mercoledì 30 settembre 2015

[Dal libro che sto leggendo] Eureka Street


Belfast
Fonte: Language Discount


Libro appassionante e dannato quello di oggi, ambientato a Belfast dove due giovani amici stanno per vedere la fine delle ostilità dei gruppi terroristici. Due persone completamente diverse per religione, un cattolico e un protestante, per cultura, uno laureato e uno no, si trovano a vivere in una città che sopravvivere nonostante omicidi e bombe. Una città che nonostante tutto non si arrende e cerca la propria normalità anche nei piccoli gesti.

Jack abbandona il lavoro che lo fa stare tanto male del "recupero crediti", in effetti è uno di quelli che entrano a casa per requisire la merce acquistata a rate e non pagata e Chickie invece è un nullafacente. Il primo vorrebbe ritrovare quella pace domestica distrutta quando la sua ex, Sarah, lo ha lasciato per ritornare nella tranquilla Inghilterra, l'altro invece vuole una vita diversa e una rivalsa verso il vecchio e povero quartiere in cui è cresciuto: Eureka street. Due cambi di vita drastici per motivazioni differenti che li porteranno a cambiare la loro vita definitivamente entrando a pieno titolo nel mondo degli adulti.

E' decisamente scorrevole, ben tradotto e verosimile. Alla storia dell'autore fanno da sfondo i movimenti politici e terroristici della fine degli anni '80 e degli inizi degli anni '90. un libro con delle tinte fosche a volte che però non lascia aperta la porta alla speranza di poter desiderare di vivere una vita migliore.

Buone letture,
Simona Scravaglieri 


Uno 
Tutte le storie sono storie d’amore.  

Venerdì sera. Sei mesi fa (Sarah se n’era andata da sei mesi). In un pub. 
Stavo facendo la corte a una cameriera di nome Mary: capelli corti, culo a mandolino e due occhioni da bambino infelice. La conoscevo da tre ore e avevo già perso la testa per lei. 
Chuckie Lurgan si era tolto dai piedi da una mezz’oretta, dopo aver beatamente ignorato almeno venti minuti di cenni impazienti da parte mia e non prima di aver elegantemente dato fondo al contenuto delle sue tasche e all’ultimo goccio di birra. 
Mary era una delle tante cameriere del pub, ma aveva fatto in modo di farsi notare. Inizialmente sembrava non le andassi a genio. Forse un altro al mio posto avrebbe sospettato che lo facesse per attirare la mia attenzione, ma io no, io avevo semplicemente pensato che avrebbe preferito vedermi morto e non mi era neanche passato per la testa di chiedermi il perché. Era ostile, scontrosa, e ispida come un porcospino. Sono sicuro che aveva capito che così mi avrebbe fatto innamorare. Ne sono proprio sicuro. 
Dopo un po’ si era addolcita, e ogni volta che ci portava un’altra birra faceva una battutina. Alla fine, quando ero rimasto solo, non appena aveva un attimo veniva a sedersi al mio tavolo. Era scattato qualcosa. Si vedeva da come mi guardava, con lo sguardo un po’ obliquo, pensoso e remoto, e da come piegava la testa quando rifiutava una sigaretta da me e ne accendeva una delle sue. Pensavo di avere fatto colpo e di non potermi più esimere dall’accompagnarla a casa. 
Del resto, il modo in cui mi guardava lei non doveva essere nulla in confronto a come la stavo guardando io. Mi sembrava di averlo scritto in faccia. 
Una scena classica: eccomi lì, in un pub tradizionale irlandese, a fare il cascamorto. Ma anche se mi piace atteggiarmi a grande amatore, quando è ora di arrivare al dunque non mi vengono le parole e mi vanno a fuoco le orecchie. Così, mentre farfugliavo qualche frase inconsulta, Mary mi chiese se l’accompagnavo a casa. 
Rimanere lì seduto ad aspettare la chiusura si rivelò un’esperienza molto meno simpatica di quanto mi sarei immaginato. Fissavo imbarazzato la mia pinta di birra cercando di ignorare le risatine delle cameriere, mentre un grosso buttafuori protestante si sfilava la giacca e arrotolava le maniche della camicia per dare aria a una sfilza di tatuaggi dell’UVF. Mentre spazzava cercò di attaccare discorso, ma io avevo troppa paura di lasciarmi scappare qualche commento che gli avrebbe fatto capire che non ero un lealista protestante. Mi sforzai di far finta di niente e cercai di pensare a Sarah. Non ci riuscii. 
Credo fosse la prima vera notte di primavera e un dolce vento tiepido mi risollevò il morale quando finalmente uscimmo da quel pub. Ignorai il mio catorcio di macchina e proposi a Mary una passeggiata. 
Con quel suo abito mozzafiato e le calze velatissime, sembrava una vera dark lady . Non ero abituato a ragazze così ed ero un po’ in imbarazzo, ma poi, quando sorrise, non potei non ammettere che era proprio carina. Si mise a raccontarmi del suo lavoro, infervorata. Mi sforzavo di ascoltarla, ma continuavo a distrarmi mentre il vento giocava con i miei capelli. Ma mi faceva piacere che parlasse, mi piaceva il suono della sua voce. 
«Che lavoro fai?», mi domandò mentre attraversavamo Hope Street. 
Sorrisi. «Mah, varie cose. Al momento mi occupo di consulenza per il recupero crediti». Non ero stato granché sincero. 
«Interessante», commentò lei. 
Ecco cosa succede quando si mente. Se non ti credono ti vergogni di te, se lo fanno ti vergogni per loro. 
C’era un posto di blocco all’imbocco di Lisburn Road. Mentre passavamo, un poliziotto salutò Mary chiamandola per nome. Fui irritato. Ero ancora abbastanza cattolico e proletario perché la cosa non mi andasse giù. 
«Viene ogni tanto al pub», disse Mary dopo. Il suo tono di scusa dimostrava che doveva aver capito a cosa stavo pensando. Anche quello non mi andò giù. 
La strada in cui abitavo la colpì: c’erano così tante foglie, e così tanto verde. Le piacque persino il nome: Poetry Street. Non era sempre un buon segno quando a qualcuno piaceva quel nome, via della Poesia. Rimase affascinata dalla mia casa: tutti quelli che ci vengono pensano che io sia pieno di soldi. Osservò tutti i mobili e i quadri scelti da Sarah con il suo gusto impeccabile e questo fece sì che le piacessi ancora di più. Accarezzando gli scaffali della libreria, mi sorrise come se fossi un intellettuale. 
Preparai un litro di caffè: fu colpita anche da quello. 
«Che bella casa!», disse. 
Non sapevo se mi piaceva unicamente il suo visino o anche il resto, ma di certo me la sarei portata a letto. Mi sentivo solo quella sera, senza una donna. In realtà non era al sesso che pensavo, ma a una colazione a due, a una mano che mi accarezzasse la schiena nel buio, ai capelli di una donna sul cuscino. Mi mancavano i piccoli segni della presenza di una compagna. Mi mancavano le tracce di Sarah. 
«Sei in affitto o è tua?», mi chiese. 
Non so quale sia stata la mia espressione, ma di certo la mia reazione la fece rimanere male. Mary spalancò ancora di più gli occhi e le cominciarono a tremare le labbra. Non sopportavo la gente che faceva così: prima se ne uscivano con una frase del cavolo e poi, se mi accigliavo, mi guardavano come bambini spauriti. 
«Scusa», disse subito. «Era una domanda stupida». 
Non negai, ma mi resi conto che non potevo fare l’amore con lei. Ho una limitata esperienza in questo campo e quindi non so bene perché, ma faccio sempre fatica ad andare a letto con una donna quando mi rendo conto di non avere davanti soltanto un bel corpicino. Fare l’amore con una ragazza è stupendo, farlo con una persona invece è un po’ più complicato. Forse non andava neanche bene, ed era soltanto un segno di immaturità, ma forse dimostrava anche una certa sensibilità da parte mia. 
Mi alzai in piedi il più gentilmente possibile. Anche lei si alzò. Non c’era niente da dire e ben poco da fare. Non sapevo come dire che avevamo commesso un grosso errore. Mi avvicinai e lei si raddrizzò e sollevò il viso incerta. Forse pensava che stessi per baciarla. E in quel momento lo desiderai, ardentemente. 
«Devo andare», dichiarò cogliendomi di sorpresa. 
Il taxi ci mise venti minuti ad arrivare. Chiacchierammo un po’. Ero stranamente felice del fatto che avesse pensato che in fin dei conti non le piacevo e non avesse esitato a porre rimedio allo sbaglio commesso. Le dissi di Sarah e lei mi parlò del suo ragazzo, un poliziotto, a cui avrebbe telefonato non appena arrivata a casa. Le chiesi se era il ragazzo che aveva salutato per strada, ma quello era solo un amico. Mary però pensava che avrebbe potuto raccontare al suo ragazzo di averla vista con me e voleva correre ai ripari. 
«Mi dispiace», commentò. «Non è stata una buona idea». 
«Be’…», farfugliai io. 
«Di solito non faccio queste cose». 
«Neanch’io». 
«È la prima notte di primavera», sorrise. 
«Già». Poi se ne andò, lasciandomi in compagnia del mio caffè e di me stesso. Più o meno quel che aveva fatto Sarah. 
Ci sono delle notti in cui ti rendi conto di avere ormai trent’anni e la tua vita ti sembra ormai agli sgoccioli. E pensi che non riuscirai mai a concludere niente e che nessuno ti bacerà mai più.


