mercoledì 31 maggio 2017

[Dal libro che sto leggendo] Le cento vite di Nemesio #MaggioDeiLibri

Joyce e "Le cento vite di Nemesio"
Fonte: LettureSconclusionate


Ultimo giorno di maggio, abbiamo iniziato con un [Dal libro] e finiamo con un altro. E che estratto direi! Libro che mi ha stupito, è un libro strano, perché non mi sarei mai aspettata, pensando al Marco Rossari che mi è capitato di ascoltare in alcune presentazioni, di scoppiare a ridere qui e lì. Io amo questo libro! Ma lo amo in modo particolare per il mezzo scelto per raccontare un secolo di storia che è "appena" passata. La fine dell'ottocento, la prima e la seconda guerra mondiale, il periodo post bellico. Tutto ciò che Nemo racconta ricalca l'immagine di un tempo che fu e che oggi leggiamo sui libri di scuola.

Non per questo è un libro noioso e pesante. Nemo, che in effetti si chiamerebbe come suo padre Nemesio, è un guardiano in una delle gallerie del Museo dell'avanguardia delle avanguardie. Stesso museo in cui è stata allestita una mostra dedicata a suo padre che compirà 100. Artista poliedrico e apprezzato, Nemesio senior ha perso presto il proprio figlio. Non c'era comunicazione fra loro. Il padre settantenne si era ritrovato con un frugoletto da crescere e Nemesio Junior ad un certo punto non ne può più e per un motico che ancora non ho scoperto - ma manca poco- un giorno imbocca la porta di casa per non far più ritorno. Ai festeggiamenti succederanno delle cose che a volte sembrano avere a che fare con quello che succede al giovane trentenne che si ritrova invischiato in una storia strana: ogni volta che chiude gli occhi è come se viaggiasse nel tempo. Non è lui, ma si parla di qualcosa che a lui stava a cuore e che invece, mai commentata, sarebbe potuta perdersi nei meandri della mente anziana del genitore.

È complicatissimo parlarvi di una storia senza anticiparvi la parte più succulenta, quindi accontentatevi! E non perdetevi questo delizioso libro che davvero merita per scorrevolezza e freschezza nella narrazione. Nonostante tratti dei temi importanti, nonostante dalle prime pagine al lettore sembra che il tono sia completamente diverso, serio ed impettito, forse anche un po' ingessato ad un certo punto la prosa di Rossari esplode con tutti i suoi colori e le sue situazioni surreali che si intrecciano con la Storia e risulta davvero godibile. Non ve ne pentirete!

Mi corre l'obbligo ringraziare per aver intrapreso con me questo pazzo mese del #MaggioDeiLibri (in ordine alfabetico):

Amina Sabatini di My Day Worth
Angela Cannucciari del canale Angela Cannucciari
Barbara Porretta di Libri in valigia
Daniela Mionetto di Appunti di Una lettrice
Giada del canale Dada who?
Natascia Mameli di Marassi Libri
Nereia di Librangolo Acuto
Paola C. Sabatini di My Day Worth

È stata una bellissima avventura condividere le ansie del capire come rispondere ai tag dell'iniziativa, lo stress della programmazione per non sovrapporci e i post e i video bellissimi che sono stati condivisi. Che dire mi mancherà un po' questo planning settimanale e speriamo di poter replicare il prossimo anno!Grazie di cuore a tutte!
Buone letture,
Simona Scravaglieri


Mio padre, il secolo 

LUNEDÌ 

«Sono nato da uno sperma vecchio». 
Ogni mattina, verso l’alba, allo scoccare dell’ora che nei grandi romanzi russi era deputata ai duelli in una campagna maestosamente livida, il nostro protagonista si svegliava in una periferia squallidamente plumbea con questa frase stampata in testa. 
Tutti i giorni le stesse parole. 
Da una vita Nemo –nomignolo aberrante, ma guai a chiamarlo «Nemesio», com’era stato registrato all’anagrafe dal padre –apriva gli occhi con quelle parole da rimuginare e si rigirava nel letto in un angolo del monolocale. 
Nel cranio non aveva più un cervello, ma una centrifuga che rivoltava sempre la stessa frase, come un paio di calzini sporchi. Era un tarlo, un’idea fissa che gli rendeva amaro il mattino con la puntualità di una sveglia satellitare, che comunque non aveva. 
Ed era anche la verità. 
Il venerando padre, Nemesio il Vecchio, suo omonimo –rinnegato non solo di nome, ma anche di fatto, visto che non si rivolgevano la parola da anni –aveva scagliato la fionda del proprio inossidabile seme nella vagina della madre all’importante età di settant’anni, in un’epoca –il 1969, appunto –nella quale le pasticche blu erano associate al massimo a una spiacevole emicrania. 
Pittore di grido, non pago di avere attraversato in prima linea due guerre mondiali, una partigiana, una fredda, ogni tipo di contestazione, qualche movimento di avanguardia, una prima moglie (deceduta), un primo figlio (morto in circostanze misteriose), migliaia di cause perse e di occasioni colte, allo scoccare delle settanta primavere era riuscito a ingravidare la seconda moglie (deceduta in corso d’opera, per così dire). Un’ombra, quella della madre, che Nemo si portava dietro da trent’anni. 
A quei tempi, meditava il nostro con la prima luce che filtrava dalle imposte –per di più dalle propaggini grigie dell’hinterland milanese, ahilui, non da una tenuta in rovina con tanto di samovar e tenera babushka –non si parlava di fecondazione assistita o utero in vitro: l’unica era pregare il proprio dio. Nel caso specifico quello che aveva fallito, cioè il comunismo, la bandiera sotto la quale il padre di Nemo –da pittore scomodo, Grande Non Recluso del Novecento –aveva militato per una vita. Essendo rimasto di stanza proprio a Berlino, nella ex Germania Est, fino a poco prima, il dio gli aveva dato retta e l’ovulo aveva accolto l’avanguardia operaia. 
Non si poteva nemmeno dire che nel corso degli anni una prolungata inattività dei lombi avesse caricato a molla la virilità paterna per quell’ultimo balzo nel vuoto, visto e considerato che per tutta la vita –a quanto ne sapeva Nemo –il genitore aveva copulato con ragguardevole generosità. Prima del suo concepimento, certo, ma con tutta probabilità anche dopo. 
Le vittime del satiro? Modelle cui fare il ritratto, servette, dame di Weimar, poetesse scappate dalla Grecia dispotica, perfino qualche moglie: il Maestro si era concesso all’eterno femminino senza risparmio e senza confini. Aveva sondato i bordelli a ridosso del fronte austroungarico e flirtato con le ballerine del Berliner Ensemble, partecipato alla battaglia partigiana proprio a Salò e alla bohème parigina proprio a Parigi, scorrazzato per Mosca e Budapest negli anni della guerra fredda, per giunta d’inverno. Se esisteva un fallo internazionalista, quello era il suo. 
Qualche giornalista dalla penna intinta nel calamaio delle banalità avrebbe detto che Nemesio Viti, detto il Vecchio, Artista Contro del Novecento, Gigante della Pittura, si era concesso alla vita
Ma di quale pasta fosse fatta la materia seminale che gli aveva regalato quel figlio tanto inaspettato e tardivo, dopo la scomparsa del primogenito, Nemo poteva dedurlo dalla sostanza povera dei propri giorni. Cosa ci si poteva aspettare da uno sperma vecchio, acquoso, modesto che, per qualche laicissimo miracolo, non certo con l’impeto di un fiume in piena ma piuttosto con l’ignavia dell’ultima goccia spremuta da un limone rinsecchito, era scivolato fino all’ovulo? 
Plic! 
Ed era nato lui. 
Dal seme rancido non nascono i fior. 
Altrimenti non era spiegabile la fatica cosmica che Nemo impiegava non solo per sbozzolare il corpo dal piumone, ma soprattutto per affrontare l’esistenza scialba che gli era stata donata da quei testicoli vizzi. 
Era materiale di risulta, scarto vivido, eco sbiadita di una vita precedente.

