mercoledì 25 luglio 2018

"Il grido", Luciano Funetta - Il grido diverso...

Fonte: Tides


Diversità e libertà sono i concetti base affrontati in questo libro e passano per un percorso inconsueto. In una società senza tempo e senza luogo, dove anche il singolo ha acquisito lo status agognato di essere un individuo la sorpresa è che nulla è cambiato, anzi peggio, il raggiungimento dell'obiettivo ha consentito la spersonalizzazione del gruppo e la creazione di una nuova massa che lo è per assonanza di genere e non per appartenere ad un obiettivo comune. La storia di oggi è quasi l'opposto di quel che rappresentano le teorie precedenti ma si inserisce lo stesso nel filone distopico con un ulteriore valore aggiunto: una narrazione minimalista, che non cede alle facili descrizioni inutili, ma che riesce a coinvolgere il lettore dalla prima all'ultima pagina lasciandolo con il fiato sospeso.
Intendiamoci non ha un finale aperto, è ben definito, ma la tensione che costruisce Funetta, con l'abile intessere personaggi, situazioni e ricordi, cresce in maniera costante fino allo zenit in cui tutto scompare dietro una quinta. Tu sai che significa, non serve dirlo, ma il fiato corto rimane.

Essendo altri i temi, il posto in cui ci si ritrova all'apertura de "Il grido" è un luogo come tanti e in un tempo come tanti. Lena è una ragazza che non ha più sorprese: passato e futuro sono chiari e visibili e l'unica possibile variante è un biglietto della lotteria che potrebbe aprire un qualcosa che nessuno sa in un mondo che nessuno conosce. Ma a Lena non interessa. Vissuta con la carità delle Dame, cresciuta e formata per diventare un perfetto ingranaggio di una macchina che non rivela sorprese, incuriosita dalla figura di Stephan che è il marito dell'amica recentemente morta, Lena non ha bisogno di sperare perché quello che vuole è rimasto in un orto anni prima in una sera qualunque. E quello che vuole è qualcosa che non può avere o ritrovare se non capendo che cosa sia e dove trovarlo.
Questa è la storia di Lena e di come ha trovato il modo per ritrovare la sua libertà. La storia di un punto rosso in un mare di punti grigi.

Ma "il grido" poi c'è? Ce ne sono tante di grida qui dentro. Il concetto è che se gridano tutti è come se si stesse tutti in silenzio. L'individualità del singolo, diventa sinonimo di anaffettività, solitudine e perdizione e la società disegnata da Funetta in questo frangente è perfettamente verosimile. E' divisa in due: gli ultimi e quelli dopo, il resto non c'è, o meglio si vocifera che ci sia ma ci è precluso. In un contesto così asfissiante, in cui sono negati tutti i riferimenti possibili che possano renderci, almeno in parte, comodo questo viaggio, come potrebbero essere spazio e tempo, qualsiasi gesto fuori dal comune è destabilizzante non tanto per un possibile controllore, perché dai tempi dei Lager e Gulag il controllore non serve più, ma per la comunità. Così Lena vive perfetta simbiosi tra il mondo degli ultimi e quelli che lo sono più degli ultimi, perché ironicamente non appartiene a nessuno dei due. Lena è avulsa dalla massa per la sua curiosità verso Stephen, per il suo fastidio nei confronti di Tito, nella sua voglia di rivalsa per Duilio e anche per la compassione per ogni ultimo degli ultimi che incontra per strada. 

Il percorso di Lena, fra le macerie di un mondo che non è, passa per giardini abbandonati, per foreste  e cimiteri virtuali alla ricerca di una risposta che richiede che si guardi ad un passato e un futuro già scritti per essere compresa appieno. E' una risposta scomoda e anche coraggiosa. In questo Funetta accompagna la sua protagonista senza interferire, la segue negli spazi presenti e passati come farebbe uno spettatore al cinema, le lascia lo spazio per provare a creare un senso di caldo con Stephen e la lascia mangiare nelle varie taverne della città. Lena così arriva quasi per caso al finale del grido e, combinando questa "casualità" con una voce narrativa forte ma non ingombrante, si costruisce un finale certo ma più d'impatto del previsto. Il grido, che prima apparteneva ad un coro di voci di cui non era parte se non come mero imitatore, si trasforma e diventa il grido di un silenzio che ha trovato una risposta.
E forse la voce narrativa, la scelta di essere anch'esso spettatore e non essere sempre presente nella vita di Lena è l'aspetto più affascinate di questo libro. Funetta sembra vivere le stesse ansie, la curiosità e anche lo stupore che vivono i suoi lettori, donando alla voce di questo libro un vibrato che affascina. Lettore e scrittore non possono che entrare in sintonia e lasciarsi con un piccolo rammarico.