Questo pezzo è tratto da:

Eureka Street
Robert McLiam Wilson
Fazi Editore, ed. 2009
Traduttore L. Olivieri
Collana "Tascabili"
Prezzo  12,00€

lunedì 28 settembre 2015

[Tic tac Toe] "Wool", Hug Howey - Quando una pulizia può cambiare il mondo...




Fonte: Mike Sudal
Pubblica di lunedì?? E non è il diario? No, non è il Diario ma ho pensato che, visto che le saghe sono sempre da tre libri in su, passare un mese intero a fare recensioni su queste storie non sarebbe produttivo per tutti e, d'altronde, non posso prendervi uno a uno, come faccio con gli amici, per raccontarvi che questa è una trilogia fantastica e quella magari è una sòla. Così ho deciso di iniziare a pubblicare una rubrica dedicata perché ognuno possa scegliere se leggerla o no. Tic tac Toe è il nome scelto da Massimo, l'amico che per primo - secondo me ogni tanto se ne pente - mi ha iniziata al mondo distopico e a Ballard. Da quel giorno ogni volta che mi capita un libro, che possa essere anche lontanamente riconducibile a loro, mi trasformo in una "piattola letteraria" che racconta e declina situazioni, condendole delle riflessioni in merito, a chiunque mi capiti a tiro. Quindi consolatevi di non essere miei vicini di casa! Il nome è quello del gioco del "Tris" che, come mi ricorda Wikipedia, era quello cui stava giocando il ragazzino hacker di War Games con il computer che controllava il sistema missilistico americano rischiando di innescare una guerra missilistica con la Russia. E' un film degli anni ottanta e fu, se ricordo bene, un vero successo. Tutto sommato ci sta bene, non credete?
Visto che nuova rubrica è, inizio con una trilogia bella, almeno speriamo che le porti fortuna.
Buone letture,
Simona
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Come vi avevo accennato nel Diario di Agosto, la trilogia del silo, è stata una vera rivelazione. Oggi parliamo del primo della serie ovvero Wool - la sequenza dei libri (cosa che ho scoperto che spesso è difficile trovare) è Wool, Shift e Dust-. Howey ha concepito inizialmente la serie in 9 libri, di cui 5 sono stati inizialmente autopubblicati. Il successo, dovuto ai riscontri sempre più entusiastici dei lettori, del suo lavoro è stato talmente eclatante che una casa editrice americana si è proposta di pubblicarli in maniera tradizionale (Simon & Shuster) e 20th Century Fox ha acquisito i diritti per poterne realizzare dei film. Lui comunque ha contrattato i propri diritti in maniera non convenzionale - forse solo per la distribuzione internazionale - tant'è che, nella versione Fabbri, questi sono intestati direttamente a lui.

Siamo in un tempo che non vi dirò ma posso dirvi che all'interno della trilogia ci muoveremo nell'arco di 500-600 anni. La terra è stata contaminata e gli uomini che sono sopravvissuti e che noi incontriamo in questo libro, sono gli eredi degli scampati al disastro. Vivono dentro un silo interrato - quello che vedete nella foto -, che ricorda lontanamente una versione aggiornata e corretta de "Il condominio" di Ballard, suddiviso in tre settori: amministrativo, tecnico informatico, meccanico. Ogni settore è autonomo, ha una sezione di coltivazione, scuola, ospedale, appartamenti e tutto il silo è collegato da un'unica scala a chiocciola che unisce gli oltre 144 piani che sotto terminano nelle miniere e sopra in una specie di struttura esterna, un bar panoramico, da dove si può guardare fuori quel che è rimasto del mondo, almeno fin dove si riesce a vedere. Chi non risiede nei piani alti può guardare  da appositi monitor distribuiti fra i piani nelle mense e nei luoghi di ritrovo. Appositi proiettori registrano e rimandano le immagini perché vengano mandate in onda 24h su 24. Per un'unica regola vige la pena di morte ed è il desiderio espresso di uscire. Chi lo ammette. e viene colto in flagrante o denunciato, rischia la pulitura ovvero di essere messo agli arresti, vestito per uscire dal silos in maniera permanente - la vestizione con una tutta adatta a farlo sopravvivere almeno per mezz'ora è un rito stabilito -. Nessuno è mai sopravvissuto però, come ultimo compito, al condannato, viene assegnato quello di pulire le lenti delle telecamere. E chissà perché, nonostante i condannati sappiano di andare verso morte certa, tutti, nessuno escluso lo fanno, anche chi non ci si sarebbe mai immaginato lo facesse. Tutti, tranne una. Juliette.

Vi basti questo, non perché non voglia farlo, stavolta mi piacerebbe da morire lo confesso. Ma, per quanto mi riguarda, è già abbastanza a stuzzicare l'appetito di chiunque. E' decisamente appartenente al genere distopico, non solo per un aspetto ma per molti. Tutto però si dipana da un tema che è solo in parte caro alla distopia ed è la sociologia. Il silo in tutto e per tutto assomiglia a "Il condominio" di Ballard, la cui organizzazione statica è necessaria non solo per il suo funzionamento ma anche per contenere quelle che potrebbero essere le sacche di insurrezione. L'uomo  finché è occupato non ha tempo di pensare a quello che fanno o non fanno gli altri - causa scatenante nel Condominio in cui il luogo di riposo diventa anche il luogo di rivolta - e Howey lo ha studiato bene questo sistema perché ogni appartenente al silo è impegnato a turni e quindi una vita scandita da una ricorrenza di attività che impediscono qualsiasi momento di stasi.
Contestualmente il silo è organizzato anche nei tre grandi settori che lo compongono, ogni settore è indipendente nelle funzioni di base (alimentazione, servizi, appartamenti) ma dipende dagli altri per altre funzioni di base tipo acqua, luce, comunicazioni, gestione, posta. Quindi l'interdipendenza garantisce che possano sopravvivere solo in parte senza gli altri settori. L'ordine in cui vivono gli abitanti del silo è recente perché, come spiega Howey, ci sono comunque state le rivolte in passato e il sedarle ha comportato il reset della memoria collettiva, quindi anche chi è protagonista della storia raccontata in Wool ha una "memoria limitata" alle "leggende" riguardo il passato che riguarda i propri antenati.

L'ordine è tutto per il silo, regola la vita dei suoi occupanti e anche la morte. Nessuna donna può procreare senza aver vinto alla lotteria visto che vive con un impianto che le impedisce di farlo. Impianto che verrà rimosso solo dopo la vittoria e la lotteria si tiene solo dopo la condanna a morte di un abitante o la sua morte naturale. Questa contrapposizione è veramente interessante. Siamo abituati a sentire luoghi comuni in occasione di circostante luttuose come "La vita va comunque avanti" e qui ne troviamo una possibile declinazione pratica. Al dolore della perdita di uno si contrappone l'eccitazione di coloro che potrebbero essere candidati alla possibilità di riprodursi. Una contrapposizione drastica, lo ammetto, ma che fa parte di "quell'ordine stabilito" di cui sopra: da una parte c'è la necessità di garantire che il silo non sia sovraffollato e dall'altro permette una gestione dell'istruzione e successiva formazione delle giovani leve in funzione delle disponibilità di lavoro. Non c'è pensione e nemmeno riposo, chi viene a mancare deve essere sostituito e per questo le giovani leve affiancano chi ha esperienza e ne prendono il posto una volta che non ci sono più.