Questo pezzo è tratto da:

Le cento vite di Nemesio
Marco Rossari
Edizioni E/O, Ed. 2017
Collana "Dal Mondo"
Prezzo 18,00€


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sabato 27 maggio 2017

#MaggioDeiLibri #recensioni Le letture della Centuriona: Dentro l'acqua





'La ragazza del treno', esordio della giornalista inglese Paula Hawkins, è stato il caso editoriale di tutto il 2016 (pur essendo uscito a metà del 2015), grazie anche al film (che però pare non abbia avuto il successo sperato, peccato, perché a me, la Blunt piace parecchio)
Io lo avevo letto, mi ricorda Goodreads, a settembre del 2015, in 3 giorni. Mi era piaciuto. Parecchio. 
Quindi cosa ne penso di questo secondo romanzo, che si è fatto attendere quasi 2 anni e per cui c'era tanta attesa?


Il titolo 'Dentro l'acqua' non potrebbe essere più azzeccato, e neanche per il motivo scontato che potete pensare. La copertina è interessante. Non so voi, ma io ci ho messo qualche giorno prima di accorgermi della figura che si riflette nell'acqua, solo perché, sul retro, senza la scritta, l'immagine mi è risultata più pulita e più comprensibile.


La Hawkins scrive bene, questo, secondo me, è innegabile. Cioè, scrive come piace a me. Stringata, niente giri di parole, niente similitudini forzate, niente metafore incomprensibili.
Certo, la struttura non è altrettanto semplice. 
Il romanzo, infatti, si suddivide in 4 parti e in ben 86 capitoli, per lo più molto brevi (a volte, di appena una pagina) e ha la bellezza di 10 + 1 protagonisti.
Perché +1?

Vi spiego: l'autrice ha strutturato il libro facendo alternare (come nel precedente, ma in versione 3.0) le voci dei protagonisti (alcuni dei quali parlano in prima persona gli altri invece in terza -immagino l'autrice abbia anche avuto una motivazione per suddividerli in questo modo, ma la mia pigrizia mi impedisce di scavare più a fondo, anche se un'idea ce l'ho) di questa intricata faccenda che si sviluppa, complessivamente, tra il 1679 e il 2015.

Oltre alla vera protagonista principale, che possiamo individuare in Jules, non fosse per altro che è colei che occupa più capitoli (25 in tutto, mentre gli altri arrivano al massimo a 12), la storia ci viene sottoposta dal punto di vista, spesso accuratamente falsato (ahhahahahah, mica poteva essere così semplice), di altri 9 personaggi vivi + quello di Nel, che è la sorella di Jules ed è appena morta, attraverso le pagine del manoscritto su cui stava lavorando. 

Manoscritto che è il filo d'unione di tutta la storia. O meglio, lo sono le donne 'piantagrane' (la Hawkins proprio a questo genere di persone dedica il libro) che Nel dipinge nel manoscritto.
Il proposito della sorella, infatti, è quello di trovare un collegamento tra quel posto, lo stagno delle Annegate, e le strane morti che sono capitate proprio in quel punto del fiume.
Omicidi? suicidi? streghe? mogli? donne sofferenti senza via d'uscita?
Qual è la verità?

Anche questa volta, la Hawkins riesce a fare in modo che siano i personaggi stessi, pian piano, tra una bugia e un'altra (alcune dette agli altri, alcune dette a sé stessi) e tra un'incomprensione e un'altra, a rivelarci cosa è successo. Quello che è successo a Nel e alle donne che l'hanno preceduta.
Certo, riuscire a stare dietro a così tanti punti di vista non è facile. E forse l'autrice ha difettato un po' nel caratterizzare la scrittura a seconda del protagonista. Una maggiore caratterizzazione penso mi avrebbe evitato di chiedermi, per le prime 100 pagina, 'Aspetta, chi è più questo Mark?/ chi è più questa Erin?'. Cosa non da poco. Ma, alla fine, memorizzato (ahhaha, non è vero, me li sono scritti) i nomi dei protagonisti, non è affatto difficile riuscire a seguire la storia. E non è affatto difficile capire che, più di ogni altra cosa, la vita tende a fregarci facendo leva sulle nostre certezze. L'autrice è proprio brava a spiegarcelo.

L'ultimo consiglio che vi do, per questo libro, è questo: se siete di quei folli (detto con benevolenza) lettori che hanno la strana abitudine di leggere il finale prima di iniziare il libro, NON FATELO! Per una volta, fidatevi ciecamente della Paula e aspettate ad arrivarci.

Detto questo, buona lettura e buon fine #MaggioDelLibro!

Nastascia Mameli
Marassi Libri
Corso De Stefanis 55/R
16139
Genova
010815182


Il calendario di questa settimana:


giovedì 25 maggio 2017

#Maggiodeilibri- Paola C. Sabatini: Marta, intrappolata nel terzo di San Martino #recensioni


Fonte: Amina Sabatini- MyDayWorth

Per l’ultima settimana del #MaggioDeiLibri, l’indicazione ricevuta è stata quella di consigliare un libro, magari fresco di stampa, possibilmente di un esordiente. Non ne leggo molti, sinceramente.

Appartengo alla categoria dei lettori che preferiscono dedicarsi ad autori rigorosamente morti e sepolti da almeno un ventennio, in parte perché ho la sana convinzione che se la fama di uno scrittore sopravvive alla sua morte, sicuramente già in vita aveva qualcosa di importante da comunicare, in parte perché la penso come Proust, quando scriveva che occorre un certo distacco temporale tra la creazione di un’opera e la sua vera comprensione da parte del pubblico - almeno cinquant’anni -, poiché i lettori contemporanei all’autore difficilmente saprebbero coglierne il vero valore.
Sempre modesto (e snob), lui.
Alla fine, ho deciso di leggere “Grande Era Onirica” di Marta Zura-Puntaroni, che mi ostino mentalmente a chiamare Comparoni senza una valida ragione, perché rispondeva ad entrambi i requisiti – fresco di stampa, autrice esordiente -, perché ho assistito alla presentazione del suo libro a Siena (le foto sono state scattate proprio in quella occasione) ed ho ascoltato la sua voce e, last but not least, perché gran parte del romanzo è ambientato ♫♪...nella più bella delle città…♪♫ - come cantano i contradaioli a Siena prima, durante e dopo ogni Palio -, fatto più unico che raro almeno dai tempi di Federigo Tozzi.

