domenica 30 settembre 2018

"Caterina", Vincenzo Zonno - L'annichilimento dell'eccesso...



Fonte: Lo schermo.it
Messaggio di informazione: a seguito delle modifiche mal gestite di Google, che continuano a complicarmi la vita, ho deciso alla fine di traslocare. LettureSconclusionate migra verso lidi, si spera con una migliore assistenza, più stabili e ricomincia con addirittura un dominio tutto suo. Il trasloco avverrà nel mese di Ottobre ma ci sono già quasi tutti i pezzi qui riportati e lo trovate qui:letturesconclusionate.com 

Simona Scravaglieri

Questa è una delle recensioni che non mi piace scrivere perché io ho già letto questo autore, in un altro libro che continuo a consigliare a chiunque mi capiti a tiro, ma questa volta purtroppo non è andato tutto per il verso giusto. Caterina è un romanzo composito con tinte un po' gotiche e un po' horror, che ha un'idea di fondo geniale. Si costruisce su una serie di fotografie, di quelle in bianco e nero, un po' sbiadite e particolarmente grottesche, avete presente? Lo scorrere della storia sembra andare verso una meta e, invece, all'improvviso tutto quello che sembra in un modo non è più tutto quel che è. Il problema è la scrittura, questa volta, scelta per questo tipo di immagini; troppe parole per montare su una storia che non ha bisogno di un gran linguaggio, la bellezza sta nel meccanismo, ma si perde inesorabilmente sotto il peso delle tante, troppe parole che a volte sono anche un po' troppo retoriche.

Siamo su un carro, nella penombra si scorge una ragazzina. Fuori non si vede poi molto e il carro che la trasporta è pieno di rumori, le pareti e il pavimento scricchiolano sotto l'ondeggiare del carro sul terreno sconnesso. Caterina non vede l'ora di arrivare, i rumori le danno il mal di testa, sono ore che deve andare in bagno ed è stanca. Una radura finalmente si trova, si decide di non proseguire e di accamparsi e, intanto, scopriamo che ci sono più carri e che Caterina lavora in un circo. Non è ancora troppo brava a fare quel che vorrebbe e così il suo impiego è più come tuttofare che come circense. Sua madre sì che era un'artista ma poi è morta e Caterina è finita nel circo dove lavorava che è gestito dal suo ex amante.
Normale storia di ragazzina senza arte e ne parte che si riscatta? Sì e anche no, non sta a me raccontarvela, ma già dal primo tintinnio di stoviglie si sente che c'è qualcosa che non va, di oscuro e che ti si appiccica addosso fino alla fine del libro.

La storia c'è come detto, è frammentata composta di inquadrature in cui bosco, radura, i rumori e gli animali, nonché la musica e il vociare delle maestranze si percepiscono distintamente. Non è raccontata a spezzoni, ma i punti cardine, in cui quella che dovrebbe essere una una storia lineare dovrebbe passare per avere una svolta decisiva, sono così grandi e pieni di colori da far sembrare i punti di congiunzione fra uno e l'altro molto più piccoli di quel che dovrebbero essere.
Il risultato è il ritmo che non viene da un alternarsi di velocità nella scrittura ma proprio dal susseguirsi dei quadri. Ci sono boschi rigogliosi, c'è il senso di comunità strana, diverso da quello che noi percepiamo come tale, perché si sta insieme per sopravvivenza e non per comunanza; c'è anche un che di grettezza che si assocerebbe ad un circo che non se la passa poi benissimo. Ci personaggi che si intravvedono attraverso la  fitta boscaglia, a volte si percepiscono solo e questo non fa che aumentare quel soffocante sentire che c'è qualcosa che non va e la gestione con quadri che rappresentano i punti di snodo, con questo ambiente ci va a nozze. Non ci sono distrazioni esterne, Zonno ha tutto lì e gioca tutto lì, gli echi del mondo lontano, che immagini ma non vedi, sono completamente assenti se non contiamo i ricordi di Caterina. In un crescendo dosato arriva al clou con una buona gestione dei ritmi e dei tempi per poi finire in maniera totalmente inaspettata, come un cerino che ha fatto la fiammata ma si spegne subito. Il suo lavoro al dunque l'ha fatto, ma ti ha lasciato lì a sorpresa.

Cosa c'è che non va quindi? La scrittura. Seguitemi che è un po' complicato da spiegare.
È una gran storia, ha tutti i meccanismi dell'horror con questo senso di maligno che ti aleggia intorno, ma è come guardare un film di genere, la protagonista è lì davanti alla porta, urla come un'indemoniata, lei lo sa che succede ha letto il copione, noi intuiamo che se sei andata in un posto così qualcosa dovrà pur succedere e abbiamo già le nostre idee sul fatto che di sicuro la scema aprirà la porta e sarà la fine, e pure quel che sta dietro la porta, di qualsiasi natura esso sia, sa quel che succederà, perché ha tutta l'intenzione a far sì che succeda e ha letto il copione... vi siete stufati? Vi è passato l'attimo d'ansia perché aspettate che io arrivi al punto? Ecco quel che succede!
Il punto in cui molti scrittori sbagliano è che ci sono storie nate per avere una narrativa minimalista, perché tutta la forza dell'insieme non sta nel vocabolo che si sceglie ma nel meccanismo che si muove. Ogni aggiunta, ogni ricciolo magari in un aggettivo fuori luogo stride, ti disturba e distrae. Così perdi l'attimo perché stai lì a cercare di capire se tutto questo descrivere o riversare vocaboli che si sovrappongano precluda a qualcosa di grandioso e quel che si para di fronte, ovvero il meccanismo nudo e crudo, ne viene annichilito perché non sembra all'altezza delle aspettative.

Si perde quindi il senso perchè linguaggio scelto e meccanismo delle situazioni percorrono due binari in opposte direzioni e non hanno nulla in comune fra loro. Crea confusione e anche un po' di frustrazione in chi, come me, ha già letto Zonno e sa perfettamente che c'è talento in quella maledettissima penna. Ma questo è il caso classico in cui lo scrittore trova la sua nemesi in un buon editor, che questa volta non è stato al suo ruolo evidentemente. Si sente che era una storia che andava rivista con un occhio esterno che è avulso dall'affezione al proprio scritto. Avere un occhio esterno è pernicioso, lo so, ho due amici che leggono le rare volte che scrivo qualcosa e solitamente uno dei due è l'editor cattivo che mi continua a scrivere "Taglia!", "Taglia!" per poi, quando la storia è ridotta all'osso dirmi, "Uhm, mi sa che manca qualcosa!" (è ancora vivo perché gli voglio bene, sebbene abbia rischiato un paio di volte di non rivedere l'alba!), però avere una persona così ti da la misura di come viene percepito quello che tu non vedi. In questa ampollosità si annidano una serie di errori che potrei dire di leggerezza, ci sono delle frasi che galleggiano o che si ripetono, ci sono termini che sembrano fuori luogo il significato è corretto per l'azione, ma il vocabolo è avulso dal tono generale dello scritto.
Ripeto, è un vero peccato, ho rimandato questa recensione a lungo perché avevo promesso di scriverla, ma mi scoccia parecchio farla. Per me, il lavoro migliore di Vincenzo è e rimane Non è un vento amico e io continuerò a consigliarlo a chiunque mi capiti a tiro e Zonno rimane sempre un gran maestro nel creare le ambientazioni giuste per le giuste storie.
Buone letture,
Simona Scravaglieri  