In questo ecosistema perfetto salta all'occhio anche la dedizione al riutilizzo e la limitazione delle comunicazioni elettroniche a favore di quelle cartacee. Ogni abitante guadagna dei crediti per le attività che svolge e ogni mail spedita costa quanto un telegramma. Di qui il ricorso alle comunicazioni postali con la conservazione di un bene poco riproducibile in settori non amministrativi: la carta. Potrebbe sembrare che io vi faccia notare solo dei particolari e, invece questi, messi tutti insieme, andranno a comporre un mega puzzle di una storia che, per la prima volta - almeno per me - apre ad una opportunità differente ovvero a costruire un panorama appartenente al genere distopico che nasce da una situazione sociologicamente simile a quella che noi viviamo giornalmente come avvenne per Ballard. Per far questo Howey, pur partendo da un ecosistema perfetto che si dichiara post-atomico, ma per sua stessa ammissione non sa cosa sia realmente accaduto in precedenza, subisce uno sconvolgimento dello status quo non a partire da un potere che tiranneggia, ma da un caso "politico" di cattiva gestione della giustizia. Quindi, strano a dirsi, ma tutto questo assomiglia più ad un thriller che ad un vero e classico distopico. E' questo molto probabilmente il segreto del suo successo, la tensione è sempre costante e crescente e i colpi di scena che si susseguono sono ben distribuiti durante la trama in maniera da evitare l'effetto "Dan Brown" - ovvero una trama articolatissima e un finale farlocco -. C'è anche da dire che l'ecosistema ricostruito del silo interrato è descritto in maniera verosimile e plausibile ed è anche per questo che è più facile muoversi per le scale che collegano questi 144 piani sbirciando nelle vite dei protagonisti. Per assurdo che possa sembrare la loro vita è molto simile a quella che facciamo noi (meno le code sul G.R.A:). Il complotto scatenante non è quindi una rivolta totale ad un sistema gerarchizzato, come detto ma scatena molto più di quello che, per questo motivo, i rivoltosi si aspettavano di ottenere - ecco perché è più ballardiano che riferibile ad un autore prettamente distopico -. La distopia è un "di cui" che, per essere completa ha bisogno di tutti i pezzi del puzzle e vi assicuro che alla fine di Dust avrete un panorama completo.

Come per i piccoli particolari che compongono i pezzi del genere distopico, anche le storie che si concatenano in questo libro, trattato in 5 macro capitoli che però sono collegati indissolubilmente fra loro dai vari personaggi che vengono a mano a mano presentati. Ce ne sono tanti, non ve lo nascondo, ma ad un certo punto della lettura si entra talmente tanto nella vita del silo che alla fine non ci si accorge più del numero anche perché di macro-area in macro-area vengono selezionati quelli che poi diverranno parte integrante dello svolgimento nei capitoli successivi della saga. Quindi quando pensate a questa trilogia fatelo come un insieme di puzzle diversi che messi tutti insieme restituiscono un grande disegno o una grande mappa.

Pur essendo una trilogia, i tre libri potrebbero anche essere fra loro non dipendenti, ognuno ha di fatto un inizio e una fine. Il collegamento è garantito ai rimandi fra macroaree e dalla visione d'insieme della mappa temporale della trama di cui ogni libro ne racconta una parte. L'effetto thriller è solo una delle componenti che garantiscono che alla fine non vi basterà leggere solo questo libro, ma vorrete capire come si evolve la storia, anche se, vi anticipo già, Howey vi spiazzerà con un inizio di Shift completamente inaspettato. Howey, a quanto pare va letto così, lasciando che mano a mano ci disveli la realtà che ha concepito, alzando volta per volta un pezzo della coperta che ci nasconde l'insieme. Non c'è verso di anticipare le sue mosse; anche quando la conseguenza è già preannunciata lo svolgimento coglie impreparati e sottende a conseguenze che non sempre sono anticipabili.

E' moderno, è veramente appassionate e ben tradotto. E' curato in ogni su punto e riesce anche ad essere in un certo senso completo. 
Credo che, attualmente, sia la migliore saga che io abbia mai letto - non ne ho lette tante lo so - e chi l'ha presa, più che altro incuriosito dalla mia frenesia di finirlo per vedere come andava a finire e dalle mie continue chiacchiere in materia,  ha ammesso che è veramente coinvolgente.
Preciso per i più riottosi che, questa, non è una saga per ragazzi, o meglio, non è scritta né con i toni e né con l'organizzazione delle tipiche saghe young adult. Potrebbe essere una vera sorpresa per voi!

Buone letture,
Simona Scravaglieri 


Wool
Hug Howey
Fabbri Editori, ed. 2013
Traduzione Giulio Lupieri
Prezzo 14,90


Fonte: LettureSconclusionate

domenica 27 settembre 2015

L'ha detto... Giacomo Leopardi

Fonte: Guide SuperEva


La pazienza è la più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza d'eroico. Giacomo Leopardi



venerdì 25 settembre 2015

"In cerca di Transwonderland", Noo Saro-Wiwa - Storia di una riscoperta...


Fonte: The Guardian

Vi avevo già ampiamente anticipato, nel Diario di Agosto, che ero rimasta stregata da questo libro, confesso che è ancora così, e avevo spiegato il perché della scelta di leggerlo e anche cosa me lo rendeva più prezioso. In sostanza vi avevo detto che Noo è la figlia di quel Ken Saro-Wiwa che fu assassinato nel 1995 perché accusato insieme ad altri otto uomini di aver commesso un omicidio. In effetti l'omicidio ci fu, e grazie a questo libro ho scoperto che a morire fu anche suo cognato, ma avvenne in un luogo temporaneamente interdetto a coloro che ne furono accusati. Ken non era solo un imprenditore ma anche un giornalista e uno scrittore, divenuto tale perché aveva sotto gli occhi tutto lo scempio commesso in onore del dio nero, il petrolio e della corruzione dilagante che rendeva più poveri ed infimi tutti coloro che non potevano avere potere. Poco tempo prima prima che venisse catturato e giustiziato Noo, sua madre e i suoi fratelli erano stati mandati in Inghilterra non solo per essere al sicuro ma, soprattutto, perché potessero avere un'istruzione tale da poter tornare in patria capaci di ricoprire ruoli decisivi e potessero seguire, implicitamente, la strada paterna.

Quindi quando comincia il libro, la nostra scrittrice protagonista ci racconta che sono anni che non torna volontariamente in Nigeria, lo ha fatto finché il padre era in vita, ma era una vera tortura dovere stare chiusi negli alberghi o essere ospitati da parenti che non hanno acqua corrente ed elettricità. Invece dopo aver visto buona parte del mondo con gli occhi da adulta le sovviene il pensiero di capire se la Nigeria è solo quel posto inospitale che si ricorda o c'è anche altro. Cominciare questo ritorno richiede ancora più coraggio. Il cognome non è sconosciuto e, come se non bastasse, il tempo e la formazione inglese le hanno dato una visione del mondo molto più europea. Ma la Nigeria aspetta e il viaggio comincia all'aeroporto di Londra in partenza per Lagos nel caos per i soliti ritardi dei voli.

C'è una dicotomia filosofica sull'aiuto che è bene dare, il genere e la modalità. C'è anche una dicotomia fra l'aiuto dovuto e l'aiuto necessario. Così come la Nigeria è la terra dalle mille sfaccettature date da continui ribaltamenti di governo e da un passato, ancora recente, colonialistico che ha diviso ulteriormente un territorio fino ad allora gestito dalle tribù, così anche chi si avvicina a questo mondo deve necessariamente essere un ponte fra la concezione della vita del luogo e quella del luogo da cui proviene. Questo perché tradizioni, il credo e il folklore esercitati  in maniera diversa, a volte rumorosa oppure eccessiva, devono essere presi in considerazione in funzione della loro essenza e non di come vengono proposti. L'esempio per tutti è la religione. Proprio nei capitoli dedicati a Lagos si parla del forte attaccamento alla religione che da cristiana mano a mano si è spostata verso modalità più ortodosse, come quelle evangeliste, la cui organizzazione ricorda quella delle chiese americane itineranti. E ci è sempre capitato di vedere anche in televisione immagini di uomini e donne sudati e quasi in trans che inneggiano al Signore, che vanno a ricevere la benedizione di Cristo dal tocco del predicatore di turno svenendo davanti a lui o inneggiando al miracolo.

Lo spettacolo ci avrà lasciati perplessi abituati come siamo ai nostri riti. Ma il punto non è come si raggiunge, ma il credo. Il credo è l'essenza, è la vita dei poveri, la speranza di una vita migliore in questo mondo o nell'altro. Il credo è il pacere delle disuguaglianze e dei conflitti ed è quel momento in cui sei parte di un gruppo e di un progetto più grande; non sei più solo, condividi il tuo momento con altri, e davanti a quel pulpito si è tutti uguali. Quindi non importa che sia cristiano, evangelico o musulmano il credo è credo, il signore, comunque si chiami, è l'ente benigno superiore che ci rende tutti inferiori e a cui riferirsi per chiedere e raccomandarsi.
Ecco, in questo libro il ritorno all'essenza delle cose è un viaggio lungo e tortuoso che Noo raggiunge con il desiderio di vedere quella Nigeria che ha visto ma che in fondo non conosce.

