mercoledì 20 dicembre 2017

[Dal libro che sto leggendo] Dimmi come va a finire. Un libro in quaranta domande

Fonte: LettureSconclusionate

Dall'aria insolitamente tranquilla e innocente, il libro di oggi, nonostante sia leggerissimo fisicamente, parla di un tema pesante. Quando si parla di messicani il pensiero va subito all'America che Trump ha prospettato agli americani con alti muri di confine, tra quello che lui pensa sia la civiltà e gli altri. Alt! In questo libro non si parla di politica, o meglio, si tange la politica ma non ne è lo scopo principale. E' un libro costruito veramente, come dice il sottotitolo, "in quaranta domande" e sono quelle del questionario che viene proposto ai bambini che scappano dal sud e centro America, attraversando il Messico per consegnarsi ai poliziotti Americani appena passata la frontiera.

Non ci sono i numeri di quelli che partono per confrontarli con quelli che arrivano, ma un dato certo c'è: è meglio rischiare la vita e affrontare questo viaggio per loro che rimanere dove sono, anche se, per la tratta che devono percorrere e per l'età, potrebbero non arrivare mai a destinazione. Il compito di Valeria è quello di tradurre le domande ai bimbi e ragazzi e trascrivere, anche qui traducendole, le loro risposte sperando che, quello che dicono, possa serve a fargli ottenere al più presto la status di rifugiato o qualsiasi altro pezzo di carta che permetta loro di rimanere in America. Per contro a questa situazione c'è un mondo, che non è diverso dal nostro in questo, che non sempre capisce quello che comporta lasciare il proprio paese per scappare.

C'è un sottile difetto in libri come questo e che qui hanno trovato sempre spazio perché trattano di temi che non bisognerebbe ignorare. Questo perché nonostante io sia fermamente convinta che il flusso migratorio dalle parti più disagiate del mondo sia e debba essere facilitato per permettere a tutti di avere l'opportunità di vita dignitosa, dall'altro vivo in una città come Roma e vedo e mi rendo conto che la mancanza di politiche di integrazione rendono impossibile l'accettazione degli uni con gli altri. in questo fallisce sia chi accoglie e sia chi scappa e solo una volta, in un caso specifico, ho letto qualcosa che parlasse di questo disagio. E' un disagio che non giustifica nessuna delle due parti e che spesso viene aggirato con il rivolgersi ai giovani e ancor più spesso viene preso ostaggio da politiche estremiste, snaturato nel suo reale e genuino sconcerto per trasformarlo in messaggi razziali. Io credo che ancora oggi, dopo secoli di flussi migratori, nessuno sia pronto a capire e gestire con coscienza i flussi migratori, e tanto meno a farne parte... ma di questo parleremo in recensione. E' un discorso complesso e questa rubrica ha uno spazio troppo piccolo per occuparlo.

E' un bel libro, nonostante questo mio pensiero discordante, perché la Luiselli è quella voce che si potrebbe assimilare  a quelle delle donne scelte per raccontare il mondo dei desaparesidos. E' quella voce calda e sicura che piano piano ti accompagna nella casa degli orrori non perché ti voglia spaventare ma solo per farti sapere. Sono pochissime le scrittrici che lo sappiano fare e Valeria è una di loro.