Caterina
Vincenzo Zonno
Watson Edizioni, Ed. 2018
Collana "Ombre"
Prezzo 14,00€


Fonte: LettureSconclusionate

sabato 29 settembre 2018

"La costola di Adamo", Antonio Manzini - Il delitto perfetto... #MarcoGiallini #2

Fonte: Foggia Today

Messaggio di informazione: a seguito delle modifiche mal gestite di Google, che continuano a complicarmi la vita, ho deciso alla fine di traslocare. LettureSconclusionate migra verso lidi, si spera con una migliore assistenza, più stabili e ricomincia con addirittura un dominio tutto suo. Il trasloco avverrà nel mese di Ottobre ma ci sono già quasi tutti i pezzi qui riportati e lo trovate qui:letturesconclusionate.com 
Simona Scravaglieri

Nel post precedente avrei voluto inserire questa foto, ma purtroppo il libro che ha fra le mani è quello di oggi e quindi ho dovuto soprassedere. Qui Manzini sembra molto rassicurante e l'immagine che da di sé è in contrasto, invece, con quello che si trova ad affrontare il suo protagonista nella storia che ci apprestiamo ad analizzare. Spicca anche un altro aspetto di Schiavone, il suo protagonista, e il fare sottile ed elegante dell'autore gli regala, nelle presentazioni che mi è capitato di trovare in rete - e che giuro cercherò di inserirvi prossimamente-, un grande apprezzamento proprio dal pubblico femminile. 

Il libro di oggi parla di donne, di violenze domestiche e della solitudine che ne deriva; si occupa anche di immigrazione e di forme di integrazione che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni e non ci soffermiamo nemmeno a considerare. Parla anche un po' dell'autore, attraverso l'amore per i libri e la lettura, ma anche molto della generazione degli anni sessanta e di uomini che guardano al mondo ancora con fare gentile, anche se non sempre, all'apparenza, "gentile" è il primo aggettivo che ti fanno venire in mente.

In questa storia ci sono tre donne protagoniste tutte con storie personali diverse: c'è Ester la vittima, la sua amica libraria e la domestica di Ester della bielorussia. Sono tre donne molto diverse che entrano in contatto per motivi diversi ma che hanno ampio spazio in questo romanzo.

Irina è in Italia da qualche anno e fa la domestica, il suo compagno è un musulmano che viene da un luogo completamente opposto a quello in cui lei è vissuta, lui ha un banco di frutta e verdura al mercato. Insieme vorrebbero costruirsi un futuro insieme, e in parte hanno già cominciato convivendo, ma non si possono sposare. La religione glielo impedisce; i parenti di entrambi non gradirebbero la rinuncia al credo religioso in favore dell'amore. Irina, una mattina come tante apre questa storia. Sta andando a casa di Ester in bicicletta anche se c'è ancora neve ai bordi della strada. Arriva, parcheggia, sale ed entra in casa. Il caos regna sovrano in salotto, ma è in cucina che Irina capisce che non è frutto di una litigata o di una festa e corre fuori spaventatissima urlando che ci sono i ladri. È un maresciallo dei carabinieri a venirle, suo malgrado, in aiuto, chiamando la polizia e attendendo l'arrivo delle forze dell'ordine.
Quando Schiavone entra i ladri non ci sono, ma nello studio c'è Ester che pare essersi impiccata. "Pare", perché in effetti ci sono alcune incongruenze in questo suicidio e Schiavone se ne accorge dopo un po'. Non ci mette tanto perché da subito sente che c'è qualcosa che non va e mentre cammina verso un bar, nel libro, o mentre aspetta l'arrivo della scientifica con Fumagalli (il medico legale) nel film ripercorre in continuazione quei pochi secondi della scoperta del corpo ossessivamente. Il punto è il cortocircuito e sarà quello che si domanderà e ci domanderà praticamente per tutto il libro.
C'è anche l'amica di Ester, ma la sua storia la dovete scoprire da soli.

Una delle cose che chiedono più spesso a Manzini, se non contiamo la curiosità su cosa e quanto ci sia dell'autore nel vice questore, è se, prima o poi, Schiavone si innamorerà di nuovo. Io mi aspetto sempre che, stufo di sentirselo chiedere, prima o poi risponda alla maniera della protagonista della serie di video di Educazione cinica. Ma lui non è il tipo ed educazione vuole che si sia disposti e disponibili verso i propri lettori anche quando ti verrebbe da chiedere: ma di tutto il giallo costruito ad arte, di tutte le declinazioni noir inserite in incastri perfetti, dello sguardo al sociale così profondo e che cerca di tirare fuori le emozioni dietro la cortina di omertà e silenzi, lei, davvero sente solo la mancanza dell'attimo rosa? Che poi, nota di colore, a quanto pare è Il Problema di buona parte dei giallisti, thrilleristi e scrittori noir italiani contemporanei a quanto pare.

In fondo la situazione del protagonista è proprio quel riferimento di base che permette di confrontare quello che dovrebbe essere normalità, ovvero il rapporto tra due persone che si amano, con quanto di brutto si possa nascondere oltre la porta di casa. Mettere Schiavone in condizione di vivere una normalità diversa e reale lo esporrebbe ai soliti litigi, perché non c'è, perché non ha risposto al telefono, non ha fatto la spesa e via dicendo, situazioni che smorzerebbero in buona parte la forza del personaggio. Quindi questa necessità di romanticismo è un po' tanto fuori luogo (magari poi scopro che l'ha fatto ed è riuscito nell'impresa di non deludere le mie aspettative e quelle delle lettrici succitate!).
Anche se poi Rocco ha comunque delle storie disastrose, che evidentemente sono l'ennesimo metro di misura per poter osservare un uomo che sopravvive in un mondo che non gli appartiene più; con Nora, la donna che frequenta ad Aosta, è scostante, assente e distante. Identifica persino il rimanere a dormire con lei come appendere il cappello. C'è solo in quell'unico attimo di appartenenza nel sesso, ma per la restante parte del tempo rifugge da una donna che pensa di ricoprire nella sua vita un ruolo diverso da quello dell'amante. 

