivere, parlare e accettare una vita possibile lì, in quella città fredda. 

    Gli altri post di questa serie:

    Buone letture,
    Simona Scravaglieri


    La costola di Adamo
    Antonio Manzini
    Sellerio Editori Palermo, ed. 2014
    Collana "La memoria"
    Prezzo 14,00€

    Fonte: Sellerio





    mercoledì 19 settembre 2018

    "Pista nera", Antonio Manzini - L'eroe antieroe e la distopia del noir.... #MarcoGiallini

    Isabella Ragonese e Marco Giallini

    "Al terzo episodio, sapevo che l'attore era Marco Giallini, al quarto che la serie è tratta dai gialli di Antonio Manzini, al quinto mi hanno detto che i gialli in questione dovevano essere sei, al sesto ho scoperto da Wikipedia che sono in effetti 18 tra romanzi e racconti (Manzini ma quanto scrivi? Perdindirindina!) e che volevo leggerli. In particolare, Manzini mi scuserà, vorrei capire se e quanto la trasposizione televisiva e il libro scritto corrispondano perché nel primo caso esce decisamente tanto l'attore principale e se fossero così costruiti mi piacerebbe capire quanto il Rocco Schiavone di Giallini corrisponda all'idea di Manzini e quanto invece ci sia di suo."

    Iniziava da qui l'idea di un percorso di lettura accennato a Maggio, che poi amor di precisione più che di lettura si tratta di un percorso multimediale visto che #MarcoGiallini è un attore, anche se in passato ha scritto anche qualche articolo per Riders. E così ripartiamo da qui e proprio da quell'episodio che mi aveva convinto a leggere Manzini. I compiti a casa io li ho fatti seguendo la scaletta degli episodi della serie TV, sceneggiati dall'autore stesso coadiuvato da Maurizio Careddu. 
    "Pista nera" (Sellerio, 2013) è il primo romanzo in assoluto della serie che in linea temporale è stato anticipato da un racconto ("L'accattone" raccolta "Capodanno in giallo", Sellerio, 2012), per vedere la presa sul pubblico - come ammette Manzini in un'intervista- ma scritto successivamente al romanzo citato.

    Quello che ho scoperto leggendo Manzini è che è uno scrittore fuori dai soliti schemi, con il suo amore per la parola e per la sonorità del testo, che è precisissimo riguardo la terminologia medica - in alcuni casi sfiora la pedanteria, tanto da farmelo immaginare un po' ipocondriaco - che ha un talento per intessere le trame del giallo classico talmente spiccato da non dover nascondere nulla ai propri lettori riguardo le indagini. I casi narrati nel ciclo non hanno bisogno di abbellimenti: sono e nascono complessi come lo sono in generale quelli reali da cui, Manzini, in una serata al MAXXI con De Giovanni e Robecchi, dice di attingere per ispirazione; se una costante c'è nel "Manzini-style" è che colui che commette il male ("il reato" è sempre un limite verbale nella cosmologia manziniana che non permette di guardare alla realtà dell'atto nel suo complesso) è sempre l'insospettabile, anche se losco. Per costruire quel singolo atto, il colpevole deve crearsi una rete di normalità, rivestirsi di abitudine e finanche calarsi o vivere nella normalità più brutale e anonima ai più. Un omicidio, un furto, la rapina e via dicendo, si ammantano di tutti quegli aspetti del male che noi riconosciamo nella normalità come altro, come fato (povertà, malattia, solitudine etc) oppure la necessità che giustifica il gesto (l'ingiustizia sociale, la vendetta per un torto subito). Solo in un caso l'autore fa ricorso ad un reato che ricade nel classico di genere, anche se, nella combinazione dei due racconti che costituiscono l'architettura della puntata, non rinuncia ad affiancargliene un altro di contrappeso e di denuncia verso una sostanziale "dimenticanza" sociale della società civile e delle istituzioni.  