La trama è presto detta: una giovane donna racconta la sua depressione, l’evoluzione della malattia e la sua cura, scandita dalle cosiddette Grandi Ere Oniriche, fasi strettamente collegate “a qualcosa di chimico che lega assieme gli spasmi notturni della corteccia prefrontale e sembra dar loro quasi un senso”, facendole in tal modo guadagnare l’illusione che non ci sia un motivo interno a farla essere quella che è, ma che tutto possa essere spiegato e dipenda da quello che ingerisce, fuma o beve.
Si avverte fin dalle prime pagine l’elemento autobiografico del racconto, confermato dalla stessa autrice in più interviste, dato che lei stessa è stata in cura almeno per tutta la durata dei suoi anni universitari. La storia si dipana fra gli amori impossibili o sbagliati della protagonista: il Primo, il Poeta e l’Altro, il suo rapporto con i vari psicologi e psicoterapeuti cui si rivolge nel tentativo, più o meno conscio, di guarire: il Vecchio Argentino e Gandalf prima, lo Junghiano e dall’Hippy poi, e il rapporto con suo padre, personaggio decisamente singolare e dai metodi educativi discutibili ma, a quanto pare, molto efficaci.
Gli unici nomi propri che compaiono sono quelli di persone realmente esistenti, trasposte nella finzione narrativa: l’amica Stefania, detta Ste, e i bibliotecari Leonardo e Filippo.
Personaggi minori: la Figlia dell’Altro e un gatto che si chiama Gatto.

Fonte: Amina Sabatini- MyDayWorth
Ambientazione principale: Siena, anzi, il Terzo di San Martino che i senesi conoscono bene e gli studenti universitari imparano col tempo ad identificare. Ambientazioni secondarie: il primo arrondissement parigino, una zona dalla quale la protagonista non si allontanerà mai durante il suo breve soggiorno Erasmus, e San Severino Marche, città natale della scrittrice, nei cui boschi ha imparato dal padre la difficile arte della sopravvivenza.
Lo stile è: brillante, anche quando descrive i farmaci e i loro effetti collaterali; schietto, ma mai volgare, quando racconta le umiliazioni di vario tipo cui la protagonista si sottomette; sincero, quando descrive il suo amore verso Siena e il rapporto che questa città riserva a chi non è nato lì: accoglie ma non accetta; amorevole, quando parla dei suoi genitori. Non c’è commiserazione nella narrazione, ma una lucida determinazione nell’affrontare il male oscuro.
D’altronde, l’argomento scelto mostra di per sé una buona dose di coraggio e nessun timore reverenziale da parte dell’autrice, visto che la depressione è stata già oggetto di romanzi o racconti pubblicati da autori di indubbio talento e fama, come Giuseppe Berto e David Foster Wallace tanto per citarne un paio. 
A differenza di Berto, però, Marta Zura Puntaroni fa un uso abbondante (solo abbondante?) della punteggiatura, in particolare dei due punti, tanto è il suo bisogno di spiegare e di chiarire quello che afferma nelle frasi precedenti, come insegna la grammatica italiana, e di lineette e trattini.

Fonte: Alessandro Gazoia
Concludendo, si tratta di un libro interessante, scorrevole, di una prima prova ampiamente superata, che fa ben sperare per il futuro. Marta appartiene alla generazione degli “erasmus”, dei blogger, delle informazioni cercate sul web attraverso la lettura veloce e sbrigativa di innumerevoli siti, dei social media, dell’eterno presente, ma se terrà bene a mente ciò che lei stessa ha scritto, riuscirà con la sua arte a tranquillizzare chi è turbato e a turbare chi è tranquillo, lasciando come consiglia Proust ai posteri l’ardua sentenza e una buona traccia di sè.

Paola C. Sabatini




Grande Era Onirica
Marta Zura-Comparoni
Minimum Fax, edizione 2017
Collana "Nichel"
Prezzo € 16,00

Il calendario di questa settimana:

martedì 23 maggio 2017

#MaggioDeiLibri #Recensioni : "L'occupazione", Alessandro Sesto - Un'occupazione curiosa...



Fonte: Mondi fantastici


"Penso quindi sono". Il problema della nostra era contemporanea è spesso che "penso" è scambiato con "scrivo". Non siamo in funzione di quello che ci viene in mente, anche estemporaneamente, ma siamo in funzione di ciò che scriviamo o fotografiamo e poi mettiamo sui social. "Sto vedendo Guerre stellari!", "Sto leggendo Il giovane Holden...", "Stamattina mi sono alzata così !❤ " seguita da foto cult sul letto con calzini -che manco per andare in palestra metteremmo!-, tazza di caffè che non si sa come si tiene ferma su lenzuola candide, libro e, vai a capire il motivo assurdo del concepire una cosa del genere soprattutto se ti dichiari lettore, accanto il segnalibro! Milioni di persone tutte diverse impegnate tutte a trovare il loro stereotipo pur di poter appartenere a qualcosa.
Ora, oggettivamente, se domani ci invadessero, non ce ne accorgeremmo per due motivi: noi e costante "sforzo sociale". Ci sarebbero i complottisti a dirci "È tutto un complotto dei poteri forti!!", quelli che strage o non strage fanno diventare la loro foto come grandi arcobaleni, dispendi di frasi di circostanza "RIP", "Mai più!", "Che la terra ti sia lieve", "Anche io sono "stato/persona/persone/personalità/vip (del caso)", e ancora quelli che ci fanno satira sopra e quelli che ce l'hanno con coloro che fanno satira. In più i giornali cercherebbero l'HashTag più letto e se, l'occupazione, non è al top "chissene!" meglio mettere i gattini che fanno sempre tendenza. Ecco, sono fermamente convinta che, in un mondo in cui la polemica alza l'audience, l'occupazione, un qualcosa che ci mette tutti dalla stessa parte delle vittime, non sarebbe proprio la nostra prima preoccupazione.

