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Anche questo è un libro scelto da altri per me, e anche in questo caso è un libro "mancante" di una formula. Anzi volendo ci sarebbe pure, ma è la scelta di mettere tutti i racconti scritti da un solo autore che danneggia l'insieme. Perchè quando hai un tema e ti poni un obiettivo sfidante di mettere così tanti racconti in un libro unico, dopo un po', affrontando lo stesso tema, i racconti sembrano assomigliarsi tutti, come quando li leggi.
Facciamo il quadro. La struttura della trama è data da due fattori:
- La spiegazione del perchè ci sia una scarpa sul tetto;
- Coloro che raccontano che appartengono ad un unico palazzo, da cui la scarpa si vede.
In più ogni racconto, che cerca di essere diverso dagli altri, deve comunque dare un accenno o un rimando a uno o più racconti, precedenti e successivi, perchè colui che volta per volta narra, non deve dare riferimento diretto del posto di cui parla. Chiaramente questo vale per tutti, tranne per un racconto, che se anche forse non centrato nella lista dei titoli che segna il giro di boa, perchè dichiara il condominio parlante attraverso i vari racconti, quale spettatore. Nel tempo mi è capitato di vedere raccolte di racconti con un incipit unico di un oggetto o una situazione e non mi sono mai trovata "stretta" in queste situazioni; all'inizio non ne capivo il perchè poi, alla fine, riflettendoci a distanza di tempo mi sono resa conto di cosa non c'era, ovvero, il "Tempo" sia inteso come ritmo che come tempi tecnici per rendere la scrittura omogenea. Sebbene la scarpa possa sembrare l'espediente "ufficiale" trovato dall'autore per esplicitare la diversità di vedute dei condomini che inventano ognuno la propria storia, stando alla quarta di copertina perchè non tutti i racconti dichiarano le motivazioni per le quali sono scritti, alcuni parlano del fastidio derivante dal guardarla o anche lasciano il lettore intuire il fatto che stia lì sul tetto per motivazioni derivanti da azioni/sentimenti del protagonista di turno.
Solo due racconti "sono" in quanto correlati fra loro correttamente secondo quello che pare l'istinto principale, per il resto il perchè della scarpa sul tetto, rimane marginale soppresso dall'autocompiaciuto "modus narrativo" alla francese dell'autore.
La presenza di "tempi tecnici della narrazione" (che qui non c'e') è in questo tipo di scritti basilare, onde non far passare lo scritto come una raccolta racconti, di cui non si sapeva cosa fare, e che all'interno della trama avevano una scarpa o riferimenti a calzature, non necessariamente sui tetti, ma che potevano adito a pensare che così fosse. Quindi nel corso del libro ti capita ora di essere nel presente, poi di essere in un tempo "fiaba" poi in uno "tragedia" successivamente ritorni ad un presente o anche ad un passato recente, ma tutto senza soluzione di continuità. Persino l'autore sembra annoiarsi a parlare sempre dello stesso argomento per cui dal primo racconto fino all'ultimo ( primo e ultimo sono racconti che sembrano essere stati scritti uno di seguito all'altro e poi posti agli estremi del testo come apertura e chiusa della vicenda) è un riproporsi di situazioni diverse fra loro che man mano che vengono concepite denunciano la noia dell'autore stesso nel dover per forza avere come spunto proprio la stramaledettissima scarpa, tanto da sembrare velate, manco troppo, esplicitazioni di solitudine. Troppo facile, direi, raccontare la solitudine così in maniera così poco articolata descritta o sentita.
Non vi elencherò tutti i racconti perchè non ho nemmeno il libro sottomano (fortuna vostra!) e perchè sarebbe oltremodo pedante (convinzione mia!). Vi cito solo quelli che secondo me, per buoni o cattivi che siano, sono comunque riusciti a distinguersi.
Iniziando da quelli che io giudico i peggiori:
il racconto che io chiamo "giro di boa" che cammina a braccetto con il Filottete sofocleo:
ammetto di essere incorsa in un errore di memoria, nel salotto letterario in cui abbiamo discusso, ho asserito che uno dei protagonisti aveva cambiato nome e invece non era così, i protagonisti ribattono con i nomi i protagonisti di questa tragedia.
Nella tragedia: Filottete, soldato abbandonato su un'isola perchè feritosi in precedenza con il morso di un serprente e, reputato dai propri compagni di guerra come "noiosamente lamentoso", viene e abbandonato su un'isola.
Nel racconto: Filottete viene abbandonato su un tetto (sinonimo dell'isolamento dell'isola sofoclea, e a questo punto era meglio l'Isola di cemento di Ballard che almeno trasforma il surrealismo in ragione fondante del suo scritto alla Robinson Crosue!) dai compagni di rapina, in un precedente e non ben specificato momento è stato abbandonato dai suoi compagni perchè morso da un cane a guardia dell'oggetto della rapina e quindi reputato come un peso per la fuga dai tetti. Attenzione però non si fa riferimento ad appartamenti, quindi c'e' da capire come dal piano terra siano arrivati al tetto.
