Fonte: This is our town Richmond |
Nonostante le biografie austeramente vittoriane della Braddon, la nostra Mary Elizabeth era una donna estremamente intraprendente! EÈ stata una sorpresa scoprire che i suoi primi passi nel mondo delle arti, la nostra scrittrice, li muove su un palco. Trova poi dei mecenati e inizia a scrivere delle poesie sotto pseudonimo finché non esordisce con la sua opera più famosa, ovvero quella che vi presento oggi "Il segreto di Lady Audley", su un giornale per "working-class readers" ovvero per i lettori della classe operaia. L'editore è John Maxwell che sarà l'uomo, già sposato, con cui andrà a convivere generando scandalo, la loro unione sarà sancito solo alla morte della moglie di lui. Muore nel 1915, dopo aver anche prestato soccorso ai soldati feriti come infermiera, credo, di aneurisma - ma non si capisce bene, ve lo dirò, se lo scopro, nella recensione-. Un peperino non trovate?
Ma cosa aveva così di particolare questo libro? Non l'ho ancora finito, in questo momento mi mancano circa 150 pagine, ma le caratteristiche mi sono già chiare:
- mistero;
- amori vari;
- gelosie;
- morti.
Non serve altro per creare una storia, che è andata in stampa a puntate settimanali fra il 1861 e il '62, che tenesse sulle spine i lettori dal primo capitolo all'ultimo.
Lady Audley è spuntata fuori dal nulla, rispondendo ad un annuncio di lavoro di un medico del paesino di Audley. Nessuno sa nulla di lei, ma un bel giorno incontra Sir Audley che s'innamora perdutamente di lei e la chiede in sposa. È una donna invidiata ma non sembra preoccuparsene. Un bel giorno però, al castello dove abita con il nuovo marito e la figliastra, si presenta Robert, il nipote di Sir Audley che è accompagnato da un amico: George Talboys. Nella di strano che George non riesca a vedere la nuova lady se non su un dipinto, può succedere, non si erano fatti annunciare con debito anticipo e la signora è già impegnata. Ma un bel giorno, Talboys improvvisamente sparisce. L'ultimo luogo dove è stato visto: il castello di Audley. L'ultima persona con cui ha parlato: un domestico del castello che gli ha indicato in che parte del giardino trovare la signora. Qualcosa non torna e Robert vuole andare a fondo...
Diciamo che all'inizio non lasciava presagire bene. In questo caso si sente che la mano di chi scrive è femminile e che ha un gusto particolarmente ricercato per le descrizioni. Ma dopo qualche capitolo, quando si è nel bel mezzo dell'azione, il romanzo decolla assumendo le caratteristiche di un vero giallo in cui il nostro avvocato, Robert Audley, dovrà raccogliere indizio per indizio per dimostrare la propria tesi. Fino ad ora è stata una lettura decisamente avvincente, ma ne riparleremo in recensione.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Capitolo I
Lucy
Si estendeva in una zona prativa bassa, ricca di boschi e di pascoli, e vi si giungeva per un viale di tigli, fiancheggiato da prati su entrambi i lati. Al di sopra delle alte siepi, il bestiame osservava con curiosità chi passava, chiedendosi cosa mai potesse volere, perché non esistevano strade di transito e, a meno che ci si recasse al Castello, non vi era motivo di trovarsi lì.
Alla fine del viale c’erano un arco antico e una torre con uno stupido e sconcertante orologio che aveva un’unica lancetta e saltava direttamente da un’ora all’altra ed era quindi sempre perentorio nelle sue indicazioni. Attraverso l’arco si entrava direttamente nel giardino di Audley Court.
Davanti si stendeva un prato uniforme, punteggiato di ciuffi di rododendri che qui crescevano in modo più rigoglioso che altrove nella contea. A destra gli orti, il laghetto dei pesci e un frutteto cinto da un fossato asciutto e i ruderi di un muro, in alcuni punti più largo che alto e ricoperto completamente di edera rampicante, borraccina gialla e muschio scuro. A sinistra, un ampio vialetto ghiaioso, lungo il quale, anni prima, quando il luogo era ancora un convento, le suore passeggiavano silenziose mano nella mano; un muro, fiancheggiato di spalliere di alberi e ombreggiato da un lato da belle querce che nascondevano il piatto panorama e offrivano alla casa e al giardino un riparo ombroso.