La storia di cui parlo oggi sembra partire da una considerazione simile alla mia, e anche da una serie di assunti classici della distopia su cui si sono provati in passato con storie del tutto diverse fra loro Philip Dick o Orwell o Orson Wells. 
L'America, si dice, sia stata invasa dall'Europa. Si dice perché non si sa perfettamente. Un tempo l'invasione, o occupazione che dir si voglia, era caratterizzata da situazioni tangibili: c'erano gli invasori fisicamente conquistavano il terreno conteso, spari e tumulti, gente che veniva riunita per esser meglio controllata e via dicendo. Nell'era di internet, quella dietro l'angolo, questo non avrebbe luogo, tutto si svolgerebbe in un giro di bit che ad esempio guidano un drone, e, per quanto possa sembrare assurdo, basterebbe far crollare la borsa di un paese per farlo risvegliare senza risorse. 
Quindi, "L'Occupazione" di questa storia, ha difficoltà ad essere confermata proprio perché non è evidente e, quindi, i protagonisti si ritrovano a cercare notizie in rete e sui giornali; conferme e smentite si susseguono fino al punto di creare anche diatribe all'interno delle stesse redazioni e di veder uscire giornali che si contraddicono fra loro, anche se appartenenti alla stessa testata. In questa mondo seguiamo le vicende di Andreas e Jacob. Andreas ha una vita come tante, una fidanzata come tante, guarda serie come tante e lavora come tanti. Jacob ha un cane, lavora per una ditta che abbandonerà, è in cura da uno psicologo al di fuori dello standard e in comune con Andreas ha una cosa sola: entrambi sono degli informatici. L'occupazione, "occupa" lo spazio di un attimo nelle loro vite. Vite che poi, in attesa di conferme, riprenderebbero da dove si sono interrotte l'ultima notte da "nazione libera", ammesso che non lo sia ancora, se non fosse che la compagna di Andreas sia sparita lasciando un asettico messaggio e Jacob si ritrovi in una nuova azienda più impegnata a far festa che a fare fatturato e che continui ad essere perseguitato da uno stalker, dal nick Tokyo, che continua a scrivergli cose assurde mentre sta giocando a Go - un gioco giapponese online-. 

Sembra un gran caos vero? In effetti il "gran caos" finisce esattamente alla terza pagina. Dopo, tutto sembra diventare normale nella sua assurdità. È un libro delilliano questo, in molte delle sue parti, per la sua prosa diretta e realistica ma anche per la rinuncia alla ricerca ossessiva di verità. La storia non deve avere un fine, il memento è l'attimo stesso di cui si racconta. Fa l'occhiolino a Wallace per la sua rinuncia alla "metafora che deve asservire la ricerca di un significante"; si serve di frammenti delle nostre vite riassemblandoli in un grande mosaico che ne amplifica le caratteristiche peculiari nei loro aspetti più irrazionali. Non serve che si riconosca il singolo frammento, ma che, dall'unicum che ne esce, si sia in grado di dare il giusto valore, significato ed emozione alle cose che realmente sono importanti. Il significante non va più cercato come dice Eco, è lì, nella trama e nella storia presa così come è scritta. 
È paradossale perché nessuno verrà mai ad occupare a nome dell'Europa, l'America senza che non ci sia almeno uno che dica "No, non ci sto!" e rimane vero in ogni sua parte che descrive l'apatia con la quale la vita e gli eventi ci scorrono vicino senza che noi abbiamo la benché minima voglia di prendervi parte. È limato sull'esigenza di esserci, ma avulso dalla vita di una qualsiasi persona che potremmo conoscere, tanto da rendercelo "strano", e perrottiano nella sua curiosità di seguire le scelte, per noi a volte assurde, di Andreas e Jacob e le loro conseguenze che non seguono mai percorsi prefissati. Per dirla in poche parole: questo lavoro riassume la curiosità di Sesto. E' una forma di indagine strana che sembra portarlo a guardare alle manie attraverso quelle dei personaggi che crea.

E così con lo scorrere delle pagine saltano fuori la nostra affezione per le storie infinite e che continuano a riavvolgersi su se stesse che noi amiamo vedere in tv, la nostra necessità di non avere risposte ma di essere ascoltati, il nostro necessario senso di appartenenza a qualcosa, che non è detto che ci appartenga, ma ci permette però di fare gruppo. Emerge l'uomo contemporaneo, impegnato a guardare il dito e non la luna che sta indicando, che perde il senso della visione d'insieme a favore di un senso di inadeguatezza nell'attimo che gli scorre davanti e nelle piccole cose che lo circondano. Una persona che si accorge che la stessa storia gli viene rifilata in più stagioni solo cambiandone i protagonisti, o che vive l'appartenenza ad un credo, anche se dichiaratamente nuovo e libertario, che invece diventa identico ai precedenti non nel suo essere una religione, ma per la rinuncia degli adepti a pensare con la propria testa. E la rinuncia a pensare, ad essere, pervade la nostra quotidianità e in parte questa storia. Andreas non ha più Nora, non sa dove sia andata a finire, la cerca. Rinuncia a se stesso, al pensiero, in favore di un mondo che non gli appartiene, anche se continua ad avere il dubbio che lei non lo abbia lasciato ma che sia stata costretta a farlo. Non coglie nuove opportunità e nemmeno percorre vecchie strade. Rimane lì a cercare senza convinzione, estraneo ad un mondo che vede scorrere come una serie TV. Stessa cosa dicasi per Jonas, che cerca Tokyo e anche qualcun altro (ma questo lo dovete scoprire da soli!). Cerca, ma non sa cosa e non sa perfettamente se la vuole trovare.

Questo avviene proprio perché non è la verità finale che ci libererà tutti, ma è il viaggio. Un viaggio che parte da un'occupazione che non c'è, da una persona che non c'è più o che non è reale e che finisce in un momento imprecisato. Un'apice che non ha bisogno di una discesa. Un viaggio attraverso un mondo irreale, popolato di personaggi assurdi e dall'assurdo significato che si da alle cose o alle persone, nonché agli avvenimenti. Un viaggio molto simile a quello che fa ognuno di noi, in contesti decisamente più normali ai nostri occhi, ma che diverge poco da quello di Sesto. Imparando a guardare le nostra realtà da altre angolazioni, con altre parole, ne esce un uomo in parte sconfitto dal peso di una mancanza di verità certa, quella dei giornali, delle presenze e delle risposte. Le certezze sono quelle che pensiamo essere i cardini della nostra vita che, paradossalmente, non ha nulla di certo.
Emerge anche l'ingenuità che riusciamo a mantenere, molto spesso nascosta anche a noi stessi, che ci spinge ad andare oltre quella che è la nostra comfort-zone e che ci porta a scoprire e a soppesare ciò che è diverso da noi. Non è detto che accettiamo di sposarlo, ma entrare in contatto con la diversità è il più puro atto di curiosità che si avvicina pericolosamente a quella di un bambino. La curiosità è qualcosa che ci rende liberi, di provare, sentire e prendere in considerazione. Forse l'ultimo atto di libertà che ci rimane da esercitare. Possiamo lasciare oppure tenere ciò che per curiosità abbiamo visto, sentito o provato. Ma da lì, entrano in gioco fattori diversi, i filtri dell'età adulta, le esperienze e via dicendo e torniamo nel nostro personale stato di Occupazione. Perché alla fin fine "L'occupazione" di Sesto non è altro che quella che noi costruiamo giorno per giorno riempiendoci di filtri e di limiti che pensiamo che con l'età ci debbano appartenere.