A far da contraltare arriva il caso di Ester, suicida, che sembra essersi ritirata da un po' dal mondo. Se uno fa la somma di lei si sa poco, sia chiudendo il libro che alla fine del film. Sai che è sposata, è una donna che ancora non ha raggiunto la mezza età. Si aggiunge anche quell'amica libraia che svela quanto amasse leggere e della sua passione per i gialli, che le avevano fatto venire la voglia di scrivere un libro con un delitto perfetto, e quale dolore sia stato il suo ritiro dal gruppo di lettura per un marito geloso. A far da contorno a tutto ciò, c'è Irina, che venuta dalla fredda Bielorussia ha trovato non solo il lavoro in Italia ma anche l'amore. I due sono presenti il giusto ma non sono tanto visibili, nel libro però esce la semplicità della loro vita, una normalità strappata alla loro provenienza e alle convenienze religiose; la loro casa è povera ma pulita ma il loro amore si esplicita nel tenersi per mano in alcune scene del filmato. Il figlio di lui è un poco di buono, le sue amicizie sono ancor meno raccomandabili e non lo è perché figlio di uno straniero ma come un ragazzo qualunque che nell'età dell'adolescenza ha un rifiuto verso quello che vive e che sceglie di percorrere la strada sbagliata; lo sguardo attento di Schiavone capisce al volo la situazione ma non si sofferma più del consentito, dopotutto è un giallo che richiede indagini. 

Ma è lo sguardo alla storia di Ester che mette a nudo le debolezze che Schiavone nasconde a tutti, l'attenzione verso il gentil sesso, il senso di sconfitta per la mancata prevenzione di un sopruso domestico, quel pugno dato a punizione di quelle botte inferte da un marito che si dichiara "educatore" della propria compagna di vita, è qui che, come donna, ti senti un po' vendicata sebbene l'atteggiamento sia più virile di quanto certe femministe "accetterebbero". Non è così marcato ed è veramente interessante vedere questo apparente contrasto fra la concezione dei rapporti universali, una donna non si tocca e va rispettata, con un senso di poco rispetto percepito da Nora ma non compreso da Rocco. Nora non sembra sapere di Marina, il marito di Ester non sa di quel che scrive la moglie, l'amica libraia non sa se si può fidare del vicequestore e c'è qualcosa che rimane sospeso nelle loro chiacchierate e quest'ultimo come al solito sente il peso degli incastri recependolo e dichiarandolo come l'ennesima rottura di coglioni.

Meglio il libro o la puntata? Entrambi, se in "Pista nera" era un problema di indizi, che nella trasposizione televisiva si smarrivano in mezzo a tante occorrenze che passano tutte insieme e quindi per poter cogliere la raffinatezza dell'incastro e dell'orchestrazione dell'omicidio te lo dovevi leggere e/o guardare più volte, qui invece l'incastro perfetto è ben visibile ma più complesso diventa carpire l'atteggiamento del protagonista. Se l'altra volta la dicotomia era il vicequestore diviso fra legalità e illegalità, qui il rapporto con il mondo femminile, la questione sociale del rispetto del ruolo femminile su tutti i piani fisico, spirituale e morale fa, all'apparenza, a cazzotti sul comportamento di Schiavone ed è più chiaro solo ed esclusivamente se si tiene in considerazione il ruolo di Nora come amante. D'altronde lo Schiavone virile, con un'immagine ben precisa della donna in testa, lo avevamo già visto in precedenza quando in un interrogatorio si scontra con chi seppur donna, e benché incinta, ha potuto progettare  un crimine violento senza pari. Perché se da un uomo tanta ferocia si può associare, anche se non puoi capirla, il sapere che una donna possa solo pensarlo è un peso che Schiavone non riesce ad accettare. Ed è uno spirito che io associo alla generazione della decade precedente alla mia. Me lo ha fatto ricordare un libro, tra i milioni visto che mi piace complicarmi la vita da lettrice, che ho al momento sottomano: "La nuova generazione perduta" (David Leavitt, trad. Delfina Vezzoli, Mondadori, 1998). E' una raccolta di saggi dell'autore, e nel primo di questi, che da il nome alla raccolta, del 1985 racconta un'immagine della generazione degli anni sessanta che mi ha un po' ricordato una serie di persone che conosco e che a quella decade appartengono. Un po' a dire che se sei nato negli anni sessanta sei un con un piede nel passato e un altro nel futuro e la tua formazione passata è stata forte e non sbiadita. Per quanto tu possa dover rincorrere la tecnologia che hai visto nascere con il Commodore 64, tu hai qualcosa che le generazioni successive hanno perso: delle radici certe e solide; è da qui che parti, che contesti, cui rifiuti l'apparenza e persino l'identificazione. E' chiaro che sono diversi i nostri attuali cinquantenni da quelli americani, ma non perché da noi tutto veniva percepito diversamente o arrivava più tardi, ma proprio perché gravava questo pesante retaggio culturale.

Una nota di folclore la possiamo svelare però: nell'episodio, ma nessun riferimento nel libro, ad un certo punto il vice questore si ritrova davanti la libreria personale di Ester, molto fornita, visto che anche il marito conferma che fosse una grande lettrice e quale libro esce fuori? L'amica geniale di Elena Ferrante (Edizioni E/O), che io non ho letto ma che amici che lo hanno fatto mi confermano riportare qualche caso di violenza domestica. Ebbene sì, aderenti fino all'ultimo, al tono della storia.

E Giallini? Giallini ha recentemente (Agosto) rilasciato un'intervista all'ennesima giornalista - che non ritroverò mai!- che lo ha raggiunto nel luogo di vacanza e, a una domanda che non ricordo, ha dato una risposta lapidaria che mi è rimasta impressa e che, riassunta in breve, corrispondeva a: la vita dei personaggi che interpreta nasce sul set e finisce con la chiusura delle riprese. Lui non porta mai il lavoro a casa o oltre la lavorazione del film.  Mi è rimasta particolarmente impressa non perché non me lo aspettassi ma spiegherebbe il perché, quando gli domandano ogni volta se gli è piaciuto interpretare questo o quel ruolo e cosa pensa abbia in comune con il personaggio o se si rispecchia  in quel tipo di vita, lui abbia un secondo di tentennamento, assuma un'espressione corrucciata e poi dia una risposta, che molto spesso si racchiude con sì o no - molti più no che sì-, e con qualche frase a commento. Sembra così estraneo al ruolo di cui si parla, come se fosse uno che è stato tirato dentro mentre passava fuori per la strada a parlare di una cosa che non gli appartenga. Invece è un'evidenza del distacco avvenuto da quel ruolo, e la distanza dalle fasi del set e della lavorazione alla messa in onda, non siano sempre d'aiuto almeno a questo attore. 

Nei panni di Rocco ci sta benissimo, Rocco è anch'egli degli anni 60, come anche Manzini. Hanno visto le stesse cose, hanno probabilmente giocato agli stessi giochi e magari storpiato l'italiano creando o attribuendo nuovi significati alle parole. Questo gli permette quindi di mantenere quel piglio che ben ricorda, quel passo sfacciato e leggermente ondulato, da ex spaccone educato e cresciuto, quello sguardo ad un mondo che solo per età sembra allontanarsi dalla giovinezza ma che fa a cazzotti con la tua testa che ancora ragiona come un trentenne. E' divertente vederlo con uno sguardo paterno a volte e divertito in altre quando prende in giro Italo e trova la sua nemesi con Massimo Reale, il cui atteggiamento, prima ancora che il testo della sceneggiatura a lui destinato, è perfettamente in linea con quello del vicequestore. Strafottenza che non è solo quella del toscanaccio ad Aosta, ma anche quella del tramezzino all'obitorio, l'attaccamento ad un grembiule che sembra suggerire uno sgozzamento in una camera, dove c'è i corpo di Ester sterilizzata e pulita, che porta sempre.
C'è del cameratismo inaspettato fra i due nel prendere in giro Italo, ma si percepisce più nei consigli di Fumagalli a Schiavone, non richiesti, su come si dovrebbe vivere, parlare e accettare una vita possibile lì, in quella città fredda. 