Questo libro era finito nella mia wishlist perché nominato spesso da persone che seguo, ma non ero molto convinta di aver fatto la scelta giusta selezionandolo. E invece, nonostante dell'autore sapessi praticamente nulla, è stata una scelta felice. E' un raffinato cameo in un mondo culturale italiano troppo affezionato all'idea della bella scrittura per domandarsi se "la bella scrittura" non faccia a pugni con il genere che sta percorrendo. Ecco, lo stile ricorda un approccio americano, che si nutre di qualche frase, passatemi il termine, "epica" sparsa qui e lì, ma per il resto è asciutta e minimalista. Con questo espediente Funetta si può permettere di evitare di indulgere in lunghissime descrizioni perché nel minimalismo quello che hai attorno si presenta da sé senza bisogno di orpelli. 
Avviene anche per una particolare scena collettiva di "oblio" in cui l'opulenza della natura di un giardino abbandonato contribuisce a rendere ancora più intricato un viaggio di per se molto meno complesso. Le immagini di una mente sotto stupefacenti si mescolano con quelle reali del contesto costruendo un articolato viaggio al di fuori delle coscienze che assomiglia non poco alle immagini degli uomini che si buttano dai palazzi di quella visione dei personaggi di Wallace in quella calda serata preparata in un appartamento in un palazzo tutto a vetri per l'ultimo sballo. Sono due stili completamente differenti quelli degli autori citati, ma hanno in comune la capacità di captare il lettore e catapultarlo in situazioni che magari non vivrà mai in prima persona, ma che così gli rimarranno sempre come esperienze fatte.

Sono immensamente soddisfatta di questo acquisto e lo consiglio a chi voglia uscire come Lena dalle strade certe e stra-battute da molti. Non importa che uno sia un fan delle storie distopiche o no, perché la distopia è sempre stato il modo più semplice per riflettere sul presente. E in questo la storia funettiana ne è un perfetto esempio.

Buone letture,
Simona Scravaglieri

Il grido
Luciano Funetta
Chiarelettere Edizioni, Ed. 2018
Collana "Narrazioni"
Prezzo 16,00€






venerdì 20 luglio 2018

"Giorni tranquilli a Clichy", Henry Miller - Più nero che bianco...


Fonte: Pinterest

Il libro di oggi è uno dei regali di compleanno, graditissimi peraltro, che ho ricevuto per il compleanno di quest'anno e si inserisce perfettamente in un percorso di lettura a zig zag che seguo da anni - sei per la precisione - relativo al primo novecento francese che tanto ha dato, nelle varie discipline artistiche dalla scrittura alla nascente arte filmica, alla cultura mondiale successiva. Tutti andavano a Parigi e Parigi era il crocevia per tutti e il punto di riferimento per vivere le nuove tendenze culturali. È qui che Henry Miller ambienta intorno al 1924 un paio di racconti lunghi raccolti nel libro "Giorni tranquilli a Clichy" ambientato nei vicoli di Montmartre fra quelle stradine strette e tortuose che si nascondono dietro i boulevard nei cui bar si raggruppavano artisti spiantati in cerca di fortuna e di amore e prostitute in cerca di spiantati facoltosi da spennare.
È una Parigi decisamente differente da quella raccontata dalla Monnier, la Beach e la Sterne, ma anche dalla Cohen (nel suo excursus parigino in Un incontro casuale) è quello che avviene quando le serrande delle librerie si abbassano per la chiusura e i salotti culturali finiscono e gli artisti tornano verso le loro case.