Una parte importante cui secondo me guardare è la questione degli aiuti. Durante il viaggio vengono fuori una serie di riflessioni dovute non solo a quello che si vede ma soprattutto alla sua storia. Il nord della Nigeria è sempre stato compatto e lontano dai centri ricchi ed sottomessi del sud. Non ha subito una colonizzazione invasiva e così è rimasto forse più arretrato del sud. Contemporaneamente il sud, ha perso la sua identità non riuscendo a coniugare completamente la tradizione della tribù di provenienza con la cultura, alfabetizzazione e formazione, di stampo occidentale. Mentre al nord l'identità è persistente.
La domanda che qui ci si pone e cui è difficile rispondere è come definire l'aiuto efficace. Perché se l'alfabetizzazione porta indubbi benefici e mette una nazione in condizione di competere e confrontarsi con il mondo dall'altro cancella quelle che sono le identità del luogo. Sicuramente, come Noo ci fa notare, il persistere di dittature riconosciute o sommerse ha un ruolo fondamentale nel cercare di impedire ai giovani di formarsi e di imparare per poter mantenere il controllo del proprio potere clientelare ma al contempo anche l'establishment stesso si nutre di personaggi che non sono qualificati nemmeno per fare quello che vorrebbero. Per cui si crea questo circolo vizioso di una nazione potenzialmente ricca alla mercé di pochi arraffoni, ignoranti che però cercano di avere fra le loro fila connazionali compiacenti formati in paesi stranieri. Di contro ne il colonialismo e nemmeno la presenza di progetti di aiuto concreti riescono a far emergere possibilità che creino stili di vita diversi e migliori, non contrapponendosi e cancellando l'identità dei luoghi in cui operano. E la domanda ancora non trova risposta.

Rimane il fatto che in questo libro musei, spiagge, laghi, boschi magici, palazzi imponenti e scavi archeologici, insieme al caos dei mercati, ai colori delle vesti, con le macchine e i motorini che sfrecciano, fanno da accompagnamento ad un viaggio di riappropriazione delle proprie origini permettendoci di entrare nelle case di persone che rappresentano la vera Nigeria e permettendoci di capire che l'essenza delle cose è universale così come il rifiuto alla mazzetta e al sopruso. Tornare quindi serve per ripartire, guardare negli occhi un passato trascurato e a partire per cambiare. Anche solo scrivendo un libro di viaggio. Il cambiamento che si aspettava Noo è diverso da quello che si aspetta. Parte per cercare il tesoro nigeriano che dovrebbe aprire al turismo e torna con la scoperta di un altro tipo di tesoro: la consapevolezza della vita del mondo da cui viene e quella di riuscire ad apprezzarle anche grazie alla possibilità di interrompere questo rapporto con la possibilità per tornare di nuovo a casa, che oggi è l'Inghilterra. Una sconfitta o un rifiuto? Nulla di tutto ciò è l'ennesima evoluzione, l'apertura di un nuovo mondo - fin'ora rifiutato anche se sconosciuto-, e la possibilità di avere e parole giuste per raccontarlo anche per un pubblico lontano anni luce dalla Nigeria stessa. L'idea del resoconto non pare fine a se stessa e limitata al diario di viaggio ma diventa spunto di riflessione su quello che circonda il viaggio stesso. Come per la questione degli aiuti o quella della scelta del credo non c'è la voglia di condanna ma solo quella di porre le condizioni per affrontare le questioni al netto della zona di cui si sta parlando. Diventa un modo per aprire un dialogo sereno e costruttivo e come tale, secondo me, va letto.

Pensando ai libri del padre, sicuramente in questo viaggio alla comprensione della Nigeria dilaniata da enormi differenze e connivenze, credo che nel suo piccolo Noo abbia fatto un lavoro egregio senza traumatizzare i suoi lettori.
In un momento in cui sull'immigrazione chiunque ha la sua opinione, forse questo è il libro giusto da leggere in silenzio e spogliandosi dei propri preconcetti. E quindi ve lo consiglio caldamente.

Buone letture,
Simona Scravaglieri

In cerca di Transwonderland
Noo Saro-Wiwa, ed. 2015
Traduzione Caterina Barboni
66THAND2ND
Collana "Bazar"
Prezzo 18,00€

Fonte: 66tnand2nd





mercoledì 23 settembre 2015

[Dal libro che sto leggendo] Wool

Fonte: NerdGate
Teoricamente la ragione avrebbe voluto che vi inserissi il secondo libro di Hunger Games, ma dagli inizi di settembre mi domandavo se valesse la pensa di torturarvi con le saghe oppure no e, alla fine, ho deciso di farlo, ma in un altro giorno della settimana rispetto a quello delle recensioni standard. Quindi, siccome la rubrica non sarà dedicata solo alle saghe degli young adult, ma anche lavori seri ho deciso di iniziare con un signor lavoro.
Oggi invece di Hunger Games, di cui avrei da dire parecchie cose che avrei evitato fossi stata nella Collins, ho deciso di darvi l'opportunità di sbirciare e poi di parlare della "Trilogia del silo" di Hug Howey.

Come detto nel Diario di Agosto, non è una trilogia bella, bensì BELLISSIMA (e sapendo quanto mi stia antipatica la scrittura tutta maiuscola, vi renderete conto di quanto io ne sia entusiasta). E non è una mia fantasia, ma tre contatti di diversa estrazione, formazione, età la stanno leggendo e ne sono tutti e tre estremamente entusiasti. Scritta bene, tradotta ancor meglio, nessuna sbavatura e nemmeno errori evidenti, scorre con facilità e con una tensione sempre rinnovata grazie alle storie dei molteplici personaggi che si intrecciano in un continuo cambio di tempi. Si muove all'incirca in un raggio di tempo di 500-600 anni, ma , che gli scrittori affetti da eccesso di chiacchiera si decidano ad imitare il suo stile, i tre libri non sono pesanti perché non è una storia raccontata minuto per minuto. Insomma non è costruito come "I pilastri della terra" e la prosecuzione "Il mondo senza fine" di Follett, a dimostrazione che se il talento ce l'hai e anche la fantasia, non servono fiumi di parole per rendere un thriller tale.

"Ma è lungo tre volumi!" starete pensando, ma è l'unione di nove libri concepiti come un'unica saga di fondo, ma come storie diverse in realtà, mescolate così bene da non riconoscere dove inizi e finisca l'uno o l'altro, o almeno non dappertutto. Fantascienza, fantapolitica, mistero, thriller, amore (non esagerato), rapporti, distopia, controllo e quant'altro si mescolano in maniera magnifica ed efficace rendendola per me un vero e proprio capolavoro! Provare per credere, sono certa di non essere smentita... e pensare che i primi cinque libri erano usciti in autopubblicazione!