La curiosità che muove questo libro è anche quella del suo autore. Sembra un po' un insieme di tutte le curiose esperienze e letture, diversissime fra loro, che Sesto ha fatto. Il suo peregrinare fra una storia e l'altra -che sia in TV, in un libro o un documentario-, si fondono alla perfezione creando situazioni satelliti e cosmologie del tutto particolari, talvolta decisamente verosimili e divertenti- legate fra loro dalle avventure dei due protagonisti, lasciandoci interdetti e sicuramente divertiti. In tutto questo e contando che Sesto finora si era sempre dilettato in racconti, pensare che sia uscito con un intero romanzo di 300 pagine può sicuramente fare un certo effetto. E invece no, è il Sesto di sempre scorrevole, divertente e anche molto divertito, che con la nonchalance che lo contraddistingue, con fare "curioso" segue le avventure dei protagonisti che ha creato senza interferire, ma lasciandosi trascinare. Riesce a portare con se i suoi lettori senza annoiarli con dichiarati inutili particolari ma riuscendo ad evidenziare la necessità di ognuno di loro.
È stata un'avventura decisamente interessante cui, mi auguro, seguiranno molte altre, con molti altri e diversi riferimenti, che polverizzeranno alla prima riga l'immagine che, finora, mi sono fatta di questo autore e che, come questa volta, svela sempre qualcosa di nuovo e inaspettato. Chi non lo legge, probabilmente verrà occupato per ricordargli l'importanza di leggere "L'occupazione". Io ve l'ho detto, poi non vi lamentate!
Buone letture,
Simona Scravaglieri

L'occupazione
Alessandro Sesto
Gorilla Sapiens Edizioni, ed 2017
Collana "Scarto"
Prezzo 17,00€




E ora il calendario di questa settimana:






fonte: LettureSconclusionate

sabato 20 maggio 2017

#MaggioDeiLibri #legalità: Peppino Impastato consigli di letture!

Foto di  Natascia Mameli

Nella notte dell'8 maggio 1978 moriva, a Cinisi (Palermo), Peppino Impastato.
Se non ricordate di aver letto niente, sui giornali del 9 maggio, non è colpa vostra, credetemi.
Peppino Impastato non è forse una delle figure più conosciute della lotta alla mafia ma dovrebbe essere una delle più emblematiche.


Peppino, infatti, nasce in una famiglia collegata alla mafia locale. Ma la mafia è talmente radicata all'interno delle istituzioni cittadine che è praticamente impossibile che ci sia una famiglia non collegabile a essa e altrettanto impossibile sembra pensare di opporsi a essa. Lo è per il padre di Peppino, ma non per lui, e non per suo fratello Giovanni e per sua madre Felicia. Che quando Peppino inizierà la sua lotta politica, anche a suon di ironia e con toni scanzonati, anche dalle frequenze di una radio locale, contro ciò che c'era di marcio nella sua città, lo sosterranno. E anche dopo, durante il processo agli assassini di Peppino, non smetteranno mai di credere nella sua lotta per la legalità contro l'illegalità (vedete quanto scrive Lirio Abbate, in merito, nella foto)

Parlare di queste cose non è mai facile, si rischia di cadere nello scontato (ma scontato non è mai niente, quando si parla di queste cose) e si fa fatica a rimanere neutrali, per evitare che il discorso prenda subito pieghe politiche. Ma è importante che se ne parli. Ero tentata di declinare l'invito, quando ho visto che il post della settimana doveva parlare di legalità. Ero tentata. Ma è giusto combattere queste tentazioni.

Una delle cose peggiori, quando si parla di mafia, è fingere che non esista. Fingere di non vedere, fingere che l'illegalità vada bene proprio perché sappiamo essere gestita dalla mafia, e allora 'è meglio farsi gli affari propri' e tacere. Cedere alla tentazione di pensare solo al proprio 'orticello' e non guardare oltre.

Ma la cosa peggiore di tutte, quando si parla di mafia, è quando ci si rifiuta di capire che il contrario di illegalità deve essere legalità, non quasi-legalità. Che bisogna sostituire il concetto di "illegalità sistematica" con quello di "legalità sempre e comunque". 
Che comprenda tutto: dallo scontrino nel negozio sotto casa alla fattura del veterinario; dal rispetto del codice della strada da parte dei guidatori al rispetto dello stesso codice anche da parte dei pedoni; dal tenere pulite le strade (che si traduce nel non sporcarle) al rispetto per le cose comuni. 
Tutte mancanze che ci diciamo essere sempre prerogativa degli altri, ma che ci coinvolgono tutti: quando parcheggiamo 'un attimo' la macchina in seconda fila sotto casa per andare a prendere il cellulare dimenticato sul comodino; quando buttiamo per terra il biglietto dell'autobus, non appena scendiamo; quando sputiamo la cicca per terra a mezzo metro dal cestino della spazzatura; quando fingiamo di non accorgerci che il cane sta facendo i suoi bisognini sul marciapiede perché ci siamo dimenticati di portarci dietro un sacchettino... (e la lista sarebbe ancora talmente lunga che devo fermarmi, perché mi ero ripromessa di fare un post breve)
Che ci coinvolga in prima persona ogni istante della nostra vita di cittadini.


Se volete iniziare a conoscere la storia di Peppino Impastato vi consiglio il libro a fumetti 
"Peppino Impastato. Un giullare contro la mafia" edizione Becco Giallo, 2009
in fondo al quale troverete anche una lista di libri, film, siti e musica per saperne di più.

Natascia Mameli




CORSO DE STEFANIS 55 R
16139
GENOVA
tel 010815182



E ora il calendario della settimana per seguire i post nuovi e leggere quelli già passati:




Foto di Natascia Mameli

martedì 16 maggio 2017

#MaggioDeiLibri: #Legalità il coraggio di conoscere...

Fonte: Fanpage


Sapevo che questo momento sarebbe arrivato e sinceramente non sapevo cosa scrivere di #legalità perchè negli anni ho letto un sacco di libri in argomento e ne potrei parlare all'infinito. Ma non tutti conoscono questo blog dai suoi inizi e quindi sicuramente potrebbero storcere il naso. Perché la #legalità piace nei suoi contenuti ma quando impatta sulle nostre azioni giornaliere diventa un po' meno forte la nostra affezione al tema. Allora prendiamola alla larga e parliamo di noi attraverso i libri nei percorsi che ho fatto.