Joey e Carl sono due scrittori, il primo è americano, l'altro si foraggia lavorando per un giornale. E queste storie raccontano le loro scorribande amorose e alcoliche  nelle fredde nottate parigine fra l'umanità di ogni genere che rinasce al calar del sole popolando le strade, i bar e i ristoranti della città. Perdizione, amori futili e ricerca di quella scintilla che possa farli scrivere "Il Romanzo" che li porterà alla fama.
Non c'è altro che possa dirvi se non che a commento della storia compaiono numerosissime immagini di Brassaï in bianco e nero che sono davvero  intense.

Il libro è stato scritto nel 1940 quando Miller tornò dal suo soggiorno parigino in America ed evidentemente la "metafora" è una cosa che non interessa l'autore. quello che c'è qui è più una lunga galleria di quadri di mostri in cui l'umanità mettendo in mostra il peggio di se mostra anche la propria vulnerabilità quasi fosse l'unica cosa vera che ci contraddistingue e ci rende più veri. Le donne che si alternano fra lenzuola e pranzi sono perdute e sono vinte. Alcune hanno scelto la vita che fanno perchè non hanno alternative e altre hanno rinunciato a combattere per cercare un amore perché la sopravvivenza viene prima.
Le scene si seguono una via l'altra e nemmeno l'accenno frequente allo scolo o ad altre malattie veneree ferma l'attenzione dell'autore fra questi due fronti, chi ha e chi chiede, si ferma.
Ha solo un attimo di tentennamento su immagini di donne che stanno pericolosamente camminando oltre il confine degli ultimi. EÈ un po' come se il guardare in faccia queste donne di cui non riesce a decifrare nemmeno un secondo di pensiero gli permettesse di guardare un "oltre" che può conoscere solo chi muore.

Mi sono interrogata perché questo androne dell'inferno io lo trovi mille volte meglio de "Il factotum" e la risposta è articolata e non legata al percorso di lettura che sto seguendo in maniera discontinua. L'androne dell'inferno di Miller non mi fa sentire presa in giro. Bukowski ha un modo di scrivere che invece mi fa sentire l'ennesima allocca che è finita nella rete di coloro che finanzieranno la prossima bevuta e le prossime immagini sconce che decreteranno come capolavori. Per Miller l'atto sessuale, ripetuto, ricercato è l'ennesima morte. Una morte temporanea che però svuota il corpo di quell'anima pesante che l'artista si porta dietro lontano da casa. La coscienza si alleggerisce ed è di nuovo pronta ad affrontare un'altra giornata come se fosse appena atterrata in terra straniera. L'atto è confuso e volutamente greve e breve proprio perché, in fondo, è solo un tramite.
In questo modo l'umanità di chi riversa e di chi prende si perde dentro la notte e si confonde con il buio nella speranza che il giorno non arrivi presto ad illuminare le miserie degli androni delle case.
Ha anche una qualità questo libro, che pochi imitatori sanno cogliere. È scritto in maniera scorrevole, evita la pedanteria, e ha un ritmo ben preciso ma mai disuguale. È davvero come se stessi camminando e ti capitasse di vedere una scena dietro l'altra senza fermarti. Ti permette di scrutare nei bar, nei ristoranti e nelle strade senza che quel che succede modifichi la tua traiettoria sensuale o personale, ma che ti rimanga solo come esperienza, quella di aver visto quel che si nasconde nell'ombra.

Un libro davvero bello e piacevole, per quel che si può, da leggere.
Buone letture,
Simona Scravaglieri

Giorni Tranquilli a Clichy
Henry Miller
Adelphi Edizioni, ed. 2018
Traduzione a cura di Katia Bagnoli
Collana "Piccola Biblioteca Adelphi"
Prezzo 18,00€


Fonte: LettureSconclusionate


mercoledì 18 luglio 2018

"Dopo il diluvio", Leonardo Malaguti - Malaguti il burattinaio...



Fonte: SerenoRegis

Questa è l'ultima versione che mi concedo di fare a commento del libro di cui parleremo oggi. Il problema è trovare il modo giusto per spiegare che la storia di cui parliamo non si ferma al suo aspetto divertente e ben scritto. La distopia immaginata da Malaguti ha anche un risvolto strutturato e complesso e mi ricorda distintamente parti di lavori di autori che leggo e che amo alla follia. C'è Ballard, Schmitt e Perrotta e sono tre scrittori in cui la distopia non è il primo genere che tu gli assoceresti. Così anche per Malaguti, cui un genere solo sta stretto, non sottolineare questo suo lato profondamente lucido di raccontare la deriva del nostro mondo attraverso un luogo fantastico, con la leggerezza quasi della fiaba, sarebbe un vero delitto. Ed è dannatamente difficile farlo, non solo per il rischio di spoiler ma anche per quello di andare fuori tema.