    Dopo tutto questo, anche con l'aiuto di interviste e convegni che sono disponibili in rete, ho scoperto che Rocco Schiavone è un po' da considerarsi come un grande puzzle, che racchiude le caratteristiche abitudinarie di molti e che proprio per questo starebbe antipatico a tanti; ma all'autore tutta questa architettura non basta per avere un personaggio verosimile, così gli crea attorno un'atmosfera distopica che mina tutte le sue possibili certezze: la moglie, le donne, gli amici, i collaboratori, la città. Tutti questi pilastri, in cui un uomo normale alle strette cercherebbe un rifugio certo, crollano uno ad uno, costringendo un uomo che viveva sospeso fra legalità, senso della giustizia e illegalità a doversi mettere in discussione e alla prova ancora una volta. 
    "Pista nera" non è un lavoro distopico intendiamoci, è un giallo in piena regola con una marcata vena noir. La distopia sta solo nella creazione del personaggio e della situazione in cui lasciarlo muovere come una cavia.

    Prendi un uomo che di suo è poco "sociale" ma che ha una moglie che ama alla follia e degli amici che conosce fin da ragazzino. Come ammette anche il vicequestore nei suoi pensieri, nello scorrere del libro, nella sua Trastevere degli anni '60 si giocava a guardie e ladri e da grandi si potevano scegliere solo due strade. Se i suoi amici hanno scelto quelle illegali, Rocco ha  intrapreso la professione più comoda: quella della guardia che conosce da vicino il mondo dei ladri. E questa è una delle caratteristiche che Manzini riuscirà, nel corso dei romanzi e dei racconti che ho letto, a sfruttare con una certa nonchalance dando l'opportunità a Rocco Schiavone di far vedere ai suoi lettori entrambi i lati della barricata anche nel corso delle sue investigazioni.
    Dicevamo, prendi un uomo e allontana o fai sparire i suoi punti cardinali, quelli che danno peso e certezza alla sua vita, portalo al punto più basso della rovina personale e lavorativa con una serie di situazioni create da lui e altre che sono completamente indipendenti o forse derivate. Un uomo che improvvisamente si trova solo che per giunta viene mandato a mille e più km da ciò che conosce, uno che ha già stabilito che la sua vita è finita il 7 luglio del 2007 e che si trova a dover ricominciare un qualcosa che non dovrebbe esserci più. Rocco è in quel punto che, nel genere distopico, è l'inizio dopo la rovina e da dove i personaggi sopravvissuti devono ripartire per ricreare una qualsivoglia normalità che deve essere diversa da quella che ha portato alla distruzione che stanno subendo. Ma Schiavone è recalcitrante proprio perché, come detto, parte da sconfitto. Non si tira indietro a quel che gli capita, ma è deciso a dimostrare tutto il suo risentito dissenso in parte materialmente (le Clark e il Loden in mezzo alla neve), in parte in azioni (il rifiuto di arredare la casa in affitto, di farci entrare gli estranei e anche gli amici e di dare al barman di Aosta qualsiasi possibilità di ricordargli che oramai è di casa chiedendo "Il solito dottore?") e infine con un sarcasmo, in alcuni punti diventa cinismo, per nulla nascosto verso le figure a cui si deve affiancare (il giudice, il questore, D'Intino).

    L'indagine. Su una pista di servizio per i gatti delle nevi, uno di questi mostri meccanici passa su quello che a tutti gli effetti è il cadavere di un uomo. L'uomo è irriconoscibile e senza documenti, il gattista è sconvolto ed è uno alle prime armi e giura di non aver visto passare nessuno davanti a lui mentre scendeva. Manca un guanto e il vicequestore, sotto gli occhi dei suoi nuovi collaboratori perplessi, osserva cose che loro non vedono e non capiscono. Si presenta il giudice Baldi che nemmeno è arrivato e già minaccia il suo nuovo collaboratore dicendo che "sa di lui abbastanza" e gli intima di chiudere il caso al più presto, dentro i limiti previsti dalla legge. Già questo, in termini di tempo e di spazio, regala al lettore e al telespettatore il quadro generale di quello che si troverà davanti: un giudice umorale, un vicequestore un po' cretino che gira con le clarck e il Loden sulla neve e cui piace vendicarsi, nei toni delle risposte, di coloro che si presentano come gradassi. 
    Ma la domanda rimane una: un uomo nel buio, su una pista di servizio innevata a 1.500 metri di altezza che ci faceva? E perché manca un guanto? Gli indizi nel libro vengono tutti seguiti e presentati con dovizia di particolari, vengono commentate azioni e i tempi, su cui Rocco invita, di volta in volta, a riflettere i collaboratori, il giudice e anche il questore, nonché i suoi lettori. Indagine che si concluderà in perfetta coerenza con il percorso fatto per risolverla: ogni tassello avrà il suo posto e la sua spiegazione senza doverne dare una completa alla Poirot o alla Sherlock Holmes alla fine. Questo perché Rocco è umano, è un uomo di mezz'età che non ha bisogno e non vuole le luci della ribalta; a lui non interessa vincere sul "male" ma fare giustizia, anche se questa rivela spesso la bassezza delle ragioni che si usano come giustificazione per gli atti più biechi.