Fonte:LettureSconsclusionate
All'inizio era Saviano. Eh sì, c'era proprio lui e c'era prima di questo blog. È un libro che ho comprato in un autogrill e si chiama "Gomorra", e la sua è una delle recensioni di cui vado più orgogliosa perché per scriverla mi ci sono voluti solo 3 anni di letture, confronti, ricerche e quant'altro. Gomorra, come libro di camorra (leggi libro denuncia) stonava un po' come una campana non ben colata nello stampo. Cellini, mastro orefice e biografo di tanti illustri artisti, probabilmente l'avrebbe fatta rifondere per averla perfetta. E invece Gomorra dimostra che anche nell'imperfezione si possono creare tendenze diverse e nuove. L'errore, se di errore vogliamo parlare, sta nel sottotitolo aggiunto, a detta dell'allora responsabile della collana, "per spiegare di che cosa si stava parlando". 

In effetti invece, guardando e facendo un'analisi del romanzo, si scorgono tagli netti di trama, che nei capitoli danno risalto ai fatti di cronaca e ci fanno quasi perdere le vicende di un personaggio, come il giornalista freelance che compare e scompare a seconda della situazione. La fortuna dell'editor è che il giornalista in questione parla in prima persona, quindi, a meno che non lo rileggi due volte, non te ne accorgi, preso dall'empatia per certi violenti fatti di cronaca. Si narra, per i corridoi dell'editoria che la versione originale contasse più di seicento pagine e i risultato è sicuramente di tutto rispetto, ma se fosse effettivamente un libro denuncia avrebbe comunque un assetto diverso, perché negli anni e leggendo veri libri denuncia l'immagine di quel che succede sarebbe più aderente alla realtà di quello che è veramente successo. Invece questo non è l'interesse dell'autore che invece verte su tutto quello che ha creato un clima inospitale per i giovani che sono costretti ad emigrare per crearsi un futuro cacciati da un sistema che, pur dichiarandosi padrone orgoglioso di quella terra da cui viene, la sfrutta all'ennesima potenza inaridendola. Ed ecco perché il nostro giovane freelance, dopo aver elencato uccisioni, vendette e stragi, dal cumulo di immondizia urla "nonostante tutto io sono ancora qua!".

"Gomorra" rimane un libro interessante perché esce in sordina, perché è scritto da uno che, circa un anno dopo, dal palco delle autorità riunite a Castel Volturno, guardando i suoi concittadini divisi per sesso, spaventati dalla presenza delle "famiglie" dei reggenti sono lì composti e silenti ad ascoltare un annoiato Bertinotti che parla di legalità. E lì, in quel momento, il giovane Saviano e non lo scrittore, si lascia prendere dallo giusto sdegno da dire i nomi dei capi clan sentenziando "Questa non è la vostra terra! Andatevene!". Ecco checché se ne ricordi di questa vicenda, da come la raccontava all'inizio a come si racconta oggi si è arricchita di particolare che nulla hanno a che vedere con l'originale, Saviano non fu messo sotto scorta per il libro - la camorra ha sempre scelto un profilo basso, e se questa storia non fosse venuta fuori e Saviano non fosse diventato conosciuto loro avrebbero potuto annoverare questa storia come le numerose bislacche prove di un giornalista "creativo"- ma fu protetto per avere fatto quello che nessuno fino ad allora, in presenza di telecamere e autorità, aveva mai osato fare se non volesse proprio morire. Aveva pronunciato i quattro nomi dei capoclan. Aveva detto nomi e cognomi, non aveva fatto riferimento in terza persona nicchiando a lui o a loro, a zio, nonno e cugino. Li aveva pronunciati distintamente.
Un atto di coraggio, nato sicuramente da un'azione incosciente, di un ragazzo che comunque era conosciuto e sotto controllo (sia mai il libro fosse piaciuto) ma il cui pericolo accresce proprio nel momento in cui commette il fatale errore.

È  qui che le strade della legalità di questo post divergono. Da un lato c'è la letteratura di genere che segue il filone aperto da questo libro e dall'altro c'è il filone storico di cui Saviano si è sempre fatto vanto che finisce sempre in storie di legalità, ma è una legalità che viene dai fatti storici. Ve li elencherò uno di seguito all'altro velocemente giusto per non farvi morire di inedia, contenti?

I libri denuncia con una formula romanzata

Ce ne sono tanti, ma una delle cose che mi distingueva all'inizio dell'avventura di LettureSconclusionate, è che io volevo veramente sapere di cosa si stava parlando perché fino ad allora io la camorra, confesso, non la conoscevo proprio. Per me esisteva la mafia, ma la camorra proprio non era mai pervenuta! Se c'è una cosa che Saviano e Mondadori (toglietevi quella smorfia dalla bocca, perchè se oggi si parla con questa veemenza di queste cose è proprio grazie ad un editore con i mezzi che si è potuto permettere un lavoro di un editor così ben fatto da creare non solo attenzione ma anche un mito che viene citato nei testi scolastici!) sono riusciti a fare è creare una tendenza.  Una tendenza fatta di emozioni e di fatti, anche se non tutti raccontati nella giusta sequenza ma erano funzionali al risveglio delle coscienze. Il fatto di usare dei termini selezionati (a Napoli non c'è l'asfalto ma il catrame e per capire la differenza dovete pronunciarlo ad alta voce per sentire quanto la seconda parola gratti fastidiosamente come le unghie sulla lavagna) di specificare, come disse Saviano in un'intervista, termini quasi da medico di obitorio (come quando Carmela l'attrice - oddio speriamo di non sbagliarci ma se l'ho fatto corregetemi che aggiorno!- viene "sparata" in faccia e il suo corpo giace riverso a terra con il cervello che si sparge sul catrame) sono mezzi per creare scompiglio emozionale e per renderci automaticamente partecipi della situazione e della claustrofobia che vive la gente nei vicoli e in quale orrore i ragazzini vivono. Questa coscienza nuova ha trovato due strade: quello che io chiamo il "militantismo da candela", quello delle persone impegnate a ricordare tutte le vittime (cosa che a me non è mai riuscita e cui fatico a partecipare) e quella tendenza a cui appartengo io che invece vuole davvero capire. Ecco se davvero volete capire ci sono dei testi che non si possono non conoscere.

Fonte: LettureSconclusionate

"L' impero. Traffici, storie e segreti dell'occulta e potente mafia dei Casalesi" di Gigi di Fiore. È una delle mie recensioni dell'inizio, si capisce dal fatto che tra ieri ed oggi la cosa che è cambiata è che non sono più così succinta. Ma al libro di Gigi di Fiore, scrittore, giornalista e soprattutto storico, specializzato nel Risorgimento italiano (un vero pozzo di cultura), non servono preamboli e spiegazioni. Questo suo libro è una bibbia, precisa, puntuale e che all'epoca ho letto cercando e trovando riscontri in un giornale decisamente impegnato in Terra di Lavoro come "Caserta C'è". Omicidio? del clan di Sandokan riportato sul Corriere? Bastava andare su Caserta c'è, leggere i particolari, aprire l'elenco ragionato dei nomi, per sapere vita, morte e miracoli, nonché i parenti del capoclan, di quando era stato incarcerato, cosa aveva fatto e via dicendo. Il tutto raccontato con uno stile impeccabile e che ad un certo punto risponde anche ad un'annosa domanda che sento spesso fare ai tuttologi dell'ultima ora: "Perché i napoletani (in Campania per i tuttologi sono tutti napoletani) si lamentano tanto di essere abbandonati se poi le telecamere sono sempre lì e ci fanno anche le serie TV?". Semplicemente perchè il miraggio dell'informazione costante non esiste nella cronaca definita come comune. Perché nel momento in cui arrivano le telecamere tutto diventa come un set cinematografico e nessuno andrà oltre. 