La dimora fronteggiava l’arco e occupava i tre lati di un quadrilatero. Era molto antica, irregolare ed estesa. Le finestre erano tutte diverse: alcune piccole, altre grandi, alcune dotate di pesanti montanti di pietra e vetri riccamente piombati, altre di fragili grate che sbatacchiavano a ogni brezza, altre ancora così moderne sembravano aggiunte solo il giorno prima. Un gran numero di camini si ergevano qui e là dietro i frontoni appuntiti e sembravano così malconci per l’età e l’usura da essere quasi sul punto di cadere, se non fosse stato per l’edera rampicante che, salendo su per i muri e strisciando sul tetto, vi si avvinghiava e li sosteneva. La porta d’ingresso era relegata nel cantuccio di una torretta in un angolo dell’edificio, come per tenersi nascosta ai visitatori pericolosi e per un desiderio di segretezza. Si trattava, peraltro, di una nobile porta, di quercia antica, ornata di grandi chiodi dalla capocchia quadrata e così spessa che il batacchio di ferro la percuoteva con un suono soffocato; il visitatore suonava un campanello dal timbro metallico, che penzolava in un angolo fra l’edera, per timore che il rumore di un semplice bussare non riuscisse a penetrare nella fortezza.
Un luogo antico e glorioso, un luogo per il quale i visitatori si entusiasmavano, che faceva provare loro un forte desiderio di rinunciare alla vita e restare lì per sempre a contemplare il freddo laghetto dei pesci e a contare le bolle quando la lasca e la carpa salivano in superficie. Era un luogo che la Pace sembrava aver eletto a propria dimora, posando la mano consolatrice su ogni albero e fiore, sugli stagni immobili e sui vialetti tranquilli, sugli angoli ombrosi delle stanze un po’ fuori moda, sugli ampi sedili incassati sotto le finestre a riquadri, sui bassi prati e sui viali maestosi… sì, persino sul pozzo stagnante che, fresco e riparato come ogni altro punto di quel luogo antico, si celava in un boschetto dietro il giardino, con una manovella che non veniva mai girata e una fune oziosa talmente marcia che il secchio si era staccato ed era caduto nell’acqua.
Un luogo nobile, nobile all’interno come all’esterno, una dimora nella quale ci si perdeva subito, se si era così incauti da addentrarvisi da soli; una dimora nella quale nessuna stanza assomigliava all’altra e ognuna mutava improvvisamente direzione, affacciandosi su una stanza interna, comunicando così con una stretta scala che conduceva a una porticina che, a sua volta, riconduceva in una parte della casa dalla quale si pensava di essere lontanissimi. Si trattava di una dimora che non poteva essere stata progettata da un architetto di nascita mortale, ma che sicuramente era il manufatto di quell’antico costruttore, il Tempo, che, aggiungendo una stanza un anno e cancellandone un’altra quello successivo, abbattendo un camino coevo ai Plantageneti e tirandone su uno in stile Tudor, demolendo un pezzetto di muro sassone qui ed elevando un arco normanno là, aggiungendo una fila di finestre strette e alte durante il regno della regina Anna e affiancando una sala da pranzo secondo i dettami della moda dei tempi di Giorgio I della casata degli Hannover a un refettorio che risaliva alla conquista normanna, era riuscito in poco più di dieci secoli a costruire un edificio che non aveva eguali in tutta la contea dell’Essex. In una casa di questo genere esistevano naturalmente delle stanze segrete; la figlioletta dell’attuale proprietario, Sir Michael Audley, ne aveva scoperta una per caso. Una tavola del pavimento nella grande nursery dove giocava si era mossa sotto i suoi piedi e dopo averla esaminata con attenzione si era visto che non era fissata; era stata quindi tolta, rivelando una scaletta che conduceva a un nascondiglio tra il pavimento della nursery e il soffitto della stanza sottostante: un nascondiglio così piccolo che chi si fosse rifugiato lì avrebbe dovuto restare accucciato a quattro zampe oppure disteso, e tuttavia abbastanza grande da contenere un grazioso canterano di quercia scolpita, riempito per metà di vesti talari, nascoste indubbiamente in quei tempi crudeli durante i quali si rischiava la vita se qualcuno scopriva che si era dato rifugio a un prete cattolico, o se si era celebrata una messa in casa.
Il largo fossato esterno era asciutto e ricoperto d’erba e gli alberi carichi del frutteto lo sovrastavano con solitari rami nodosi che disegnavano fantasiosi tracciati sul pendio verde. All’interno di questo fossato c’era, come ho detto, il laghetto dei pesci, uno specchio d’acqua che si estendeva per tutta la lunghezza del giardino, fiancheggiato da una strada chiamata viale dei tigli, un viale così riparato dal sole e dal cielo, così protetto dalla vista grazie al solido riparo degli alberi che lo sovrastavano con la loro volta, da essere il luogo preferito per gli appuntamenti segreti o i colloqui rubati; un luogo dove era possibile escogitare un complotto oppure pronunciare un giuramento d’amore con uguale segretezza; eppure non distava nemmeno venti passi dalla casa.