Gli altri post di questa serie:

Buone letture,
Simona Scravaglieri


La costola di Adamo
Antonio Manzini
Sellerio Editori Palermo, ed. 2014
Collana "La memoria"
Prezzo 14,00€

Fonte: Sellerio





mercoledì 19 settembre 2018

"Pista nera", Antonio Manzini - L'eroe antieroe e la distopia del noir.... #MarcoGiallini

Isabella Ragonese e Marco Giallini

"Al terzo episodio, sapevo che l'attore era Marco Giallini, al quarto che la serie è tratta dai gialli di Antonio Manzini, al quinto mi hanno detto che i gialli in questione dovevano essere sei, al sesto ho scoperto da Wikipedia che sono in effetti 18 tra romanzi e racconti (Manzini ma quanto scrivi? Perdindirindina!) e che volevo leggerli. In particolare, Manzini mi scuserà, vorrei capire se e quanto la trasposizione televisiva e il libro scritto corrispondano perché nel primo caso esce decisamente tanto l'attore principale e se fossero così costruiti mi piacerebbe capire quanto il Rocco Schiavone di Giallini corrisponda all'idea di Manzini e quanto invece ci sia di suo."

Iniziava da qui l'idea di un percorso di lettura accennato a Maggio, che poi amor di precisione più che di lettura si tratta di un percorso multimediale visto che #MarcoGiallini è un attore, anche se in passato ha scritto anche qualche articolo per Riders. E così ripartiamo da qui e proprio da quell'episodio che mi aveva convinto a leggere Manzini. I compiti a casa io li ho fatti seguendo la scaletta degli episodi della serie TV, sceneggiati dall'autore stesso coadiuvato da Maurizio Careddu. 
"Pista nera" (Sellerio, 2013) è il primo romanzo in assoluto della serie che in linea temporale è stato anticipato da un racconto ("L'accattone" raccolta "Capodanno in giallo", Sellerio, 2012), per vedere la presa sul pubblico - come ammette Manzini in un'intervista- ma scritto successivamente al romanzo citato.

Quello che ho scoperto leggendo Manzini è che è uno scrittore fuori dai soliti schemi, con il suo amore per la parola e per la sonorità del testo, che è precisissimo riguardo la terminologia medica - in alcuni casi sfiora la pedanteria, tanto da farmelo immaginare un po' ipocondriaco - che ha un talento per intessere le trame del giallo classico talmente spiccato da non dover nascondere nulla ai propri lettori riguardo le indagini. I casi narrati nel ciclo non hanno bisogno di abbellimenti: sono e nascono complessi come lo sono in generale quelli reali da cui, Manzini, in una serata al MAXXI con De Giovanni e Robecchi, dice di attingere per ispirazione; se una costante c'è nel "Manzini-style" è che colui che commette il male ("il reato" è sempre un limite verbale nella cosmologia manziniana che non permette di guardare alla realtà dell'atto nel suo complesso) è sempre l'insospettabile, anche se losco. Per costruire quel singolo atto, il colpevole deve crearsi una rete di normalità, rivestirsi di abitudine e finanche calarsi o vivere nella normalità più brutale e anonima ai più. Un omicidio, un furto, la rapina e via dicendo, si ammantano di tutti quegli aspetti del male che noi riconosciamo nella normalità come altro, come fato (povertà, malattia, solitudine etc) oppure la necessità che giustifica il gesto (l'ingiustizia sociale, la vendetta per un torto subito). Solo in un caso l'autore fa ricorso ad un reato che ricade nel classico di genere, anche se, nella combinazione dei due racconti che costituiscono l'architettura della puntata, non rinuncia ad affiancargliene un altro di contrappeso e di denuncia verso una sostanziale "dimenticanza" sociale della società civile e delle istituzioni.  

Dopo tutto questo, anche con l'aiuto di interviste e convegni che sono disponibili in rete, ho scoperto che Rocco Schiavone è un po' da considerarsi come un grande puzzle, che racchiude le caratteristiche abitudinarie di molti e che proprio per questo starebbe antipatico a tanti; ma all'autore tutta questa architettura non basta per avere un personaggio verosimile, così gli crea attorno un'atmosfera distopica che mina tutte le sue possibili certezze: la moglie, le donne, gli amici, i collaboratori, la città. Tutti questi pilastri, in cui un uomo normale alle strette cercherebbe un rifugio certo, crollano uno ad uno, costringendo un uomo che viveva sospeso fra legalità, senso della giustizia e illegalità a doversi mettere in discussione e alla prova ancora una volta. 
"Pista nera" non è un lavoro distopico intendiamoci, è un giallo in piena regola con una marcata vena noir. La distopia sta solo nella creazione del personaggio e della situazione in cui lasciarlo muovere come una cavia.

Prendi un uomo che di suo è poco "sociale" ma che ha una moglie che ama alla follia e degli amici che conosce fin da ragazzino. Come ammette anche il vicequestore nei suoi pensieri, nello scorrere del libro, nella sua Trastevere degli anni '60 si giocava a guardie e ladri e da grandi si potevano scegliere solo due strade. Se i suoi amici hanno scelto quelle illegali, Rocco ha  intrapreso la professione più comoda: quella della guardia che conosce da vicino il mondo dei ladri. E questa è una delle caratteristiche che Manzini riuscirà, nel corso dei romanzi e dei racconti che ho letto, a sfruttare con una certa nonchalance dando l'opportunità a Rocco Schiavone di far vedere ai suoi lettori entrambi i lati della barricata anche nel corso delle sue investigazioni.
Dicevamo, prendi un uomo e allontana o fai sparire i suoi punti cardinali, quelli che danno peso e certezza alla sua vita, portalo al punto più basso della rovina personale e lavorativa con una serie di situazioni create da lui e altre che sono completamente indipendenti o forse derivate. Un uomo che improvvisamente si trova solo che per giunta viene mandato a mille e più km da ciò che conosce, uno che ha già stabilito che la sua vita è finita il 7 luglio del 2007 e che si trova a dover ricominciare un qualcosa che non dovrebbe esserci più. Rocco è in quel punto che, nel genere distopico, è l'inizio dopo la rovina e da dove i personaggi sopravvissuti devono ripartire per ricreare una qualsivoglia normalità che deve essere diversa da quella che ha portato alla distruzione che stanno subendo. Ma Schiavone è recalcitrante proprio perché, come detto, parte da sconfitto. Non si tira indietro a quel che gli capita, ma è deciso a dimostrare tutto il suo risentito dissenso in parte materialmente (le Clark e il Loden in mezzo alla neve), in parte in azioni (il rifiuto di arredare la casa in affitto, di farci entrare gli estranei e anche gli amici e di dare al barman di Aosta qualsiasi possibilità di ricordargli che oramai è di casa chiedendo "Il solito dottore?") e infine con un sarcasmo, in alcuni punti diventa cinismo, per nulla nascosto verso le figure a cui si deve affiancare (il giudice, il questore, D'Intino).