In un luogo, senza tempo e senza definizione, che sappiamo unicamente essere all'interno di una conca, sorge un paesino circondato dai campi. Data la struttura del luogo, quando arriva il diluvio è una grandissima disgrazia, perché se si ottura l'unica fognatura, il paese si allaga, le persone rischiano la vita, le provviste si perdono e via dicendo. Ed è proprio quel che succede all'inizio di questa storia: in una calda giornata prima cade una goccia, poi due e alla fine comincia a scendere il diluvio, che porta via case, persone e cose. Questa volta però è diverso perché l'acqua dopo giorni non accenna a voler diminuire, il sindaco è sparito e nessuno dei consiglieri sa cosa fare. Su indicazione del vecchio prete di paese viene sturata la fognatura e, ad acque ritirate, il risultato di questo disastro, oltre ai danni alle cose, porta con sé anche tre morti, di cui uno assassinato.
E mentre la popolazione cerca di ritrovare una parvenza di normalità, nell'ombra si muovono le indagini e si progettano pericolosi scherzi.

La struttura di questa storia è talmente semplice che solo un vero scrittore poteva narrarla così bene. La distopia, come ho già scritto nelle milioni di versioni di questa recensione, è quella situazione in cui parlare di qualcosa di fantastico o di un futuro possibile o impossibile,  ti permette di sviscerare le crepe del tuo presente ed è molto probabilmente per questo motivo che io amo particolarmente questo genere. La situazione base è quella che la nostra società vive giornalmente: insiemi sparsi di persone divisi per nazionalità, regione e città vivono a titolo vario insieme. A seconda di quel che ci unisce diventiamo isole sempre più piccole o più grandi a seconda dell'età, del lavoro, del pensiero. Ci raggruppiamo come studenti o come lavoratori, o come semplici nuclei familiari che man mano diminuiscono dando vita a nuovi gruppi: insomma ci sono tantissimi insiemi.
Ma, da oramai un decennio a questa parte, internet ha preso piede ovunque e internet è un paese unico per tutti. Ha annullato le differenze, ma ci ha reso più soli e più vulnerabili, in un luogo virtuale in cui sentiamo di dover prendere una posizione su qualsiasi cosa. 

La parte più pregiata di questo lavoro, sta nel descrivere le fasi in cui la civiltà perde il suo essere civile e quali siano, non tanto le conseguenze, ma le giustificazioni che ci diamo. Malaguti crea infatti la situazione perfetta in cui l'isolamento dal mondo fa si che questo luogo possa essere messo sotto stress senza alcuna via di uscita. Mette in campo anche una serie di fattori scatenanti: il diluvio, la morte di un bambino, l'omicidio, la scomparsa di un contadino. Gli ingredienti ci sono tutti, compresa l'immagine di una democrazia e di una dottrina ipocrita. Prende un gruppo di individui che vivono potenzialmente in pace - ognuno ha il suo lavoro, le sue faccende e questo permette una pace di facciata- e, in questa situazione "pacifica", aggiunge i fattori che potrebbero scatenare sommosse (senzatetto, prostitute, pedofilia, corruzione e via dicendo) e ci svela una cosa cui non facciamo caso: che se ben ci si pensa queste cose, quando la vita del singolo va bene e non è turbata nulla, nonostante eticamente ci dovrebbero far andare fuori dai gangheri diventano contesto.
Per far sì che questo contesto diventi stringente o che si punti il dito, bisogna portare singoli, gruppi familiari, società e democrazie sull'orlo di un precipizio dove non ci sono soldi, cibo, case. Lì e solo lì la civiltà svela di non essere cambiata dei tempi primitivi e diventa furia cieca. I ragazzini non sono più tali, i genitori porterebbero alla ghigliottina pure il vicino di casa, l'etica di ciò che è giusto e ciò che non lo è si modifica. Il senso di giustizia prevale sulla giustizia. Attenzione il senso di giustizia è visto come un sentimento individuale, la giustizia è qualcosa di oggettivo e che non guarda all'opportunità del singolo; la giustizia non è mai tale e uguale per tutti.