Alla fine di questa galleria ombrosa c’era il boschetto dove, mezza sepolta tra i rami intrecciati e le erbacce trascurate, si trovava la ruota rugginosa di quell’antico pozzo che ho già menzionato. A suo tempo sarà stato di indubbia utilità, e forse le suore indaffarate vi avranno attinto l’acqua fresca con le loro belle mani bianche, ma ormai era caduto in disuso e difficilmente qualcuno ad Audley Court avrebbe saputo dire se la sorgente si fosse o meno prosciugata. Ma per quanto la solitudine del viale dei tigli offrisse un rifugio, dubito che fosse mai stato usato per scopi romantici. Spesso, nella frescura serale, Sir Michael Audley passeggiava avanti e indietro, fumando il sigaro, con il cane al seguito e la moglie giovane e graziosa al suo fianco; ma di solito dopo una decina di minuti il baronetto e la sua compagna si stancavano dei tigli fruscianti e dell’acqua immobile, nascosta sotto le larghe foglie delle ninfee, e dell’ampio panorama verde che si chiudeva da un lato con il pozzo in rovina e facevano ritorno nel salottino bianco, dove la signora suonava sognanti melodie di Beethoven e Mendelssohn finché il marito non si addormentava nella sua poltrona.
Sir Michael Audley aveva cinquantasei anni e si era sposato per la seconda volta tre mesi dopo il suo cinquantacinquesimo compleanno. Era un omone alto e robusto, con una voce profonda e sonante, dei begli occhi neri e la barba bianca… una barba che lo faceva sembrare venerabile suo malgrado, perché aveva il dinamismo di un ragazzino ed era uno dei cavalieri più vigorosi della contea. Vedovo per diciassette anni, aveva un’unica figlia, Alicia Audley, ora diciottenne e niente affatto contenta che al Castello fosse giunta una matrigna, perché Alicia aveva regnato incontrastata nella casa del padre fin dalla primissima infanzia, portandone le chiavi e facendole tintinnare nella tasca del grembiale di seta, perdendole nel boschetto e lasciandole cadere nel laghetto dei pesci, e procurando seccature di ogni genere fin da quando era entrata nell’adolescenza e per questo motivo era sinceramente convinta di aver diretto la casa per tutti quegli anni.
Ma i giorni di Miss Alicia erano finiti e adesso, quando chiedeva qualcosa alla governante, costei le rispondeva che ne avrebbe parlato con la signora, o che si sarebbe consultata con la signora e, se piaceva alla signora, sarebbe stato fatto. Così la figlia del baronetto, che era un’eccellente cavallerizza e un’artista molto capace, trascorreva la maggior parte del tempo all’aperto, cavalcando per i sentieri verdi e ritraendo i bambini delle casupole e i contadinelli, il bestiame e ogni genere di vita animale che le capitava sotto gli occhi. Si opponeva con imbronciata determinazione a qualsiasi intimità tra lei e la giovane moglie del baronetto e, per quanto la signora fosse amabile, scoprì suo malgrado che era impossibile superare i pregiudizi e l’avversione di Miss Alicia, o convincere quella ragazza viziata di non averle cagionato un torto crudele sposando Sir Michael Audley.
La verità era che, nel diventare la moglie di Sir Michael, Lady Audley aveva contratto uno di quei matrimoni apparentemente vantaggiosi, che fanno sì che una donna si tiri addosso l’invidia e l’odio di tutto il suo sesso. Era giunta in quella regione come istitutrice nella famiglia di un medico del villaggio vicino ad Audley Court. Nessuno sapeva nulla di lei, se non che era giunta rispondendo a un’inserzione che Mr Dawson, il medico, aveva fatto mettere sul «Times». Veniva da Londra e l’unica referenza che diede fu quella di una signora presso una scuola di Brompton dove aveva insegnato. Ma tale referenza era così soddisfacente che non ci fu bisogno d’altro e Miss Lucy Graham fu accolta dal dottore come istitutrice delle figlie. Le sue attitudini erano così numerose e brillanti da far sembrare strano che avesse risposto a un’inserzione che offriva un salario tanto esiguo, come quello menzionato da Mr Dawson; ma Miss Graham sembrava del tutto soddisfatta della propria situazione e insegnava alle ragazze a suonare Beethoven e a ritrarre la natura alla maniera di Creswick e, alla domenica, attraversava il villaggio noioso e fuori mano per tre volte fino all’umile chiesetta, serena come se non aspirasse a fare altro per tutta la vita.
Questo pezzo è tratto da:
Il segreto di lady Audley
Mary Elizabeth Braddon
Fazi Editore, Ed. 2016
Traduzione di Chiara Vatteroni
Collana "Le strade"
Prezzo 19,00€
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