L'indagine. Su una pista di servizio per i gatti delle nevi, uno di questi mostri meccanici passa su quello che a tutti gli effetti è il cadavere di un uomo. L'uomo è irriconoscibile e senza documenti, il gattista è sconvolto ed è uno alle prime armi e giura di non aver visto passare nessuno davanti a lui mentre scendeva. Manca un guanto e il vicequestore, sotto gli occhi dei suoi nuovi collaboratori perplessi, osserva cose che loro non vedono e non capiscono. Si presenta il giudice Baldi che nemmeno è arrivato e già minaccia il suo nuovo collaboratore dicendo che "sa di lui abbastanza" e gli intima di chiudere il caso al più presto, dentro i limiti previsti dalla legge. Già questo, in termini di tempo e di spazio, regala al lettore e al telespettatore il quadro generale di quello che si troverà davanti: un giudice umorale, un vicequestore un po' cretino che gira con le clarck e il Loden sulla neve e cui piace vendicarsi, nei toni delle risposte, di coloro che si presentano come gradassi. 
Ma la domanda rimane una: un uomo nel buio, su una pista di servizio innevata a 1.500 metri di altezza che ci faceva? E perché manca un guanto? Gli indizi nel libro vengono tutti seguiti e presentati con dovizia di particolari, vengono commentate azioni e i tempi, su cui Rocco invita, di volta in volta, a riflettere i collaboratori, il giudice e anche il questore, nonché i suoi lettori. Indagine che si concluderà in perfetta coerenza con il percorso fatto per risolverla: ogni tassello avrà il suo posto e la sua spiegazione senza doverne dare una completa alla Poirot o alla Sherlock Holmes alla fine. Questo perché Rocco è umano, è un uomo di mezz'età che non ha bisogno e non vuole le luci della ribalta; a lui non interessa vincere sul "male" ma fare giustizia, anche se questa rivela spesso la bassezza delle ragioni che si usano come giustificazione per gli atti più biechi.

A margine di questa storia  c'è anche un'altra vicenda che vede coinvolto l'amico più caro di Roma, Seba. È l'ago della bilancia che permette al protagonista di farsi percepire come uno di noi, anche agendo ai limiti della legalità: un carico dalla Germania, materiale da requisire per poi dire "abbiamo avuto una soffiata". Poi una scoperta e la decisione da giudice armato non di "Giustizia" ma solo di "senso della giustizia personale". Ma questa storia ve la dovete svolgere da soli. Come dice Manzini, si è fatto un gran parlare della personale preghiera laica di Schiavone in TV, mettendosi a contestare un vicequestore che si fa le canne appena arrivato in ufficio, ma nessuno si è preoccupato di dire nulla della sua carriera parallela. Ecco in questo ha ragione, perché quell'aspetto, che divide la vita e il pensiero di un uomo normale da quella di un rappresentante delle forze dell'ordine che la legge non la deve solo applicare ma conoscere a memoria grazie ai suoi studi, è quello che regala al personaggio la verosimiglianza rendendolo davvero reale. L'uomo, quello comune contesta molto spesso i limiti della Giustizia, non sul piano filosofico o quello qualunquista di Baldi, e in questo contesto non è l'uomo ma il vice questore che deroga alla Giustizia, uguale per tutti ma proprio per questo mai giusta per nessuno, in favore di un "senso di giustizia" che, come dice Baldi in un'altra occasione, lo fa calare nelle vesti di colui che decide solo in base a convinzioni personali, condivisibili ma non per questo eticamente giuste. E, strano a dirsi, queste vicende sono un'ulteriore finestra nella distopia personale di Schiavone e quella ancora più grande della sfera sociale. Sono quegli scorci che ce lo rendono più vicino, proprio perché soddisfano il nostro senso di giustizia ma che dimostrano anche il nostro naturale limite nel guardare alle cose: il malaffare non è mai uguale per tutti come non lo è la nostra percezione della giustizia fatta. Siamo naturalmente portati a fare una selezione del reato e di chi lo commette, non in base alla gravità dello stesso ma  al nostro "senso di giustizia" limitato al nostro personale sentire e questo rappresenta, in tutto e per tutto, la sconfitta sociale che viviamo ogni giorno quando giudichiamo come azione giusta anche un illecito. È un po' come pensare al povero che non ha nulla da mangiare che ruba una mela da dare ai figli e confrontarlo con il ricco che sottrae soldi allo stato: entrambi sono crimini equipollenti perché sono furti. Ma la natura umana rifugge dalla logica inoppugnabile della Giustizia e ci porta a guardare alla necessità del povero e alla futilità del ricco. Lo sguardo di Manzini è quello dell'intellettuale classico, quello di una volta, che sa che non è nel suo ruolo giudicare ma sta a lui alzare l'asticella della riflessione e della discussione. È un discorso scomodo, concediamolo, ma ci permette di misurarci su un terreno complesso e capire a quanta della libertà e della civiltà di cui ci vantiamo siamo disposti a rinunciare per il nostro senso di giustizia che non necessariamente è equanime.

Nè Manzini e né Giallini  sono Rocco Schiavone. Di Giallini, Manzini, in un'intervista dice che, prima di averlo segnalato fra i possibili protagonisti, ne sapeva poco. Giallini in un'altra ammette che i libri li ha letti dopo che gli hanno parlato del personaggio e che ha deciso di accettare il ruolo e, in un'altra occasione, dice di aver sentito quel personaggio molto suo.
A Schiavone, Manzini, ha regalato di suo solo la scala delle "Rotture di coglioni" che è una sua graduatoria che si continua a riempire di nuove voci. Giallini, invece, a Schiavone regala la rotondità di una interpretazione che lo rappresenta in tutte le sue sfumature e che diventa più ricca nei suoi momenti bui. Sono quelli che Rocco condivide con la sua Marina, la donna che ama e con la quale vuole ritrovare quel calore e quella serenità perduti al netto del mondo che lo circonda. Sono momenti fatti di gesti, di movimenti, di sguardi nella quotidianità che però non cedono il passo a stucchevolezze di sorta (grazie Antonio!), la divisione fra i due c'è, e c'è un motivo che in questo libro è accennata e nella serie invece si svela nel secondo episodio, ma non è questo che li limita. Il rapporto tra Marina e Rocco è quello di una coppia consolidata e complice, in cui il bacio o la parolina dolce non sono qualificanti come dimostrazioni d'amore. La vera dimostrazione di amore è quella di non voler rompere l'idillio di quei rari momenti insieme, contaminandoli con il male esterno che logora e insudicia la vita fuori, come nel gesto della scena finale di "Pista nera" in cui un insofferente Rocco non vuole dire a sua moglie cosa non va nell'aver risolto un caso: si alza dalla posizione in cui stava dormendo sul divano accanto a lei, si sistema seduto e quando lei insiste, lui si sporge senza un fiato verso il tavolino davanti, la macchina da presa lo inquadra mentre allunga un braccio per prendere una sigaretta e nel contempo incassa la testa nelle spalle e arrotola come un gatto la schiena, mentre la accende. Un modo fisico per dire "non mi costringere a dirlo, parliamo d'altro!". Una sequenza più da teatro che da cinema, perché non prevede parlato e non è l'espressione del volto dell'attore che comanda, quanto l'utilizzo che lui fa della sua fisicità, in quello spazio ristretto, per esprimere una malessere e il derivante peso di portarlo come un fardello dietro ogni giorno che passa. 
A teatro tu non sempre sei davanti, non vedi distintamente la faccia dell'attore, ne scorgi i lineamenti grazie al trucco teatrale che contrasta l'appiattimento delle luci forti di scena: a farla da padrone sono il tono della voce e la fisicità che sottolinea le parole, i gesti, la situazione. Ecco, la scena appena descritta, costruita a dovere con una inquadratura grande come un divano a due posti, la posizione degli attori che quasi si incrociano ma non si toccano, Giallini si sistema ma Isabella Ragonese (Marina) non deve spostare il ginocchio a testimonianza che non sono in contatto, si nutre di movenze appena accennate ma che sono tutta eredità del mondo teatrale. Lei domanda ma non si propende, a sottolineare la distanza, rimane ferma persino quando insiste, quasi non possa superare la linea del cuscino nero ricamato su cui lui poco prima poggiava la testa e che è rimasto lì, in una posizione quasi innaturale ma non casca.