E infatti qualche anno dopo, all'arresto dell'ultimo dei ricercati, Iovine, due cose sono sfuggite all'informazione nazionale: la giornalista di Repubblica che domandava ingenuamente al procuratore dell'epoca "Possiamo dire di aver sconfitto i Casalesi?" e il fatto che quando passavano le volanti che portavano Iovine in caserma per la formalizzazione degli arresti tutte le strade fossero vuote e in silenzio. E no, non c'era nulla da festeggiare, perché se uno spazio si apre c'è un altro clan pronto a prendere il suo posto e, se quello precedente poteva contare su un silenzio di una finta pace gestita su equilibri fra clan non sempre stabili, con quelli nuovi non si sa mai cosa aspettarsi e non sapere quanto sarà sanguinosa la nuova guerra o se i vecchi manterranno il loro potere, vi assicuro che spiega tutto quel silenzio. Non vi sentireste poco sicuri e abbandonati anche voi?


Fonte: LettureSconclusionate

"Dentro la giustizia" Raffaello Magi. Una cosa di questo libro c'è da dirla, il resto dei libri che citerò sono di scrittori e giornalisti, ma questo è scritto da un Giudice con volutamente la "G" maiuscola. L'empatia che riesce a tirar fuori, pur parlando dell'immensa difficoltà di raccapezzarsi in un processo come quello "Spartacus" è davvero tangibile. Un libro scritto non solo bene ma anche pieno zeppo di informazioni per imparare a guardare i fatti in maniera corretta. In fondo dopo che hanno risvegliato la nostra coscienza, e Di fiore ci ha ricordato che la storia viene da lontano, ci serve qualcuno che ci insegni a guardare ai fatti in funzione non dell'emozione che potrebbe generare nuova violenza, ma con gli strumenti della logica e della critica seria. 



L'ho visto dal vivo recentemente alla presentazione di un libro di cui vi parlerò dopo e devo dire che sono rimasta ipnotizzata da tanta coerenza nel gestire anche il modo in cui raccontare, in modo da corredarle delle giuste informazioni per interpretarli, i fatti. Omicidio è un fatto, il clima che genera il messaggio per cui si è ucciso un uomo è un altro fatto, l'orrore no. Alla giustizia l'empatia non serve, perchè l'empatia asserve alla vendetta in questi casi. Ecco il resoconto di quel processo è scritto in maniera estremamente scorrevole e ci permette di entrare in quell'enorme mondo di fatti e di capire i vari filoni dei processi secondari che ne sono scaturiti. 




Infine un biografia, che io ancora per impegni di altro genere, non ho ancora completato ma di cui ho letto già più della metà. Si chiama "Il Sangue non si lava" ed è la biografia di Domenico Bidognetti scritta da Fabrizio Capecelatro e che è uscita di recente, qualche mese fa, di cui vi ho parlato su Ultima Voce. La bellezza di questo libro risiede nel fatto che l'autore è presente e al contempo assente, è un po' come stare in una sala visite di un carcere di massima sicurezza, riparati per quel che si può da orecchie indiscrete ed essere quella persona senza volto che è l'interlocutore perfetto per un dialogo quasi interiore che ripercorre le fasi di una vita che si è svolta fra illegalità e carcere. È un po' una elaborazione del lutto di un uomo che sa di aver perso l'occasione di una vita diversa, con una semplice scelta. Potremmo dire che non era obbligato, ma in questo torneremmo ad essere come i tuttologi di cui sopra. 



La contestualizzazione della vita di Bidognetti è importante, ed è importante capire il perché, in quel mondo e in quel periodo storico e in quei fatti, egli abbia agito così. Ma lascia comunque un monito, ed è una cosa imparata sulla propria pelle. Ogni scelta fatta in maniera libera o no porta alla sepoltura: che sia al cimitero o in un carcere non importa, anche se la differenza è sostanziale. Il mito creato da libri di quart'ordine e da serie Tv è una finzione. Quando entri in determinati contesti sai che comunque morirai e ti si apre non una vita d'oro, ma una sottoterra sempre in corsa per scappare agli arresti delle forze di polizia o ai sicari dei gruppi con cui sono in guerra. E, visto così, il mito del boss di camorra perde ogni attrattiva non trovate?



Legalità e illegalità nella storia, la Russia



Un'altra delle cose che mi aveva interessato di Saviano è questo, apparentemente, incoerente modo, degli inizi, di parlare della camorra, del "potere della parola" e di alcuni scrittori in particolare come Varlam Salamov e Gustaw Herling. Che c'azzeccavano due tipi che hanno vissuto la realtà del lager, altri di cui non vi citerò i nomi perché sono libri che nel tempo ho recuperato ma che ancora non ho letto, con tutto questo risveglio di coscienza? Dopo lunga e attenta riflessione lettura del suo libro "La bellezza e l'inferno", dopo una serie di letture, ho scoperto che un po' c'entrava. Il punto è abbastanza semplice: che l'illegalità sia data da un regime o da una cosca mafiosa il sunto non cambia. Cambiano a volte le logiche in cui si pensa la gestione del potere e in questo, Salamov è un esempio eclatante.

Sono tre i libri che ho letto di Salamov e sono, in ordine di lettura e di scrittura da parte dell'autore stesso, "I racconti della Kolyma", "La Visera" e "La quarta Vologda" tutti e tre pubblicati da Adelphi di cui però solo due vengono citati nella biografia ufficiale dell'autore. Chiariamo questo punto così capiamo bene di chi stiamo parlando: Salamov ha vissuto la 18 anni al confino con una piccola interruzione di due anni (o 5 confesso di non ricordare la tempistica perfettamente) se non vado errata. Colto in giovane età, all'università, a ciclostilare il "Testamento di Lenin"  venne inviato a scontare la sua pena al confino, manco tantissimo rispetto alla Kolyma, in una località che si chiama Malaja Višera. Ne uscì dopo 5 anni, due in ritardo rispetto alla pena data, perché alla fine dei tre anni fa presente che qualcuno sta ostacolando il suo ritorno a casa. Torna a Mosca dopo qualche periodo di difficoltà ricomincia a scrivere per un giornale culturale, si sposa e poco dopo viene convocato per rilasciare delle dichiarazioni sulla pena scontata. Non farà più ritorno fino a tredici anni dopo. Quel lungo periodo lo passa al reale confino in Siberia e rischierà anche di morire, anche se effettivamente la prima volta che Salamov muore è quando sale nuovamente sul maledetto treno che lo porterà alle miniere, da dove sa già, che non uscirà nessuno, né le vittime e tantomeno i carnefici. 