    A margine di questa storia  c'è anche un'altra vicenda che vede coinvolto l'amico più caro di Roma, Seba. È l'ago della bilancia che permette al protagonista di farsi percepire come uno di noi, anche agendo ai limiti della legalità: un carico dalla Germania, materiale da requisire per poi dire "abbiamo avuto una soffiata". Poi una scoperta e la decisione da giudice armato non di "Giustizia" ma solo di "senso della giustizia personale". Ma questa storia ve la dovete svolgere da soli. Come dice Manzini, si è fatto un gran parlare della personale preghiera laica di Schiavone in TV, mettendosi a contestare un vicequestore che si fa le canne appena arrivato in ufficio, ma nessuno si è preoccupato di dire nulla della sua carriera parallela. Ecco in questo ha ragione, perché quell'aspetto, che divide la vita e il pensiero di un uomo normale da quella di un rappresentante delle forze dell'ordine che la legge non la deve solo applicare ma conoscere a memoria grazie ai suoi studi, è quello che regala al personaggio la verosimiglianza rendendolo davvero reale. L'uomo, quello comune contesta molto spesso i limiti della Giustizia, non sul piano filosofico o quello qualunquista di Baldi, e in questo contesto non è l'uomo ma il vice questore che deroga alla Giustizia, uguale per tutti ma proprio per questo mai giusta per nessuno, in favore di un "senso di giustizia" che, come dice Baldi in un'altra occasione, lo fa calare nelle vesti di colui che decide solo in base a convinzioni personali, condivisibili ma non per questo eticamente giuste. E, strano a dirsi, queste vicende sono un'ulteriore finestra nella distopia personale di Schiavone e quella ancora più grande della sfera sociale. Sono quegli scorci che ce lo rendono più vicino, proprio perché soddisfano il nostro senso di giustizia ma che dimostrano anche il nostro naturale limite nel guardare alle cose: il malaffare non è mai uguale per tutti come non lo è la nostra percezione della giustizia fatta. Siamo naturalmente portati a fare una selezione del reato e di chi lo commette, non in base alla gravità dello stesso ma  al nostro "senso di giustizia" limitato al nostro personale sentire e questo rappresenta, in tutto e per tutto, la sconfitta sociale che viviamo ogni giorno quando giudichiamo come azione giusta anche un illecito. È un po' come pensare al povero che non ha nulla da mangiare che ruba una mela da dare ai figli e confrontarlo con il ricco che sottrae soldi allo stato: entrambi sono crimini equipollenti perché sono furti. Ma la natura umana rifugge dalla logica inoppugnabile della Giustizia e ci porta a guardare alla necessità del povero e alla futilità del ricco. Lo sguardo di Manzini è quello dell'intellettuale classico, quello di una volta, che sa che non è nel suo ruolo giudicare ma sta a lui alzare l'asticella della riflessione e della discussione. È un discorso scomodo, concediamolo, ma ci permette di misurarci su un terreno complesso e capire a quanta della libertà e della civiltà di cui ci vantiamo siamo disposti a rinunciare per il nostro senso di giustizia che non necessariamente è equanime.