Lo Schiavone di Manzini e quello di Giallini si assomigliano? Diciamo che si completano. Nel passaggio da libro a serie Tv, Rocco perde qualche pensiero espresso in maniera forse un po' brutale (sono pochi però) e qualche sberla di troppo. Giallini lo completa svolgendolo in tutta la sua "romanità" e accentua la dicotomia fra quello che poteva diventare e quello che è. Quello che è il Rocco della serie TV, complice sicuramente la mano di Manzini, è un uomo più verosimigliante perché mantiene le sue caratteristiche di borgata di quartiere povero, ma dimostra la contaminazione subita dalla cultura acquisita nel corso degli studi (l'ennesima dicotomia fra quello che sente di essere e quello che invece è), per cui laddove necessario e solo in estrema ratio e per motivi d'indagine, per esempio, scende a "livello sberla" ma non eccede, come invece nel libro fa. Il confronto con Seba, che nel libro è solo fisico (quest'ultimo viene descritto come un omaccione, quasi un orso, il suo corrispettivo filmico non è così corpulento ma conserva questo spirito rude ma molto più umanizzato e accattivante), sullo schermo diventa il metro con il quale misurare la strada fatta per separarli che però non è bastata a scalzare l'amore amicale. E Rocco vive una profonda dicotomia fra un passato cui appartiene ma che, al contempo, non gli appartiene più.
Meglio la puntata o il libro? Entrambi. Libro e film, o chiamatelo come vi pare, si integrano coprendo alcune sfumature che singolarmente le penalizzano. La profondità dell'indagine viene fuori se la puntata la vedi con attenzione più volte, perché alcuni particolari, nell'incrociarsi degli eventi, non sono così evidenti, per cui in alcuni punti sei distratto e la spiegazione finale un po' galleggia. Il libro ti permette di apprezzare la finezza dell'intuito dell'autore che incastra una situazione perfetta in una trama che, su una ragnatela di indizi che collegati con la giusta sequenza, ha una solidità difficilmente attaccabile e che non richiede ulteriori spiegazioni.

Della carriera di Manzini, di quella di Giallini, che da il nome al percorso, delle altre "notiziole" di contorno alla serie e al rapporto dei citati con Schiavone ne riparleremo di volta in volta. Strano a dirsi per me che sapevo praticamente nulla su tutti e tre, ma tra interviste, conferenze, articoli ci sono mille sfumature che ridefiniscono l'immagine generale e che è difficile sintetizzare se non con il rischio di sembrare pedanti o peggio dei "fan sfegatati" ovvero il corrispettivo, se esiste, del nerd nel mondo della fantascienza. Il percorso non nasce per ingigantire un mito, che in parte già c'è ed è composto di un seguito corposo per entrambi, ma per capire quali siano i meccanismi che lo rendono caro ad un pubblico trasversale, tra lettori e non lettori, anziani e giovani e di estrazione sociale e culturale differente.  La forchetta del gradimento è talmente ampia che io davvero ho glissato Manzini scientemente pensando il solito "caso letterario", cosa che invece a conti fatti non è, o se lo sembra, utilizza questo suo potere per continuare a fare la differenza non soltanto con l'impegno verso il sociale, inserendone i temi scottanti nelle sue trame, ma anche non scendendo a patti con una forma narrativa semplice, ricercando una formula invece più ricercata che si nutre anche della parola sconosciuta o desueta proposta in maniera da non essere di fastidio anche a chi non vuole sentirsi in difficoltà.
Però un paio di note di folklore possiamo aggiungerle anche qui:
- riguardo il libro: Manzini, in una presentazione dice che "Pista nera" nasce proprio a Champoluc, in una gita fatta con la sorella e il marito. Avevano perso la funivia per risalire al rifugio che li avrebbe ospitati e quindi hanno dovuto risalire con il gatto delle nevi e in quella occasione Manzini si domandò " e se passiamo sopra una persona?". In un'altra presentazione integra la storia dicendo che dopo questo pensiero, l'ispirazione è stata così forte da aver passato l'intera settimana di vacanza a scrivere invece che a sciare.
- riguardo la serie: Ogni volta che si chiede a Manzini dell'insana cocciutaggine di Schiavone nel continuare ad indossare Clark e Loden se lo si osserva bene a lui viene da ridere sotto i baffi che non ha. In una delle tante presentazioni di libri si capisce il perché quando spiega che, all'inizio delle riprese televisive, alle due di notte il telefono squillava e quando rispondeva una voce (di Giallini) esclamava solo "Manzini! Mortacci tua!" e buttava giù. Riguardo il Loden in particolare invece ha una risposta più articolata: è un accessorio che in montagna è un cappotto primaverile ma per uno che è sempre vissuto a Roma e il massimo dell'altitudine frequentata è Monte Mario (300 mt) è naturale considerarlo un cappotto invernale. Questo la dice molto sui pezzi che hanno composto il grande puzzle che è Schiavone.

Sperando che non siate morti di inedia, vi do appuntamento al prossimo libro per questo percorso. I libri che compongono la prima stagione sono quattro romanzi e due racconti. Per chi non lo sapesse, la prima stagione di Rocco Schiavone che sta andando in replica in questa settimana da fine agosto è visibile su RaiPlay e su Prime Video di Amazon (disponibile per i clienti Prime).
Buone letture e buona visione,
Simona Scravaglieri 


Pista nera
Antonio Manzini
Sellerio editore Palermo, ed. 2013
Collana "La memoria"
Prezzo 13,00€
Ebook 8,99€





venerdì 14 settembre 2018

"Il segreto di Bruto", Raffaele Alliegro - Mai stata nella Roma antica così bene...