Buone letture e buone feste,
Simona Scravaglieri

I
frontiera

“Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?”. È questa la prima domanda del questionario d’ingresso per i minori non accompagnati che entrano nel paese. Il questionario è utilizzato dal Tribunale Federale dell’Immigrazione di NewYork, dove ho cominciato a lavorare come interprete volontaria nel 2015. Il mio compito in tribunale è semplice: faccio i colloqui con i minori, seguendo le domande del formulario, e poi traduco le loro storie dallo spagnolo in inglese. 
In realtà, di semplice non c’è proprio niente. Sento le parole, formulate dalle loro bocche, inanellarsi in narrazioni complesse. I ragazzi le pronunciano in tono esitante, talvolta diffidente, sempre impaurito. Io devo trasformarle in parole scritte, frasi succinte e termini aridi. Le storie sono sempre pasticciate, balbettate, invariabilmente frammentate oltre ogni possibilità riparatoria di un ordine narrativo. Il problema, quando si prova a raccontarle, è che non hanno principio, né centro, né fine.
Quando il colloquio preliminare con  il minore è finito, incontro gli avvocati per consegnare e spiegare quello che ho trascritto e le mie eventuali osservazioni. Dopo di che gli avvocati analizzano le risposte, cercando di individuare gli elementi utili a costruire una difesa sostenibile che ne impedisca l’espulsione, e la “potenziale dispensa” che il bambino o la bambina sono in grado di ottenere. Il passo successivo è trovare un difensore. Una volta che un avvocato ha accettato l’incarico, comincia la vera battaglia giudiziaria. Se vince, il bambino otterrà qualche forma di sospensione del provvedimento. Se perde, un giudice emetterà un ordine di espulsione. Guardo i nostri figli addormentati sul sedile posteriore della macchina mentre attraversiamo il George Washington Bridge, il ponte che ci porterà in New Jersey. Di tanto in tanto dal mio posto accanto al guidatore mi giro e osservo il mio figliastro di dieci anni, che è venuto a trovarci dal Messico, e mia figlia, che di anni ne ha cinque. Al volante, mio marito è concentrato sulla strada davanti a sé.
È l’estate del 2014. Siamo in attesa che ci venga concessa o negata la Green Card e, nel frattempo, decidiamo di fare un viaggio tutti insieme. Partendo da Harlem, New York, raggiungeremo una città nella Cochise County, in Arizona, vicino al confine col Messico.
Secondo il gergo leggermente offensivo della legge sull’immigrazione degli Stati Uniti, da tre anni circa, cioè da quando siamo arrivati a New York, siamo dei “nonresident aliens”. È questo il termine usato per descrivere chiunque venga da paesi diversi dagli Stati Uniti – “alieno” – che sia residente o meno. A quanto ne so, ci sono i “nonresident aliens”, i “resident aliens”, e persino i “removable aliens”, ossia stranieri che possono essere “rimossi”. Noi aspiravamo a diventare “resident aliens”, pur sapendo cosa significava fare domanda per una Green Card: gli avvocati, le spese, gli innumerevoli esami medici e vaccinazioni, i mesi di incertezza prolungata, i passi abbastanza umilianti da fare nel frattempo, come dover aspettare un documento di “libertà sulla parola anticipata” per poter lasciare il paese e rientrare, sempre sulla parola, come un delinquente, oltre al divieto legale di andare all’estero prima di aver ottenuto la libertà sulla parola anticipata, pena la perdita dello status di immigrato. A dispetto di tutto questo, avevamo deciso di andare avanti.
Quando finalmente inviammo le richieste, poche settimane prima di partire per il nostro viaggio “on the road”, cominciammo a sentirci a disagio, in qualche modo fuori posto, un po’ sul chi vive, come se aver infilato quella busta nella cassetta azzurra della posta all’angolo della nostra via avesse cambiato qualcosa dentro di noi. Con una certa leggerezza, scherzavamo sulle possibili definizioni della nostra nuova condizione di migranti, attualmente provvisoria. Eravamo “alieni provvisori”, o “scrittori in cerca di status”, o “scrittori alieni” o magari “messicani provvisori”? Forse, dentro di noi, ci stavamo semplicemente ponendo, credo per la prima volta, la stessa domanda che adesso faccio ai ragazzi all’inizio di ogni questionario d’ingresso: “Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?”.

Questo pezzo è tratto da:

Dimmi come va a finire
Un libro in quaranta domande
Valeria Luiselli 
La nuova Frontiera, Ed. 2017
Traduzione a cura di Monica Pareschi
Collana "liberamente"
Prezzo 13,00€
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