Buone letture,
Simona


1

I bambini stavano giocando mentre Holston saliva incontro alla morte. Li udiva urlare e rincorrersi qualche piano sopra di lui come fanno soltanto i bambini felici. Sentendo tutto il loro impaziente fracasso, se la prese comoda, avanzando sulla scala a chiocciola con un’andatura lenta e metodica che risuonava sui gradini metallici. 
Gli scalini, come i vecchi stivali di suo padre, mostravano segni di usura: della vernice scrostata rimaneva qualche traccia negli angoli e ai lati, dove nessuno posava i piedi. Passi lontani sollevavano piccole nuvole di polvere e Holston percepiva le vibrazioni della ringhiera, dove l’acciaio scintillante aveva perso ogni traccia di smalto. Era una cosa che l’aveva sempre sorpreso: come secoli di palmi di mani e suole di scarpe potessero logorare il metallo. Una molecola alla volta, immaginò. Ogni vita ne erodeva uno strato, allo stesso modo in cui il silo erodeva quella vita. 
Tutti i gradini si erano incurvati sotto il peso di generazioni di passanti, e ormai avevano il bordo smussato all’ingiù come un labbro imbronciato. Al centro, i rilievi a forma di rombo che un tempo li rendevano meno scivolosi erano scomparsi. Restavano soltanto sporgenze piramidali appena accennate e ancora ricoperte da minuscole scaglie di vernice che punteggiavano, come uno schema regolare, la superficie liscia del metallo. 
Holston alzò il suo vecchio scarpone e si issò su un altro vecchio gradino. Si lasciò prendere dal pensiero di ciò che restava di quegli anni lontani e sconosciuti. Molecole e vite cancellate, ridotte in polvere, strato dopo strato. Come gli era già capitato in passato, tornò a riflettere su una cosa: quelle scale, come le loro vite, non erano state create per una esistenza di quel genere. La lunga spirale che si avvolgeva all’interno del silo sotterraneo come una cannuccia in un bicchiere aveva confini troppo angusti per essere destinata a un uso tanto massiccio, pensò. Le scale, così come la loro intera casa cilindrica, sembravano progettate per assolvere ad altri scopi, funzioni dimenticate da tempo. Quella che per migliaia di persone era la strada principale, percorsa giorno dopo giorno in un continuo saliscendi, sembrava più che altro una struttura adatta alle emergenze, a poche decine di uomini. 
Holston superò un altro piano, che ospitava i dormitori disposti a raggiera. Man mano che raggiungeva gli ultimi livelli nell’ultima salita della sua vita, il suono ilare delle voci dei bambini riecheggiava più forte. Era la voce dell’incoscienza, di anime che non avevano ancora capito dove abitavano, che non sentivano la terra premere da tutti i lati, che non avevano la sensazione di essere sepolte, ma vive. Vive e ancora intatte, e lanciavano risate gioiose lungo la tromba delle scale, trilli incompatibili con quello che Holston si apprestava a fare, con la sua ferma decisione di uscire. 
Mentre si avvicinava al livello più alto, una giovane voce sovrastò le altre, risvegliando il ricordo della sua infanzia nel silo, dei banchi di scuola e dei giochi. All’epoca, il soffocante cilindro di cemento, con i suoi interminabili piani di appartamenti, officine, orti e stanze di purificazione dell’acqua attraversati da grovigli di tubi e condotti, gli appariva come un vasto universo, un mondo sterminato che non avrebbe mai potuto esplorare del tutto, un labirinto in cui lui e i suoi compagni si sarebbero potuti perdere per sempre. 
Ma quei giorni si erano conclusi oltre trent’anni prima, e la sua infanzia sembrava infinitamente lontana, come se non gli appartenesse più, come se l’avesse vissuta un altro, non lui. Un’esistenza consacrata al ruolo di sceriffo aveva cancellato i suoi ricordi. E poi c’era stato un altro stadio della sua vita, più recente e noto solo a lui, che aveva ridotto in polvere gli ultimi residui del suo essere: tre lunghi anni durante i quali aveva atteso in silenzio qualcosa che non sarebbe mai arrivato, un periodo in cui i giorni sembravano mesi. 
Giunto in cima, la sua mano non trovò più una ringhiera a cui poggiarsi. Il curvo corrimano d’acciaio consumato finiva lì, nel punto in cui la scala dava accesso alla stanza più grande di tutto il silo: la mensa e la vicina caffetteria. Adesso si trovava al livello da cui provenivano le grida allegre dei bambini, e le loro figure luminose gli sfrecciavano davanti, inseguendosi per gioco tra le sedie sparpagliate. Un gruppo di adulti cercava di contenere quella confusione, e Martha raccoglieva gessetti e colori a pastello dalle piastrelle macchiate del pavimento. Suo marito Clarke, seduto all’altro lato della stanza a un tavolo imbandito con caraffe di succo di frutta e vassoi di biscotti di mais, fece un cenno di saluto a Holston. 
Lui non ricambiò, non ne aveva l’energia né la voglia. Guardò oltre quegli adulti e quei bambini in festa, fissando l’offuscata Vista alle pareti della mensa. Era il più esteso scorcio sul mondo inospitale che li circondava. Una scena mattutina: la fioca luce dell’alba inondava le colline senza vita, rimaste immutate da quando era ragazzino. Erano lì dove erano sempre state, dai tempi in cui anche lui giocava a rincorrersi fra i tavoli della mensa, prima che diventasse la cosa vuota che era oggi. E, al di là della sterminata successione di pendii, un familiare e putrido orizzonte rifletteva i pallidi bagliori del sole nascente. Il vetro e l’acciaio consunti brillavano in lontananza, là dove un tempo, almeno così si credeva, la gente aveva vissuto sopra il livello del suolo. 
Un bambino, lanciato fuori dal gruppo come una cometa, andò a sbattere contro le ginocchia di Holston. Lui abbassò gli occhi e fece per toccarlo, ma il piccolo, il figlio di Susan, fu subito risucchiato nell’orbita dei compagni. 
Holston pensò improvvisamente alla Lotteria che lui e Allison avevano vinto l’anno in cui lei era morta. Conservava ancora il biglietto, lo portava sempre con sé. Uno di quei ragazzini avrebbe potuto essere suo figlio, avrebbe avuto già due anni e avrebbe barcollato dietro ai bimbi più grandi. Come tutti, anche loro avevano sperato di avere due gemelli. E ci avevano provato, naturalmente. Dopo la rimozione dell’Impianto di Allison, avevano cercato notte dopo notte di riscattare quel biglietto, gli altri genitori avevano augurato loro buona fortuna, mentre le coppie senza figli avevano continuato a pregare fiduciose, nell’attesa che il loro ennesimo anno sfortunato passasse in fretta. 
Sapendo di avere a disposizione soltanto dodici mesi, avevano abbracciato persino la superstizione, aggrappandosi a qualunque espediente che, a quanto si diceva, avrebbe aumentato la fertilità: trecce d’aglio appese sopra il letto, due monetine sotto il materasso nella speranza di avere due gemelli, e poi un nastro rosa tra i capelli di lei, sbaffi di blu sotto gli occhi di lui. Erano stati gesti disperati, tanto assurdi da essere quasi divertenti. Ma più folle sarebbe stato non tentare qualsiasi strada, tralasciare anche la più sciocca scaramanzia.
Era stato tutto inutile. Prima che l’anno fosse finito, la Lotteria era passata a un’altra coppia. Non per mancanza di buona volontà, ma per mancanza di tempo. O meglio, per un’improvvisa mancanza di moglie
Holston distolse lo sguardo dalla Vista sfocata e dai giochi dei bambini, e si incamminò verso il suo ufficio, tra la mensa e la camera di decompressione. Attraversando la sala, la sua mente tornò allo scontro che si era svolto lì dentro tre anni prima e, come ogni mattina da allora, rivide i fantasmi del passato. Sapeva che, se si fosse voltato per osservare la grande Vista sulla parete, se fosse riuscito a scrutare al di là delle lenti sporche della telecamera e del pulviscolo che volteggiava nell’aria, e avesse seguito la linea scura sulla collina, oltre la duna fangosa e fino alla città che sorgeva ai suoi piedi, avrebbe potuto scorgere la sagoma di lei, serena. Allison giaceva immobile come un masso, con le braccia piegate sotto la testa, mentre l’aria e le tossine la consumavano. 
Forse. 
Era difficile da vedere, quasi impossibile distinguerla chiaramente, anche prima che l’immagine si offuscasse. E poi, quella Vista era ben poco affidabile. C’erano molti particolari che non quadravano, a dirla tutta. Holston decise di non guardare, superò la sala lugubre, impregnata di spettri, un posto in cui i brutti ricordi avevano messo radici, dove la paranoia di Allison era esplosa all’improvviso, ed entrò nel suo ufficio. 
«Guarda chi c’è così di buon’ora» lo salutò Marnes, il suo vice, sorridendo. Chiuse un vecchio cassetto metallico dell’archivio, che cigolò sui binari arrugginiti. Prese una tazza fumante e poi notò l’espressione solenne di Holston. «Tutto bene, capo?» 
L’altro annuì e indicò la rastrelliera delle chiavi dietro la scrivania. «Cella di custodia» ordinò seccamente. 
Il sorriso di Marnes cedette il posto a uno sguardo accigliato. Posò la tazza e si voltò per cercare la chiave. Mentre era di spalle, Holston strinse per l’ultima volta il freddo, affilato ottone del distintivo a forma di stella nel palmo della mano, e lo appoggiò sulla scrivania. 
Marnes si girò e gli porse la chiave. «Vuoi che passi lo straccio?» chiese. Tranne quando arrestavano qualcuno, entravano in quella cella soltanto per pulirla. 
«No» rispose Holston, facendogli segno di seguirlo. 
La sedia dietro la scrivania scricchiolò quando Marnes fece per alzarsi. Si tirò su e si incamminò dietro di lui. Holston si fermò davanti alla porta e la chiave entrò alla perfezione. Uno scatto secco salì dagli efficienti e oliati ingranaggi della serratura. Il cigolio dei cardini, un passo sicuro, il clangore della porta che si richiudeva, e il peggio era alle spalle. 
«Capo?» 
Holston fece penzolare la chiave tra le sbarre. 
Marnes la guardò, confuso, ma la sua mano si aprì e la prese. 
«Che cosa succede, capo?» 
«Chiama il sindaco» rispose Holston, liberando quel pesante sospiro che aveva trattenuto per tre anni. «Dille che voglio uscire dal silo.»


Questo pezzo è tratto da:

Wool
Hug Howey
Fabbri Editori, ed. 2013
Traduzione Giulio Lupieri
Prezzo 14,90


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domenica 20 settembre 2015

L'ha detto... Elsa Morante

Fonte: Voce Libera


L'amore vero è così: non ha nessuno scopo e nessuna ragione, e non si sottomette a nessun potere fuorché alla grazia umana. 

 Eulsa Morante




In loving memory Fiammetta



venerdì 18 settembre 2015

"Infinite Jest", David Foster Wallace - Guernica...