Lucio Giuno Bruto
Fonte: BBTivoli


Non è che io non mi sia mai innamorata di un personaggio di un libro in vita mia, Darcy è nel mio cuore da sempre con la sua sconclusionata dichiarazione d'amore ad una Bennet, ma difficilmente, davvero tanto difficilmente, ho provato una certa ammirazione per un uomo, realmente esistito disegnato con i tratti di una narrativa da romanzo e non da saggio, che in maniera così evidente spicca per il suo acume e la sua leadership. Un uomo cui guardare con rispetto, anche se non sempre è facile, e attraverso la cui storia Alliegro ricostruisce la forza, il coraggio, l'etica e la vita di un'intera civiltà ai tempi che precludono ad una nuova alba per la civiltà romana. La storia di oggi è storia vera, passata attraverso il ricordo collettivo, arricchita di miti e leggende e raccontata in una maniera particolarmente scorrevole e che però, nonostante questo, mantiene tutto il suo fascino e la sua attrazione anche quando ti spiega perché l'anello di matrimonio andava sull'anulare di una mano rispetto all'altra. Ecco, se non siete mai stati dei fan della storia di Roma, troppa gente con nomi strani, date che si rincorrono che 'sti romani non sapevano mai star fermi e chi più ne ha più ne metta, sappiate che non lo sono mai stata anche io, anzi, io manco mi ricordo i sette re di Roma (ecco mo' l'ho detto, che liberazione!). Però Traquinio il Superbo, dopo questo libro, credo che lo ricorderò finché campo perché è un lavoro talmente coinvolgente da valere la pena di consigliarlo a tutti quelli come me, non perché gli altri non apprezzerebbero, ma non darebbero altrettanta soddisfazione di quella che può regalare chi parte un po' prevenuto.
Alliegro, sappilo, se vuoi scrivermi le vite degli altri sei re di Roma, io ti leggerò molto volentieri! 

Bruto, il protagonista di questa storia non ha solo un segreto nella sua vita qui descritta ma ne colleziona parecchi, sebbene uno di questi sia decisamente pesante. È il nipote di Tarquinio il Superbo, cui lo zio ha ucciso praticamente tutta la famiglia salvando solo lui perché ritenuto un po' tardo. Bruto, quindi verrà allevato da una fidata serva della madre che lo crescerà con tutti quei principi che uno del suo rango deve avere e conoscere ma sarà anche colei che gli insegnerà a salvarsi ogni giorno la vita, fingendosi sempre quello che gli altri hanno sempre pensato di lui. Andrà quindi a vivere con lo zio al sedicesimo anno d'età e partirà poi per le guerre che lui deciderà di fare con i popoli confinanti con Roma.
Il limite di Tarquinio è la forza di Bruto, il primo è un etrusco, troppo pieno di sé per allevare una stirpe al comando, troppo attaccato al divino da lasciarsi guidare da profezie vacue e mai precise e non tempestivo nel cogliere e comprendere quel che il destino gli ha riservato. Bruto per contro è un romano pratico, semplice e diretto; segue un percorso già scritto, anche se lui non lo sa, un cammino che lo porterà al disvelamento delle sue doti di condottiero e leader, ad innamorarsi di Vitellia e a cercare il favore dello zio in battaglia per raggiungere lo scopo finale: liberare Roma dal dominio etrusco.

Se fosse un film, probabilmente questo libro verrebbe presentato come un giallo atipico in cui il punto di vista della giustizia non sta nell'indagine, ma nella mano dell'assassino. In effetti, come ci si aspetterebbe da ogni resoconto della vita dell'epoca, vivere una vita tranquilla e arrivare alla fine naturale era uno sport davvero estremo per i romani. Questa storia non fa eccezione, il vero mistero sta nelle rivelazioni della sibilla di cui si accenna, ma non abbastanza, e che ti fanno immaginare la donna descrivere anni molto più lontani di quelli di cui si parla una sera in un abbassamento di difese di Bruto poco prima dell'ultima battaglia. Quello che è in suo potere di fare, per il bene superiore della città di Roma, seppur brutale, verrà portato a compimento senza indugio, a testa alta. Bruto è il degno rappresentante di ideali e di quella lealtà che noi non potremo mai più vedere, perché seppure confusa fra mito e realtà, non corrisponde al nostro modo di guardare alla cosa pubblica. Eppure, la narrazione di Alliegro è talmente avvincente che non ti rimane indifferente nessuna delle scelte fatte dai protagonisti di questi fatti, anche se lontane dal nostro modo contemporaneo di affrontare le questioni.

È un lavoro imponente reso in maniera leggera,se così si può dire, una moderna epopea che seguendo il mito che Tito Livio e poi Ovidio spargono attorno alla vita di Lucio Giuno Bruto, riporta in auge un eroe lontano nel tempo, e anche nella memoria, e lo investe delle medesime responsabilità che aveva nel passato, cogliendo l'opportunità di raccontarla alla maniera contemporanea e di usarla come spunto per raccontare di una civiltà che a noi è sempre stata resocontata per compartimenti stagni: letteratura, storia, architettura, storia dell'arte, filosofia, grammatica, matematica. La fusione di tutti questi comparti ci regala uno spaccato della vita, del pensiero, delle abitudini e delle profonde differenze di grandi civiltà come i romani, gli etruschi e, a latere, anche dei greci. Le rovine diventano di nuovo edifici, acquedotti, la sala del senato, le case in cui vediamo muoversi uomini affaccendati nella loro quotidianità, così tanto lontana dalla nostra e curiosa ai nostri occhi. Sentiamo il vociare dei servi, le urla dei venditori del mercato o il fruscio delle tende che nascondono all'occhio e all'orecchio indiscreto le preveggenze, le insurrezioni, le vendette, la liberazione. A volte ci si riesce e a volte no, ma a noi non importa, perché come invisibili fantasmi seguiamo il percorso che ci indica l'autore passando per le strade, correndo per i campi, anche quelli di battaglia; noi vediamo e sentiamo tutto.

Io non so se sono riuscita a regalarvi, anche una minima parte, della bellezza di questo lavoro, che ho cominciato a leggere con la curiosità di una che si domanda che cosa mi si possa dire di più sulla storia romana, a cui io di solito guardo solo per l'architettura e l'arte, e che invece mi sono ritrovata a seguire con passione. Un lavoro singolare e particolare, tratteggiato con maestria e corredato di tutte quelle informazioni atte a capire in che mondo ci si muove, sentito fino all'ultima parola nelle descrizioni dell'ultimo sguardo di Lucrezia, l'invidia dei tre cugini, il dolore di Collatino e l'onore talmente sentito per la "res publica" da mettere a morte perfino i propri figli. Ogni momento è carico di quel patos tanto caro agli antichi, ma reso in una maniera elegante e scorrevole con una scrittura che non cede alla retorica ma che mantiene un ritmo vivace e costante dall'inizio alla fine.
Un lavoro davvero imperdibile.
Buone letture,
Simona Scravaglieri

Il segreto di Bruto
Raffaele Alliegro
Edizioni Spartaco, ed. 2018
Collana "Dissensi"
Prezzo 14,00€

Fonte: LettureSconclusionate

mercoledì 5 settembre 2018

"La pattinatrice sul mare", Paolo Foschi - Lo sportivo che scrive e quello che indaga...