All'acme della situazione creata, la folla vendicatrice e  misfatti perpetrati spariscono in un attimo. La nostra società, come nei tempi antichi, soddisfatta la propria sete di vendetta e non si interroga su quel che è successo, la colpa è sempre di qualcun altro e perché il nostro senso di giustizia giustifica tutto. La distopia non deve fornire risposte, ma come in ogni disciplina del genere deve stimolare una riflessione, e Malaguti ci riesce perfettamente. Lo fa inquadrando bene la società nelle sue dinamiche sociali normali, come avrebbe fatto Ballard, crea delle quinte naturali e osserva in maniera quasi maniacale quel che succede nei punti cruciali, come Schmitt ne "La giostra del piacere" e infine, ma non per ultimo, distribuisce i suoi personaggi su un tavolo da gioco creando solo situazioni per seguire le loro scelte individuali e di gruppo come fa Tom Perrotta. Lo stile è divertente e il tono a volte ironico e in altre no, fornisce ulteriore movimento ad una storia già di suo ritmata. E', come avviene per tutti gli scrittori che Exòrma ha selezionato per questa particolarissima collana, una storia che puoi leggere a mo di favola oppure guardando ai significanti, rimane comunque, in entrambi i casi, un lavoro appagante anche se decisamente complesso da raccontare. 

Buone letture,
Simona Scravaglieri

Dopo il diluvio
Leonardo Malaguti
Exòrma Edizioni, Ed. 2018
Collana "quisiscrivemale"
Prezzo 14,90€


sabato 7 luglio 2018

"Un pomeriggio di un piastrellista", Lars Gustafsson - La straordinaria bellezza dell'imperfetta vita di un piastrellista...


Fonte: Depositphotos

È dallo scorso anno che vado dietro a questo libro che è uscito, credo, in contemporanea con un altro di cui mi ero appassionata e che poi ho comprato che è Miraggio 1938 - di cui peraltro ero convinta di aver già scritto la recensione e invece devo farlo ancora (è la grande dannazione di leggere ebook non li hai fisicamente ingombranti nello scaffale dei libri da recensire!). Il fattore comune fra i due è che, dalle premesse della sinossi, sono entrambi titoli "mainagioia" e invece alla fine, si rivelano più solari di quanto uno si aspetterebbe. Nel caso di Gustafsson c'è anche una particolarità in più: questo lavoro si può accostare per svolgimento a "La città degli angeli" della Wolf, a "Il sale" di Del Amo e anche a "The White family", ma supera quell'ostacolo che blocca tanti lettori della pesantezza e del ristagno delle situazioni, che ne permette l'assimilazione dell'esperienza, sedimentandosi nel suo lettore con un altro espediente decisamente riuscito ma che ovviamente non vi dirò perché situato alla fine del libro.

Il nostro protagonista è un anziano piastrellista che, come nella migliore tradizione dei libri di questo genere, è vedovo, ha perso il figlio, vive ai margini della società in una villetta trasandata, è solo e arrotonda con lavoretti in nero. L'azione inizia con una telefonata in cui un conoscente lo informa che c'è l'opportunità di un lavoretto in un villino in ristrutturazione: c'è da piastrellare inizialmente un bagno e una cucina, poi, quando l'affittuario del piano di sopra se ne andrà, ci sarà altro lavoro. Torsten accetta subito e segna l'indirizzo. Dopo la fatica di alzarsi, di cercare del materiale per ottimizzare il ricavo del lavoro, il nostro piastrellista si incammina. La casa è grande e bella, è vuota e ancora in costruzione, è in alcune parti con le finestre libere e quindi illuminata e in altre buia a causa dei cartoni a protezione dei vetri.
La storia narra di un pomeriggio qualunque in un giorno qualunque nella periferia bene di Uppsala in Svezia e di come un lavoro semplice e monotono possa essere interrotto da personaggi anche inesistenti, segnalati da un bigliettino, e da situazioni surreali, un po' come la vita di ognuno di noi, che a volte procede spedita e a volte rallenta per i casi della vita.