Nella tragedia: Netteolemo e Odisseo (Ulisse) tornano sull'isola, dopo anni di guerra scoprono attraverso un suggerimento divino che per vincerla hanno bisogno dell'arco e delle freccie di Filottete che ha ereditato da Eracle. Odisseo è proiettato al risultato, manda avanti il giovane per non rischiare di essere riconosciuto da Filottete, il piano prevede che Netteolemo sottragga o si faccia consegnare l'arco perchè si possa vincere la guerra ritornando al campo senza Filottete.
Nel racconto: penso che lo scopo sia similare anche se non dichiarato almeno apertamente, nel momento in cui Ulisse e Netteolemo vengono sorpresi sul tetto da Filottete è quest'ultimo a sottolineare di avere il fucile che è arma decisiva per futuri colpi. Netteolemo è un giovane che non sa starsi zitto e che sembra molto incosciente di quel che sta facendo, mentre Ulisse sembra uno sconfitto in partenza, visto che già dal primo atto viene coinvolto nella vicenda.
Potrei andare avanti per ore ma oltre a questo cercare di distaccarsi da un classico, cercando di fare la differenza con la situazione moderna in cui l'isola diventa un tetto e un arco diventa un fucile, il problema principale è che, a differenza di quel che succedeva nella tragedia classica dove il pubblico non veniva coinvolto (succedeva solo nelle commedie), in questo il pubblico è presente e dichiarato. Sinonimo di leggerezza? No, solo semplice e manco tanto velato espediente letterario "Metto il pubblico, per dare alla storia una parvenza di senso, che in fondo non sembra avere".
Stessa cosa avviene per la versione moderna della Cenerentola.
Poi ci sono le storie che si distinguono per la confusione in cui incorrono i lettori, perchè è l'autore stesso che non sa dove sta andando, e fra questi spicca il racconto del rapporto fra cane e uno scrittore. In pratica si racconta dell'immedesimazione dello stesso (scrittore) nel proprio oggetto di scrittura, ovvero le tragedie greche (ma va?!?), e che lo portano ad uno stato di depressione talmente evidente e pesante, da essere abbandonato anche dal migliore amico dell'uomo.
Tra quelli promossi ci sono appunto il primo e l'ultimo, che sono stati sicuramente scritti di seguito, visto che non hanno la pedanteria annoiata che caratterizza gli altri. Nel primo una bimba, che si è alzata a notte fonda, racconta al padre, che si presenta come oppresso dalle incombenze quotidiane e per questo sembra aver perso la sensibilità e l'immaginazione, di aver visto un angelo su un tetto, ma ci tiene a specificare che quel che ha visto, non è un angelo classico bensì uno "angelo triste". Il fitto dialogo che si presenta al lettore fra padre e figlia restituisce bene l'immagine di questo rapporto in maniera realistica e alquanto sentita. L'ultimo racconto spiega per l'angelo era triste e quali sconvolgimenti passano per la mente di chi sta su un tetto con intenzioni tutt'altro che felici. I pensieri del possibile ultimo minuto di vita affiorano in maniera affollata a volte sovrapponendosi uno sull'altro, come è plausibile avvenga in quel momento in cui stai decidendo di mettere fine alla tua vita ma non sei convinto di aver chiuso tutte le pratiche. L'ansia di sparire dalla vita per passere oltre si scontra con il desiderio di essere ricordati. E' un'antitesi che sottolinea che nel voler morire si pensa così non solo di risolvere i proprio problemi, ma a volte, anche di selezionare virtualmente chi ci deve ricordare ed è un peccato che rispetto ad altri racconti precedenti, qui l'autore non si sia soffermato di più nell'approfondire il personaggio.
Probabilmente è un libro che da sola non avrei comperato. Restituisce l'illusione di avere uno scopo nella narrazione e invece la scarpa e la regola del "siamo tutti dello stesso stabile" tolgono l'autore dall'empasse di avere un motivo che scateni la necessità di scrivere e unisce alle mancanze citate anche la solenne lentezza tipica degli scritti francesi, non pescando però quella caratteristica di voluta "prospettiva" che da un senso ad un modo di scrivere, anche introspettivo (molto francese), che ha tipicamente la necessità di scansione di un tempo lento di scrittura che sviscera significati primari e secondari. Nonostante io ami la letteratura francese questo si spinge un po' troppo al di là di ciò che, per me, è bene accetto. Chiaramente non è detto che la mia visione sia l'unica, e che non possa piacere come raccolta racconti o solo e puro esercizio di stile. Ma attenzione, qualunque sia il vostro gusto nelle scelte di letture, come avvenne per Stoner, siete sicuri che il presente libro vi piacerà per intero o solo perché ne ricorderete solo qualche parte che vi ha colpito nell'intimo? Ovvero basteranno pochi attimi a giustificarne la totalità? A voi l'ardua sentenza...
E adesso direte voi:"Ma Simò, se i gruppi di lettura ti fanno leggere solo libri che bocci non li frequentare!"
E io vi risponderò: "No! Un libro buono l'ho trovato!"
Chiaramente, prossimamente su questo blog che naviga fra le peregrinazioni letterarie della presente lettrice sconclusionata.
Buone letture,
Simona
La scarpa sul tetto
Vincent Delecroix
Excelsior 1881 Edizioni, ed 2010
Collana "Acquario"
Prezzo 14,50€
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