Quando tornerà affronterà un lungo periodo di lutto in cui sarà combattuto fra capire quello che ne è stato della sua vita e la paura di essere nuovamente arrestato dal KGB che comunque lo continuava a far seguire come attestato da un volume postumo uscito qualche anno fa che si chiama "Alcune mie vite". E in quell'occasione viene riportato un racconto che nelle raccolte precedenti non c'è che si chiama "Il guanto" e che spiega in buona parte che significato dare alle tre raccolte che Adelphi ha pubblicato. In quel pezzo di confessione scrive di essersi vestito con dei guanti nuovi, sono puliti, non sono bucati, la pelle sa di buono, ma le sue mani non ci si trovano bene. I guanti nuovi non conoscono e ne accettano i calli che nel tempo hanno rivestito le articolazioni, sono fatte per mani che lavorano, ma non come hanno fatto le sue che ora sono deformate. E conclude dicendo che i guanti che sentiva davvero suoi sono in un luogo che ora non c'è più, che erano perfetti perché erano stati con lui tutti quegli anni e si erano adattati al cambiamento delle sue mani.

Ecco ogni singolo racconto è un po' come un callo e l'intera raccolta dei tre volumi non è altro che la ricostruzione dei due guanti lasciati lì, dove ora non c'è più segno della barbarie che ne è stata. La Visera non è contemplata nella biografia, perché quando Salamov comincia ad elaborare il lutto di quello che è successo, ricostruendo i suoi vecchi guanti, lo fa di getto partendo dalle esperienze più vicine (il campo della Kloyma) tornado indietro ( quello della Visera, fino alla sua infanzia in Vologda) e la catalogazione all'estero e anche quella iniziale di Einaudi che doveva uscire alla fine degli anni '90 del 1900 non aveva previsto di selezionare e i racconti in maniera ragionata come ha invece fatto con passione Adelphi. Ecco in una cosa Saviano ha sbagliato parlando di Salamov, anzi più di una ma a questa ci tengo di più, Salamov non ha mai scritto per lasciarci questo lascito. Lui scriveva solo per se stesso e si sente, dall'accortezza e dalla sensibilità con cui descrive determinate scene, orribili, ma sempre narrate con l'attenzione di uno che sa di non poter sopportare più di tanto. Ogni racconto che compone ogni capitolo di questo trittico di raccolte è un diario personale per ripercorrere una vita rubata.

In questo spazio non troverete la recensione de "La quarta Vologda" perché non mi sono mai sentita in grado di concludere la mia esperienza con Salamov e il fatto di non averla scritta mi ha sempre dato quel senso di "forse potrei rileggerlo e così conoscerlo di nuovo dall'inizio". Discorso diverso quello di Gustaw Herling scomparso oramai 17 anni fa nel 2000. Herling che, in seconde nozze ha sposato la figlia più piccola di Benedetto Croce, ha avuto fortuna e sfortuna al contempo. La fortuna è stata quella di avere un talento particolare per raccontare le storie. La sfortuna non è stata solo quella di essere stato in giovane età catturato durante la seconda guerra mondiale mentre andava a combattere contro i tedeschi e di aver passato anni nei gulag per gli stranieri, ma anche di non essere stato compreso a fondo dall'establishment culturale italiano. 

Relegato e bistrattato come Malatesta, quasi portasse sfortuna, poteva contare su pochi attenti amici, come ad esempio Ignazio Silone, ed un selezionato gruppo di estimatori fra cui figura Piero Sinatti, il primo traduttore di Salamov in Italia. Nel libro uscito da una conversazione proprio con Sinatti e la Raffetto, che se non sbaglio lavora oggi ancora in Adelphi e che dovrebbe aver curato l'uscita de la Visera, che si chiama "Ricordare, raccontare. Conversazioni su Salamov" Herling un po' ci indirizza sulla natura non solo di Salamov come scrittore, ma ci lascia anche una sorta di testamento accennando proprio dei Gulag: quel cosmo circolare che Salamov descriveva fra le pagine de la "Visera" è reale. Ogni volta che cambiano i poteri costituenti chi ha giurato fedeltà al vecchio tenutario del potere domani verrà ucciso per lasciare lo spazio all'altro di spadroneggiare. Tutta questa realtà è l'immagine delle forme del male che si contendono i casi della vita di ognuno di noi e visto che, il compito dell'intellettuale, non è di giudicare ma di insegnare a guardare e istigare la riflessione e la discussione lui dedicherà una vita a descrivere le varie forme in cui questo può manifestarsi. Ne viene fuori una raccolta lunghissima che solo in Polonia, il suo paese d'origine, è pubblicata in maniera integrale, che si chiama "Diario scritto di notte". nel resto del mondo è pubblicato in selezioni di racconti fra cui la più bella a mio avviso è "Don Ildebrando e altri racconti".

Ma cosa ci azzeccano con la #legalità e fra loro queste due espressioni completamente diverse e lontane nel tempo. Nella cosmologica savianica, quelle che le unisce è il "Potere della parola". L'esercizio all'analisi di parole e concetti, alla conoscenza della storia ci impedisce di essere in balia di un''informazione non sempre attenta alla verità" come succedeva per la giornalista di Repubblica, e ci spinge ad andare a cercare testi sicuramente più di nicchia per trovare quelli che, come i rappresentanti che vi ho citato (ma ce ne sono molti altri anche citati qui nelle recensioni del blog) che questo lavoro lo fanno ogni giorno con passione e attenzione, al netto del pericolo costante che questo lavoro comporti. Nel caso dei Gulag il potere della parola si esplica in due modi, uno indiretto che ci ha regalato pagine di profonda riflessione sulla giustizia e la legalità su cui si appoggiano i regimi che annientano spesso l'establishment culturale e l'altra con l'esercizio del ricordo che non deve venire perpetrato passivamente nel riportare fatti e avvenimenti ma utilizzato per andare oltre. Magari non capiteranno più i Gulag, o forse ci sono già di nuovo, ma l'esercizio alla conoscenza è il primo vero passo verso la #legalità che ognuno può fare per trovare la sua libertà e anche salvaguardare quella degli altri.

Se non siete moti di stenti fin qui, siete già sulla buona strada!
Questo pezzo ha una dedica particolare ad un amico conosciuto negli ultimi tempi ed è Rosario Lubrano. È con lui che qualche tempo fa alcuni di questi argomenti erano venuti fuori e se la mia memoria non mi ha abbandonato completamente è proprio grazie a coloro che ogni tanto mi chiedono di queste storie.
Sotto vi inserisco il calendario della settimana.
Buone letture,
Simona Scravaglieri








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