Non sono stata completamente esaustiva all'inizio, perché c'è un'altra caratteristica che differenzia questo lavoro dai precedenti ed è la scrittura. Gustafsson sembra scrivere, tra il divertito e l'incuriosito, seguendo il suo protagonista da vicino con lo stesso stupore di chi legge. Ne esce fuori un racconto lungo scorrevole, godibile e per alcuni tratti anche divertente. Dall'altro lato la metafora di una vita che nasce, cresce e si sviluppa, rappresentata dalla casa in costruzione è decisamente chiara. All'alba dei nostri giorni siamo come quella casa, quel che vediamo è quel che viviamo e quel che è in buio sono ambiti a noi inaccessibili finché non finiremo di costruire il nostro futuro che poi diventerà il nostro passato. Quindi in questa storia c'è un inizio che si confronta con una fine, quella di Torsten, uomo che si avvia alla fine di una vita vissuta, non sta a noi dire bene o male, e che la ripercorre saltellano di qui e lì nelle stanze della sua esistenza senza un nesso logico o soluzione di continuità. Il confronto nasce e cresce mentre la parete, inizialmente costruita male e parzialmente buttata giù dal piastrellista, piano piano viene ritirata sù. Un lavoro ripetitivo, che viene naturalmente fuori dalle mani di un esperto piastrellista diventa un lavoro automatico e l'automatismo da che mondo e mondo, permette alla mente di spaziare.

Nonostante Torsten non abbia avuto una vita facile e nonostante il fatto che non gli sia stato proprio risparmiato nulla del lato oscuro delle relazioni o delle mancanze, non si guarda indietro con dolore. Torsten guarda a ciò che ha vissuto con la stessa nostalgia che avrebbe una madre a guardare la stanza del figlio oramai cresciuto che è andato a vivere da un'altra parte. I ricordi si ammassano, brutto o belli non importa, ma fanno parte di un vissuto solido, umano e del tutto personale e non ripetibile in altre vite. Il suo tornare ai primi amori, al primo lavoro, sorvolare con un accenno al figlio e alla moglie, alle difficoltà incontrate formano un quadro che per nulla assomiglia ad una dolorosa elaborazione del lutto e, invece, restituiscono un quadro di uno uomo che prende atto di aver fatto e vissuto cercando di essere l'uomo che voleva essere anche se non sempre ci è riuscito. È un uomo di bassa estrazione, che non ha potuto o voluto studiare ma che nella vita ha imparato ad andare oltre di dictat di chi dice di sapere; Torsten ha imparato che per sapere devi conoscere.

È un libro talmente bello da avermi convinto a cercare altri lavori di questo scrittore perché, come detto, nonostante le premesse da mainagioia è un libro solare e che ti lascia una speranza: se non tradisci te stesso, la tua storia, anche se non va per il verso giusto, sarà sempre la tua storia e tu non potrai che guardarla che con nostalgia e non con dolore, apprezzando ciò che hai avuto e non rimpiangendo ciò che non c'è. Il punto non è vivere per essere qui anche se non ci siamo più, il punto è vivere per non sprecare la possibilità di aver vissuto e questa è l'eredità più bella che uno scrittore può lasciare al suo lettore indipendentemente alla fine del suo libro. La metafora della casa che si costruisce piano piano e di tutti gli accidenti che possono incorrere in una giornata che  è come una vita è geniale e la scrittura di ampio respiro, scorrevole e mai ristagnante con un connubio talmente micidiale che alla fine, quando le pagine stanno per finire, già lo starete rimpiangendo.