    Nè Manzini e né Giallini  sono Rocco Schiavone. Di Giallini, Manzini, in un'intervista dice che, prima di averlo segnalato fra i possibili protagonisti, ne sapeva poco. Giallini in un'altra ammette che i libri li ha letti dopo che gli hanno parlato del personaggio e che ha deciso di accettare il ruolo e, in un'altra occasione, dice di aver sentito quel personaggio molto suo.
    A Schiavone, Manzini, ha regalato di suo solo la scala delle "Rotture di coglioni" che è una sua graduatoria che si continua a riempire di nuove voci. Giallini, invece, a Schiavone regala la rotondità di una interpretazione che lo rappresenta in tutte le sue sfumature e che diventa più ricca nei suoi momenti bui. Sono quelli che Rocco condivide con la sua Marina, la donna che ama e con la quale vuole ritrovare quel calore e quella serenità perduti al netto del mondo che lo circonda. Sono momenti fatti di gesti, di movimenti, di sguardi nella quotidianità che però non cedono il passo a stucchevolezze di sorta (grazie Antonio!), la divisione fra i due c'è, e c'è un motivo che in questo libro è accennata e nella serie invece si svela nel secondo episodio, ma non è questo che li limita. Il rapporto tra Marina e Rocco è quello di una coppia consolidata e complice, in cui il bacio o la parolina dolce non sono qualificanti come dimostrazioni d'amore. La vera dimostrazione di amore è quella di non voler rompere l'idillio di quei rari momenti insieme, contaminandoli con il male esterno che logora e insudicia la vita fuori, come nel gesto della scena finale di "Pista nera" in cui un insofferente Rocco non vuole dire a sua moglie cosa non va nell'aver risolto un caso: si alza dalla posizione in cui stava dormendo sul divano accanto a lei, si sistema seduto e quando lei insiste, lui si sporge senza un fiato verso il tavolino davanti, la macchina da presa lo inquadra mentre allunga un braccio per prendere una sigaretta e nel contempo incassa la testa nelle spalle e arrotola come un gatto la schiena, mentre la accende. Un modo fisico per dire "non mi costringere a dirlo, parliamo d'altro!". Una sequenza più da teatro che da cinema, perché non prevede parlato e non è l'espressione del volto dell'attore che comanda, quanto l'utilizzo che lui fa della sua fisicità, in quello spazio ristretto, per esprimere una malessere e il derivante peso di portarlo come un fardello dietro ogni giorno che passa. 
    A teatro tu non sempre sei davanti, non vedi distintamente la faccia dell'attore, ne scorgi i lineamenti grazie al trucco teatrale che contrasta l'appiattimento delle luci forti di scena: a farla da padrone sono il tono della voce e la fisicità che sottolinea le parole, i gesti, la situazione. Ecco, la scena appena descritta, costruita a dovere con una inquadratura grande come un divano a due posti, la posizione degli attori che quasi si incrociano ma non si toccano, Giallini si sistema ma Isabella Ragonese (Marina) non deve spostare il ginocchio a testimonianza che non sono in contatto, si nutre di movenze appena accennate ma che sono tutta eredità del mondo teatrale. Lei domanda ma non si propende, a sottolineare la distanza, rimane ferma persino quando insiste, quasi non possa superare la linea del cuscino nero ricamato su cui lui poco prima poggiava la testa e che è rimasto lì, in una posizione quasi innaturale ma non casca.

    Lo Schiavone di Manzini e quello di Giallini si assomigliano? Diciamo che si completano. Nel passaggio da libro a serie Tv, Rocco perde qualche pensiero espresso in maniera forse un po' brutale (sono pochi però) e qualche sberla di troppo. Giallini lo completa svolgendolo in tutta la sua "romanità" e accentua la dicotomia fra quello che poteva diventare e quello che è. Quello che è il Rocco della serie TV, complice sicuramente la mano di Manzini, è un uomo più verosimigliante perché mantiene le sue caratteristiche di borgata di quartiere povero, ma dimostra la contaminazione subita dalla cultura acquisita nel corso degli studi (l'ennesima dicotomia fra quello che sente di essere e quello che invece è), per cui laddove necessario e solo in estrema ratio e per motivi d'indagine, per esempio, scende a "livello sberla" ma non eccede, come invece nel libro fa. Il confronto con Seba, che nel libro è solo fisico (quest'ultimo viene descritto come un omaccione, quasi un orso, il suo corrispettivo filmico non è così corpulento ma conserva questo spirito rude ma molto più umanizzato e accattivante), sullo schermo diventa il metro con il quale misurare la strada fatta per separarli che però non è bastata a scalzare l'amore amicale. E Rocco vive una profonda dicotomia fra un passato cui appartiene ma che, al contempo, non gli appartiene più.
    Meglio la puntata o il libro? Entrambi. Libro e film, o chiamatelo come vi pare, si integrano coprendo alcune sfumature che singolarmente le penalizzano. La profondità dell'indagine viene fuori se la puntata la vedi con attenzione più volte, perché alcuni particolari, nell'incrociarsi degli eventi, non sono così evidenti, per cui in alcuni punti sei distratto e la spiegazione finale un po' galleggia. Il libro ti permette di apprezzare la finezza dell'intuito dell'autore che incastra una situazione perfetta in una trama che, su una ragnatela di indizi che collegati con la giusta sequenza, ha una solidità difficilmente attaccabile e che non richiede ulteriori spiegazioni.