Guernica, 1937
Fonte: PabloPicasso.org

Me l'hanno chiesta in molti questa recensione anche se, a dire la verità, io non avevo intenzione di scriverla. Non perché non abbia nulla da dire, vi avrei voluto far vedere la faccia di Librangolo Acuto mentre le stavo "accennando a modo mio" ( leggi sono partita con una disamina formato polpettone) qualcosa in merito, ma perché quello che ho da segnalare non è altro che la punta dell'iceberg. Il formato di Infinite Jest non solo è "tomico" visivamente ma anche concettualmente e si muove fra passato e futuro senza soluzione di continuità, sottolineando uno spazio-narrativo non solo fisico-geografico ma anche temporale,  assumendo in alcuni punti caratteristiche di vero "delirio verbale" in cui, il "metodo di scrittura", asserve in maniera endemica la "comprensione empatica e fisica" della situazione che va descrivendo. Tranquilli è più semplice di quanto i paroloni non facciano presagire!

Ma andiamo per gradi. Visualizzate mentalmente la cartina geografica dell'America del Nord (Usa- Canada e Quebec) - e siccome sono brava vi ho messo anche la cartina, contenti? -; ora, nel "presente della storia" ci viene raccontato che c'è stata una grossa emergenza che ha fatto sì che Canada ed Usa, dopo vari fattacci, abbiano deciso che una parte della zona del Quebec divenisse un'enorme cloaca per raccogliere i rifiuti dei due stati. Rifiuti che, per la loro tossicità, devono essere addirittura lanciati con grandi catapulte. Chiaramente i quebechiani hanno visto questa scelta come un sopruso e hanno cominciato a reagire con azioni di rivolta sempre più spericolate tra cui, quella che mi piace di più, è mettere degli specchi sulle autostrade perché la gente pensi che c'è una macchina che sta andando contromano e si fermi di botto o sterzi di lato, provocando immensi incidenti. Ha del geniale il ragazzuolo vero?


La storia principale, invece, si svolge nei sobborghi di Boston dove è stata fondata un'accademia per giovani promesse del tennis che ha un vero e proprio programma, "militare" potremmo definirlo, orientato a far dare il massimo ai futuri campioni. Ma, sempre nel presente della narrazione, c'è un caso che sconvolge la nazione, ovvero una cartuccia (tenete a mente il termine che ne riparliamo più giù), che quando viene inserita nel visore TP (in pratica un televisione con un lettore di video) è talmente coinvolgente da semplicemente inebetire perdutamente chiunque la guardi, tant'è che è impossibile poi, una volta liberate le vittime, sapere di che cosa parli.
Nei pressi dell'accademia, in terreni che ha comunque dovuto comprare per beghe legali, ci sono diversi caseggiati che riuniscono un gruppo di strutture di recupero di cui, la focalizzazione di Wallace, punta in particolare su quella che si occupa del recupero dei tossicodipendenti e degli alcolizzati. Per riassumere la trama sinteticamente, dopo aver dato queste indicazioni minime, possiamo dire che:
L'America e il Canada stanno cercando chi abbia messo in circolazione la cartuccia che porta alla follia chi la vede, che potrebbe rivelarsi una débâcle per gli organi al potere, e che, dopo varie indagini, sembra essere stata realizzata da qualcuno che è correlato con un'accademia tennistica di cui si conosce poco e che ha relazioni anche con la Ennet House (la casa di recupero). Ecco tutto qui. Riusciranno i nostri eroi a trovare chi, cosa e dove? Ma vi ho mai raccontato la fine di un libro? Ecco, non comincerò ora.

Detto questo, in questo caso parliamo di una recensione "aperta", ovvero che ce ne sarà una successiva per ogni volta che rileggerò questo libro - tranquilli, per quest'anno ho dato! -, perché, per arrivare alla sintesi di cui sopra, bisogna attraversare mari in tempesta di parole e di situazioni che non è facile né tenere a mente e nemmeno circoscrivere tutte la prima volta per poterne parlare in maniera completa. In più il gran numero di personaggi e delle loro storie personali frammentate in maniera apparentemente disomogenea nella trama non permette sempre di scoprire al primo sguardo a quale personaggio, presentato in precedenza o che ricomparirà successivamente, faccia riferimento ogni riquadro di trama che si legge.
Tanto per fare un esempio ho scoperto solo alla fine che il Jim bambino di un racconto sito fra le prime 600 pagine, è il fondatore dell'accademia! 
Per rendere l'idea di come sia la struttura di Infinite Jest è necessario trovare un'immagine che possa, almeno in minima parte, racchiudere i concetti spaziali e temporali e l'unica che mi è venuta in mente è Guernica di Picasso. Guernica rappresenta gli orrori della guerra cristallizzati in un attimo, in cui il pathos derivato dalla sofferenza del gruppo che è stato colpito, è rappresentato, attraverso la scomposizione degli elementi tipica del cubismo, con la resa visuale di più angolazioni della stessa scena. Quindi potremmo dire che lo spazio è frammentato ma rappresentato attraverso più viste ricomposte dall'autore in maniera tale che sia evidente e palpabile l'orrore che rappresenta.

Stessa cosa succede con Infinite Jest: Wallace rappresenta attraverso le parole non solo lo spazio geografico in cui si muovono tutte le pedine di questo grande gioco di incastri, ma anche il tempo. Mentre la collocazione geografica trova in una annotazione, abbastanza lunga ma decisamente esplicativa, un suo spazio facilmente individuabile, per lo spazio temporale, procede come Picasso costruì Guernica. Ogni personaggio è unico nel suo genere, nelle sue mancanze o debolezze e nei suoi desideri, nonché nelle sue solitudini. Ogni rappresentazione del personaggio è differente, passato e presente vengono mescolati alle storie degli altri senza un'apparente organizzazione che invece c'è e asserve la necessità di dare una definizione spaziale del tempo che passa tra le esperienze passate e le conseguenze presenti. Per saggiare quale sia l'entità fisica per ogni scelta o ogni azione e per sottolineare questo invito, ogni capitolo salta bruscamente dalla vita di un personaggio a quella di un altro, dal presente al passato, dall'azione al ricordo spiazzando ogni volta il lettore che si abitua ad una voce o ad un tipo di narrazione e alla pagina successiva, senza alcun preavviso, si trova il registro narrativo completamente sconvolto. Inizialmente mi era stato suggerito di far riferimento alla corrispondenza fra gli anni resocontati, fra le varie storie, da Wallace e quelli reali. L'ho fatto inizialmente e poi ho lasciato perdere perché mi sono resa conto che è uno sforzo poco produttivo. Ogni concetto è temporalmente inserito come si è svolto nella realtà, ma solo per consequenzialità e non perché è avvenuto in un anno o in un altro. Se affrontiamo il tema del tempo partendo dal presupposto che il "presente narrativo" è quello in cui si scrive e che il fine ultimo è quello di mappare lo "spazio fisico di tempo" che serve per produrre una reazione ad una azione o recuperare un errore, il parallelo con lo scorrere reale degli anni non è più necessario. E devo dire che dopo questa decisione, me lo sono goduto veramente di più.  

Quindi, qualora vogliate tentare l'impresa, non "approcciate al tomo" con il piglio di un libro normale, perché ne verrete respinti come non "eletti", se invece lo avvicinate con la curiosità del lettore di saggi - io lo chiamo così, ovvero è l'approccio di colui che non capisce di che si parla al primo capitolo ma è certo che ci sarà un punto in cui la questione viene sicuramente spiegata -, alla fine riuscirete a completarlo, stremati ma contenti.  Pertanto quello che ci diremo in questo pezzo è ciò che probabilmente è più evidente, da un lato la visione tecnologica e la sua evoluzione e storia e dall'altro il "perché a cappello ci sian una nota in cui Wallace ci tiene a far sapere ai lettori - tramite i traduttori - che non è interessato a far loro una spiegazione delle varie droghe" anche se il libro è costellato di tutto ciò che può creare dipendenza. Il tennis? La passione e l'attenzione di Wallace per questo sport è evidente ma, soppesando tutte le informazioni, non è altro che un "di cui" delle dipendenze.