Paolo Foschi
Fonte: Radio Corsa Web

Quest'anno mi trovo a dovermi cospargere il capo di cenere con molti autori, come Manzini o come Foschi. Nel primo caso pensavo fosse tutt'altro modo e genere di scrittura e farò ammenda in seguito, nel caso di Paolo invece ero informatissima sulle uscite e la tipologia di libri che scriveva e sebbene li abbia in parte acquistati per me li ho anche, altrettanto spesso, regalati ad altri, con il risultato che uno dei miei fratelli è un suo accanito fan e io ancora non sapevo effettivamente moltissimo di Igor se non delle sue indagini. In sostanza quindi non l'ho aggirato come ho fatto per altri, ma in quel periodo ero attirata da altri generi e quindi l'ho accantonato. Quest'estate, complice l'uscita dalla mia lunga crisi del lettore, quella del nuovo libro della serie di Igor Attila e la voglia di sanare le "pendenze" con tanti autori che ho conosciuto nel tempo, ho cominciato proprio da lui. Paolo Foschi, per chi non lo conoscesse è uno scrittore e anche un giornalista sportivo, nonché egli stesso un grande sportivo. Quello di cui parliamo oggi, non è un libro che rimane prettamente nel genere del "giallo", ha i piedi in due scarpe, perché occhieggia al romanzo, complice il fatto che Igor Attila è una serie, e non un lavoro singolo, e che con il tempo le vicende dell'ispettore Attila sono diventate parte integrante anche di una vita di squadra, quella che coordina, e che si occupa di, nel senso più ampio della definizione, "crimini sportivi". 

In questa puntata della serie, che a supporto di chi come me non l'ha letto mai si può affrontare anche senza seguire la sequenza di uscita dei libri sin qui pubblicati, Igor Attila è in un momento della sua vita un po' particolare. La vita privata ha subito un cambiamento a cui non ha ancora capito se si sentiva pronto e questo influisce anche nel suo approccio nella quotidianità del lavoro. A questo si aggiunge la notizia che una pattinatrice italiana, candidata a rappresentare il nostro paese nelle olimpiadi della Corea ha ricevuto minacce di morte. Ora, stando al classico giallo, qui già ci sarebbe di che parlarne e per il diretto interessato, ovvero Igor, anche abbastanza da indagare. La pattinatrice è famosa e quindi è naturale che ci sia molta invidia. Ma l'autore ha deciso di complicargli ulteriormente la vita e la nostra pattinatrice, fa anche la modella e ha deciso di firmare un contratto con una società russa poco apprezzata, per allenarsi su una piattaforma petrolifera sita nel mare del sud Italia e ha dato il permesso per essere filmata 24 ore su 24, come forma di ulteriore promozione. Questo comporta che l'indagine dovrà spartirla con il gruppo giudicato più frivolo tra quelli in circolazione, lascio a voi indovinare quale, e che debba tenere conto anche di tutte quelle organizzazioni ambientaliste che abbiano da ridire sulle concessioni per l'estrazione e la lavorazione del petrolio, nonché evitare di mettere le indagini in pubblica piazza in TV.

Se io fossi stata Igor, probabilmente sarei uscita dalle pagine di testo e avrei mischiato tutti i tasti della tastiera dell'autore per ripicca a tanta complicazione, ma evidentemente il nostro eroe è abituato a situazioni del genere e quindi ne uscirà con stile. Com'è leggere Paolo Foschi allora? Rilassante. Era da tempo che non mi divertivo così, perché Foschi non cede alla serietà della situazione ed è ben cosciente di come e perché Igor abbia attecchito sui suoi affezionati lettori. Igor piace molto perché potrebbe essere quello che condivide con te il pianerottolo è brusco, sportivo, ha una vita molto riservata ma porta con se anche quelli che noi chiameremmo difetti. E' uno facile alle emozioni, uno che vorrebbe menare la prima della classe, ma che si scoccia sempre a dover tenere d'occhio gli ultimi, ha dei pregiudizi ma ammette l'errore quando viene smentito, vive anche nel ricordo di quello di cui è stato ingiustamente defraudato, a volte se lo ripete anche più volte. Tutto questo dona umanità e verosimiglianza in un'epoca dove l'ispettore che sa tutto lui ha un po' scocciato.
La storia fila anche se gli incastri sono tanti e si alternano a situazioni comiche una più divertente dell'altra ed è questa, secondo me, la parte che rende più  vividi i personaggi, proprio perché è composta di tanti botta e risposta che sembrano trascrivere un linguaggio parlato, tralasciando la bella scrittura ingessata, e lasciando lo spazio ad un umorismo che scorre naturalmente senza mai perdere il suo ritmo. Questo metodo rende la storia fluida e regala ai momenti di tensione o di indagine un naturale risalto rispetto al resto in cui si inserisce.

Per me ha i piedi in due scarpe, perché la storia personale del protagonista è equipollente all'indagine in corso. Avrebbe potuto essere una debacle, perché Foschi si muove sul filo di lana: anche un minimo sbilanciamento può rovinare l'effetto generale. Ma l'idea funziona, gli indizi sono tanti, alcuni sbagliati e altri no, proprio per mantenere quest'aura di verisimiglianza. Come non accade in molti gialli, l'indizio viene nascosto o anche messo in vista ma sempre quello giusto giusto, in questo caso invece si sceglie di mettere sul tavolo da gioco praticamente tutto e come, in un'indagine che si rispetti, bisogna man mano scartare quello che non ci interessa. 
Come dicevo non è necessario leggere la sequenza dei gialli originali, perché con altrettanta naturalezza, Foschi inserisce qui e lì le informazioni, in mancanza delle quali Igor sembrerebbe ben strano, ma, conoscendo il tipo - l'autore e non il protagonista-  ha fatto una selezione in maniera tale che Ogni libro porti comunque al lettore informazioni nuove. L'altra scelta che ho sempre apprezzato di Foschi è quella di non fossilizzarsi su un solo sport e quindi in ogni libro troverete una disciplina diversa.

Vi avrei potuto dire che è un ottimo libro da ombrellone e invece no, è un ottimo divertissement, che è come le ciliegie: ne mangi una, poi un'altra e alla fine hai finito la ciotola. Ecco le storie di Foschi sembrano fatte così, una tira l'altra, per rimanere in questo mondo divertente e divertito che si trova ad operare in un dietro le quinte fosco e dipinto di giallo. Libro piaciuto e consigliatissimo, anche a chi non è propriamente amante del genere investigativo. 

Buone letture,
Simona Scravaglieri

La pattinatrice sul mare
Paolo Foschi
Giulio Perrone Editore, Ed. 2018
Collana "Hinc"
Prezzo 15,00€

Fonte: LettureSconclusionate


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