    Della carriera di Manzini, di quella di Giallini, che da il nome al percorso, delle altre "notiziole" di contorno alla serie e al rapporto dei citati con Schiavone ne riparleremo di volta in volta. Strano a dirsi per me che sapevo praticamente nulla su tutti e tre, ma tra interviste, conferenze, articoli ci sono mille sfumature che ridefiniscono l'immagine generale e che è difficile sintetizzare se non con il rischio di sembrare pedanti o peggio dei "fan sfegatati" ovvero il corrispettivo, se esiste, del nerd nel mondo della fantascienza. Il percorso non nasce per ingigantire un mito, che in parte già c'è ed è composto di un seguito corposo per entrambi, ma per capire quali siano i meccanismi che lo rendono caro ad un pubblico trasversale, tra lettori e non lettori, anziani e giovani e di estrazione sociale e culturale differente.  La forchetta del gradimento è talmente ampia che io davvero ho glissato Manzini scientemente pensando il solito "caso letterario", cosa che invece a conti fatti non è, o se lo sembra, utilizza questo suo potere per continuare a fare la differenza non soltanto con l'impegno verso il sociale, inserendone i temi scottanti nelle sue trame, ma anche non scendendo a patti con una forma narrativa semplice, ricercando una formula invece più ricercata che si nutre anche della parola sconosciuta o desueta proposta in maniera da non essere di fastidio anche a chi non vuole sentirsi in difficoltà.
    Però un paio di note di folklore possiamo aggiungerle anche qui:
    - riguardo il libro: Manzini, in una presentazione dice che "Pista nera" nasce proprio a Champoluc, in una gita fatta con la sorella e il marito. Avevano perso la funivia per risalire al rifugio che li avrebbe ospitati e quindi hanno dovuto risalire con il gatto delle nevi e in quella occasione Manzini si domandò " e se passiamo sopra una persona?". In un'altra presentazione integra la storia dicendo che dopo questo pensiero, l'ispirazione è stata così forte da aver passato l'intera settimana di vacanza a scrivere invece che a sciare.
    - riguardo la serie: Ogni volta che si chiede a Manzini dell'insana cocciutaggine di Schiavone nel continuare ad indossare Clark e Loden se lo si osserva bene a lui viene da ridere sotto i baffi che non ha. In una delle tante presentazioni di libri si capisce il perché quando spiega che, all'inizio delle riprese televisive, alle due di notte il telefono squillava e quando rispondeva una voce (di Giallini) esclamava solo "Manzini! Mortacci tua!" e buttava giù. Riguardo il Loden in particolare invece ha una risposta più articolata: è un accessorio che in montagna è un cappotto primaverile ma per uno che è sempre vissuto a Roma e il massimo dell'altitudine frequentata è Monte Mario (300 mt) è naturale considerarlo un cappotto invernale. Questo la dice molto sui pezzi che hanno composto il grande puzzle che è Schiavone.

    Sperando che non siate morti di inedia, vi do appuntamento al prossimo libro per questo percorso. I libri che compongono la prima stagione sono quattro romanzi e due racconti. Per chi non lo sapesse, la prima stagione di Rocco Schiavone che sta andando in replica in questa settimana da fine agosto è visibile su RaiPlay e su Prime Video di Amazon (disponibile per i clienti Prime).
    Buone letture e buona visione,
    Simona Scravaglieri 


    Pista nera
    Antonio Manzini
    Sellerio editore Palermo, ed. 2013
    Collana "La memoria"
    Prezzo 13,00€
    Ebook 8,99€





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