Dipendenze e droghe.
Smarchiamo prima questa parte che è la più contorta. Non ho mai letto e ne conosciuto nemmeno la minima parte di ciò che è citato qui, vero o no, e tra parentesi, dopo anni di malattia, so a malapena che fanno i medicinali che prendo io ma, oggi, so perfettamente che effetto fanno quelli citati da Wallace. Vi aspettavate un altro finale di frase vero? Però è così! La dipendenza da droghe, dall'alcol, dal gioco, dal sesso, dalla compulsione e anche, pare strano a dirlo, la dipendenza dal rifiuto di se stessi, sono ampiamente descritti qui, ognuno ha il suo spazio così come anche il tennis. Ma la descrizione delle partite comincia ad avere un senso solo quando una delle tante match descritti viene commentato. Il giocatore che è più forte e maturo è quello che nella propria compulsione interiore, nella menomazione e nei limiti riesce a svuotarsi da se stesso e concentrarsi su quelli dell'avversario. Così anche nella dipendenza è necessario trascendere da se stessi conoscere i limiti del proprio avversario (l'oggetto di dipendenza che viene spiegato da chiunque intervenga come oratore nelle riunioni) e deve essere battuto con le armi che si hanno a disposizione. Così se nel campo un pallonetto può essere il colpo che batte un avversario forte alla rete così nella dipendenza è consigliabile non scappare dalla tentazione (quindi non rinunciare ad una risposta che sembra impossibile in campo) ma, come dice Wallace, "farsi attraversare da essa" ( o diventare la palla stessa come dice l'allenatore dell'accademia) senza permettere che il suo passaggio abbia in te un punto di arresto (quindi non rincorrere per riprendere una palla che è decisamente fuori!) perché se la prendi in considerazione seriamente tornerai alla dipendenza stessa (e magari riprendendo la palla che stava andando fuori, perderai tu stesso punti!). Quindi è chiaro che, nonostante l'60% delle note riguardi medicinali, droghe e varie del mondo della dipendenza, non sia questo che vuole trasmetterci.

Il mare di parole inserito ogni volta che si parla di stati di alterazione o delle riunioni dei dipendenti da qualunque cosa, servono al lettore a trascendere da se stesso ed entrare proprio nel "mood". La nenia, la cantilena, le cose ripetute, il luogo lontano e inospitale, le stanze fumose e sporche, gli sponsor come profeti sibillini, le visioni, allucinazioni e via dicendo fanno parte tutte di quello che normalmente percorre chi vive nella dipendenza. 
Oltre a questo gioco al massacro si aggiunge una tecnica narrativa che si avvicina molto a quelle che venivano portate avanti da correnti culturali minori americane fra gli anni '20 e gli anni '50. A me ha ricordato Barthelme e in particolare in "Questo giornale qui" - non è tutto il racconto! - preso da "Atti innaturali, pratiche innominabili" - Collana "Minimum Classics" della MinimumFax - e trovo interessante questa forma di scrittura che tende a fare l'opposto di quello che faceva Picasso. Secondo Gertrude Stein in "Flirtare ai grandi magazzini" - Archinto Editore - di cui prima o poi vi farò una recensione, promesso! - Picasso aveva solo amici scrittori perché con i suoi quadri non dipingeva, bensì raccontava storie e quindi era lui stesso uno scrittore con segni grafici differenti, più vicini alla rappresentazione  della realtà che dovevano spogliarsi del manierismo della pittura per diventare il ponte fra "scrittura che rappresenta la realtà e la realtà che si racconta attraverso la sua rappresentazione". Quello che fa Wallace, e anche Barthelme,  è esattamente l'opposto ma ha lo stesso risultato la "rappresentazione della sfaccettatura della realtà" con una "rappresentazione grafica limitata alla parola". E, strano a dirsi, contrapponendosi alla sintesi grafica di Picasso, per rendere la parola emozione e per fare sì che questa vada oltre la comprensione e diventi parte di noi ci vogliono tante parole, ripetizioni a volte di immagini evocate o, a volte, solo di immagini piatte. Entrambi gli stili arriveranno al loro scopo non solo di far vedere la realtà ma soprattutto di farla diventare un'esperienza, perché la visione rimane tale fino a quando non arriva un qualcosa di altro che attiri la nostra attenzione, l'esperienza rimane endemicamente con noi grazie all'empatia che abbiamo provato scoprendo uno dopo l'altro gli strati che la compongono. E allora perché scegliere "Guernica" invece che il "bue" di Picasso. Semplice! E' uno dei pochi quadri in cui lo stile wallaciano, di Barthelme e di Picasso si somiglino. E' assordante ed è pieno di informazioni, cupo, pieno di dolore, di fumo, e odore di morte, proprio come la descrizione della riunione degli Alcolsti Anonimi o dipendenti da droghe varie che descrive Wallace. Provare per credere!

La visione tecnologica.
E qui siamo nel mio campo! Da figlia cresciuta a pane e doppini telefonici, ora anche a fibra e a trasmissioni ad alta velocità, volevate che non mi ci cadesse l'occhio? Occorre comunque fare un minimo il quadro del periodo in cui è stato creato questo libro. Da una serie di citazioni che ho trovato su "Le Howling Fantods" che raccoglie notizie e informazioni sull'autore dal 1997 si legge che Wallace ha cominciato a redigere le prime bozze di questo libro nel 1991. Ecco voi non ve lo ricordate forse, ma io sì, ma alla fine degli anni '80 per il grande pubblico italiano la rete internet era una cosa fantasmagorica che si vedeva in tv, a Unomattina. In particolare si parlava di un sistema che permetteva, attraverso i pc, all'epoca i video dei computer con lo sfondo scuro con i caratteri verdi, che permettevano la possibilità di parlare con l'altra parte del mondo magari chiedendo un'informazione avendo in maniera immediata una risposta. Perché me lo ricordo così bene? Ricordate che vi ho detto che sono cresciuta a pane e doppini telefonici? Ecco le prime trasmissioni internet in Italia viaggiavano sui cavi , allora, di Italcable (cable non lo leggete in inglese ma come si scrive!) e in quella trasmissione chi rappresentava, dal lato tecnico della società in questione, le immense opportunità della rete era mio padre. Prima di questo momento, negli anni '80 c'era stato il boom del videotel, "boom" si fa per dire perché quell'apparato non ebbe una gran fortuna visto che a noi piaceva chiacchierare al vecchio telefono di casa.

Invece nel '91 e fino al '96, tenendo conto che già al finire degli anni '80 - questo da fonti di casa ovvero mio padre che aveva spesso rapporti di lavoro con le major di telefonia americane - in America si parlava di "autostrade digitali" e di tv digitale, Wallace descrive, in varie parti di Infinite Jest la nascita della comunicazione e la sua fine (con il confluire delle varie tecnologie) con una semplicità che ha dell'incredibile e va anche oltre arrivando alle conseguenze di molti fenomeni sociali. Ed è proprio nella descrizione, metaforizzata della tecnologia che si riflette la maniacalità e la precisione di questo autore, descritto sempre come "genio e sregolatezza" e che invece aveva un suo metodo, sconclusionato, ma lo aveva. Pertanto partiamo dalle prime descrizioni di quello che noi chiamiamo il videotel, passando per il contestuale rilascio anche delle videocassette e della transizione della tv in digitale per arrivare ad un contesto univoco in cui la tv, o meglio quello che è il suo pronipote il "visore" diventa l'unico elemento attraverso cui passa tutto, conversazioni, internet e intrattenimento. Ma questa evoluzione cosa comporta? La spersonalizzazione dell'io, la solitudine, la noia, l'involuzione dell'umanità, la gerarchizzazione del prodotto di marketing a spese dell'essere umano che smette di essere tale e diventa solo un utente e un prodotto.

Questo noi lo viviamo ora visto che la digitalizzazione massiva ci ha reso schiavi dei mezzi per accedervi. Viviamo in rete, ci rapportiamo alla rete e la subiamo quando non ci sentiamo abbastanza apprezzati in poche parole ne siamo "dipendenti". Per contro, come anche Wallace raccontava in Infinite Jest, non siamo preparati alla folle corsa tecnologica anche se ne siamo ammaliati. Quindi percorriamo la strada ma ci illudiamo che per mantenere la nostra privacy basti mettere un nome fittizio o una foto fittizia. Ci nascondiamo ma guardiamo famelicamente ciò che vivono o fanno gli altri. Ma la nostra smania di esserci pur nascondendoci diventa esso stesso un valore economico che ci rende numeri di un progetto di marketing cui attingono molti enti economici e che regola la nostra vita futura. E questo in Infinite Jest si traduce in gente che quando comincia ad avere l'opportunità di fare conference call si rende conto di avere invasi i propri spazi, che avendo la possibilità di avere intrattenimenti scelti da lui stesso, non ha bisogno più di uscire e andare al cinema ma, e c'è un ma, Wallace lascia comunque una porta aperta, vincolata sempre da chi vorrebbe veicolarla per i propri profitti, ma comunque una piccola via di uscita verso il passato: la disseminazione spontanea, ovvero la vecchia (per lui) trasmissione digitale con contenuti forniti e non scelti a priori.
In questo si riassume l'immensa dicotomia che vive la nostra epoca tra la scelta individuale e quella collettiva. Andare avanti verso la globalizzazione che ci rende parte di un tutto dove ci annulleremo o tornare indietro rinunciando alle opportunità che il mercato globale ci offre tornando indietro? In fondo quando si parla di comunicazione come mezzo di potere, e sono questioni che vengono fuori tra la prima e la seconda guerra mondiale, qualsiasi mezzo sia stato in grado di comunicare è diventato oggetto di creazione di necessità e di consensi. Sono queste le viti che fanno girare il mondo moderno "necessità" e "consenso" (che si nutrono delle nostre dipendenze), solo che prima non ce ne accorgevamo o non gli davamo troppo peso quanto gliene diamo oggi, ma se ci pensate bene, le dinamiche non sono affatto cambiate come anche Wallace sottintende mettendo alla berlina le stesse fobie di "privacy" nella sua "breve storia delle comunicazioni".

Due paroline sulle tante note le possiamo anche dire: divertssement, secondo me, il buon vecchio David alla fine si divertiva un sacco anche lui con i suoi lettori. In alcuni punti sembra che in una nota in cui ti potrebbe scrivere due paroline e basta, lui ritenga indispensabile che tu sappia anche quello, e quell'altro e - come dimenticare! - anche questo. Sono pezzi che avrebbe potuto inserire in capitoli a parte? Assolutamente no! E' un po' come stare a sentire due comari spettegolare su un fatto. Il fatto è la trama di Infinite jest, le note sono le divagazioni che fanno capire meglio l'oggetto del pettegolezzo. In altri casi invece gioca con i suoi lettori facendo delle note che non servono, se non a farti rimanere di stucco, quasi sembra che lui già senta la tua voce interiore che irritata dice: "mamihaifattointerromperetuttoquelcomplicatissimodiscorsoperquesto?". Sì, spiace dirlo, perché è troppo poco da letterato, ma lo fa, eccome! Tutti dicono che la nota 24 sulla filmografia di Incandenza (il famoso Jimmi da piccolo) è basilare, per questa lettura che ho fatto io... so di essere eretica, Sabatelli mi verrà a cercare per menarmi, ma anche no, potete sopravvivere anche senza.

Infine, miei prodi,che siete arrivati sino a qui, sappiate che a Infinite Jest si sopravvive (devo ammettere che ho avuto un po' di vuoto pneumatico dopo averlo finito della serie "e ora che faccio?") e che nonostante tutta l'altisonante critica o i riferimenti a pila atomica, che ci sono sicuramente ma che io - in questo momento non ho ancora letto -, questo libro è anche divertente. Confermo quanto detto nel "Diario di un mese di libri" di Agosto, che sia per la traduzione o va a capire cosa, le prime 300 pagine, per chi non conosce quello che c'è dietro al muro, sono un tantinello barbose. Confermo altresì che, se non capite di cosa farnetica lì, state tranquilli, dopo, lo capirete e si può anche leggere senza appunti altrui - molti mi hanno detto di farlo e io invece, impunita, non l'ho fatto!- yeah! Ci saranno altre recensioni su questo libro perché magari rileggendolo ci vedrò altre cose a cui questa volta non ho sicuramente dato la dovuta attenzione. Per vostra fortuna, direi...

In ultimo mi corre l'obbligo di scusarmi con il GDL del gruppo di lettura di Scratchbook che prima hanno deciso di leggere insieme Infinite Jest che e poi ho abbandonato durante il percorso, per ragioni di organizzazione di blog, per finirlo in solitaria e in netto ritardo a loro.

Buone letture,
Simona Scravaglieri

Infinite Jest
David Foster Wallace
Einaudi Stile Libero Big, ed. 2006
Traduzione E. Nesi, A. Villoresi, G. Guia
Collana "Sile libero Big"
Prezzo 27,00€


La mia copia, un po' provata
fonte: LettureSconclusionate

mercoledì 16 settembre 2015

[Dal libro che sto leggendo] Jane Austen. I luoghi e gli amici

Chawton Cottage
Fonte: Le bon travel & culture

Come saprete già dalla recensione di venerdì questo è un libro che ho già ultimato. Ma non ho voluto rinunciare a farvi dare comunque una sbirciata, anche perché lo stile scorrevole è talmente gradevole da non essere un libro che si porta avanti nel tempo, ma è n lavoro che si finisce praticamente subito.

Nel pezzo che vi riporto oggi siamo all'inizio del viaggio, Costance e Hellen Hill hanno noleggiato un calesse per entrare in AustenLand come se fossero ritornate ai tempi di Jane Austen tempi e di qui andranno di tappa in tappa a ricostruire una vita nello stile dei primi del novecento, quasi fosse anch'essa un romanzo. 

Buone letture,
Simona Scravaglieri



I.
ARRIVO IN AUSTENLAND
In una bella mattina di metà settembre, un calesse di campagna si apriva la via attraverso le stradine dello Hampshire. Vi erano sedute due appassionate ammiratrici di Jane Austen, armate d penna e matita, ansiose di vedere i luoghi dov'era vissuta, osservare gli scenari che aveva osservato, e imparare tutto quanto era possibile imparare sull'ambiente che la circondava.
Il calesse n questione era stato preso a noleggio in un villaggio di campagna da un fabbro ed era guidato dalla moglie di quest'ultimo. La buona donna sapeva poco più di noi (le viaggiatrici) a proposito delle ventidue miglia di itinerario attraverso la campagna che ci si stendevano dinanzi.  ad ogni modo, ci sarebbero stati i cartelli stradali a guidarci e , senza dubbio, dei passanti a cui chiedere, e nel frattempo il nostro robusto pony trottava così svelto che pareva pronto a compiere un viaggio addirittura più lungo.
Avevamo studiato la mappa e immaginato che, grazie a varie scorciatoie, saremmo potute arrivare a destinazione prima dell'imbrunire. ma, ahimè, le scorciatoie! Ci sentimmo indecise sulla scelta da fare al primo bivio! Non ci restava altro che andare a chiedere informazioni presso un gruppo di case sul ciglio della strada. Così una di noi risalì un giardino rigoglioso degli ultimi fiori dell'estate e bussò alla porta. all'interno non arrivò alcuna risposta così provammo a un'altra casa - fiancheggiata da alberi carichi di mele - e poi a un'altra e a un'altra ancora, senza migliore fortuna. Ci venne in mente che i residenti dovevano essere tutti altrove, a raccogliere il luppolo. in effetti, avevamo lasciato i paesani alacremente al lavoro sul luogo della nostra partenza, dove la giovane figlia del pastore si era unita a uno dei gruppi ed era impegnata ad aiutare alcune donne anziane a riempire i sacchi.
Com'erano belle le stradine strette in cui passavamo, con le file di siepi dagli arbusti piegati ad arco, le rive scoscese adorne di felce gialla e lunghe scie di rovi di more ricoperti di frutti maturi! L'obiettivo immediato di questa giornata non era altro che Steventon, il luogo di nascita di Jane Austen; ma Steventon sembrava essere un villaggio in cui non si trovava alcuna sistemazione e ci era stato consigliato di fermarci a Clarken Green, un borgo a poche miglia da Steventon, dove avremmo potuto dormire in una piccola locanda di campagna. Ci dirigemmo dunque a Clarken Green.
Ci capitò di incontrare un bracciante, al quale chiedemmo la strada, ma scoprimmo che era ignaro dell'esistenza stessa di Clarken Green. Alla fine, arrivate in un qualche villaggio, un locandiere benevolo che se ne stava tra i suoi piccioni e i suoi polli si informò delle nostre difficoltà; ci disse che ci eravamo allontanate molto dal nostro itinerario e ci consigliò di riprendere la strada per Basingstoke. Con l'aiuto delle sue indicazioni, ci riuscimmo e verso sera ci trovammo a entrare nella vecchia città di Basingstoke. Dopo una breve sosta, riprendemmo il nostro viaggio e finalmente, quando l'oscurità si stava facendo più fitta, ci avvicinammo trionfalmente alla locanda solitaria di Clarken Green, Ma il nostro trionfo fu di breve durata. All'interno era tutto sottosospra - stanze smantellate, scatoloni ammassati alle entrate e mobilia accatastata contro le pareti Scoprimmo  che l'oste e la sua famiglia erano alla vigilia di una partenza. era impossibile, disse, riceverci, ma ci offrì l'uso di un calesse e di un cavallo fresco per portarci a Deane - un posto a poche miglia più a ovest - dove riteneva possibile che trovassimo riparo in una piccola locanda. Il nome colpì le nostre orecchie perché Deane ha un legame con la famiglia Austen. Il padre e la madre di Jane vi passarono i primi sette anni della loro vita da sposati. Certo ce andiamo a Deane!

Questo pezzo è tratto da:

Jane Austen
I luoghi e gli amici.
Costance Hill con le illustrazioni di Ellen G. Hill
JoMarch, ed. 2013
Traduzione di Silvia Ogier, Mara Barbuni, Gabriella Parisi, Giuseppe Ierolli
Collana "Atlantide"
Prezzo 14,00€
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