A questo devo aggiungere una nota del tutto personale: c'è una postfazione di Trevi alla fine che fa una riflessione che guarda a questo lavoro, probabilmente lui conosce Gustafsson molto meglio di me, in modo completamente diverso dal mio. La mia ricostruzione di questa storia è data dal fatto che leggendo il libro prima se fosse stato come la descrive lui, probabilmente io non guarderei a Torsten con la nostalgia di quelle con il sapore buono. Il suo pensiero di questo lavoro si fonda su presupposti diversi che inquadrano il personaggio in una sorta di rimpianto per una vita che non è andata come avrebbe dovuto e, a mio favore c'è, che appunto in questo genere di lavori, come quelli citati, la pesantezza che ferma tanti lettori, è data appunto da questa sorta di rimorso o senso di tradimento da parte della vita stessa dei suoi protagonisti che qui è totalmente mancante. In quel caso i ricorsi riaffiorano sparsi ma con una logica, che qui manca: Torsten guarda alla sua vita in maniera disordinata, aprendo le stanze della sua casa in maniera del tutto casuale seguendo l'estro del momento non è alla ricerca di qualcosa, è solo dettato dalla semplice curiosità di un uomo semplice, che guarda altrettanto con semplicità attorno a sé. Torsten ci tiene a ribadire più volte che il suo lavoro è ben fatto perchè lui sa farlo, perché sa come fare fughe perfette e questa affermazione continua non è rimpianto ma una vera affermazione di uno che sa che ha fatto tutto a regola d'arte, come da lui ci si sarebbe aspettati.
Ci sono anche parti di questa postfazione in cui concordiamo come: il finale che è una vera genialata, passatemi il termine che non mi viene altro in mente, e la critica, decisamente poco velata, ad una società, come quella Svedese, inquadrata, organizzata che viene spesso presentata come il modo per raggiungere il successo individuale che invece nasconde un grande lato oscuro. Per chi è impossibilitato, dalla vita o dalle situazioni, ad attenersi ai rigidi dettami e alle regole rimane una vita al margine non solo della società ma anche della vita stessa. E questa osservazione latente in buona parte di questa storia è un vero macigno più che una semplice riflessione, che rivela in maniera netta e chiara i limiti di un mondo che da sempre viene descritto come una macchina perfetta. 

Io questo libro l'ho proprio amato e rimarrà con me come tutti gli altri citati in calce a questa riflessione e sono contenta di non aver desistito dalla convinzione che avrebbe comunque dovuto essere mio, perché è stato un viaggio davvero imperdibile. Un libro davvero consigliato a chi vuole leggere una storia davvero straordinaria nella sua straordinaria semplicità.
Buone letture,
Simona Scravaglieri


Un pomeriggio di un piastrellista
Lars Gustafsson
Iperborea, ed. 2017
Traduzione a cura di Carmen Giorgetti Cima
Postfazione di Emanuele Trevi
Collana "Luci"
Prezzo 15,00€


Fonte: LettureSconclusionate

giovedì 5 luglio 2018

"Un nastro color lavanda", Heather Burch - Da leggere ad occhi chiusi...

Fonte: Deejay.it


Tutti libri belli in questo blog eh? Invece no, anche la sottoscritta prende ogni tanto qualche sòla (definizione romana che individua la "fregatura") a volte lo faccio inconsapevolmente, come avvenne per Maestra, a volte consapevolmente come per il libro di oggi: Un nastro color lavanda. Per me comprarlo era un modo per avere una lettura leggera, leggerissima anzi, mentre ero a letto con un mal di testa da guiness dei primati. Significa che non ho una grande attenzione e che devo interrompere la lettura in continuazione ed è per questo motivo che, forse, sarò infinitamente più gentile, di quanto sarei potuta essere, se lo avessi letto nel pieno delle mie possibilità. Ok è un auto-pubblicato di AmazonCrossing, va bene, qualcuno di buona volontà lo ha anche tradotto. Va bene tutto. Ma questo libro, anche per la categoria in cui nasce, è una vera porcheria.

La storia si può sintetizzare con una lei e un lui. Lei è bella (come sbagliarsi?), è triste, è di recente divorziata perché lui l'ha tradita e lasciata e si è appena trasferita sulla costa perché sogna di fare colazione davanti alla magnificenza dell'Oceano. Lui (quello del posto), è bello, è alto e abbronzato, è un po' un mutante visto che un minuto prima è longilineo e poi basta che lo bagni l'acqua e gli spuntano muscoli che lo rendono ancora più bello, ha una passione per le gambe delle donne, lavora in una banca di provincia e vive con suo nonno. Il nonno è uno con gli occhi azzurri, che fa amicizia pure con le maniglie delle porte, è un giardiniere eccezionale (che non ha un giardino, ma un orto e un'oasi tropicale insieme).
Lei è appena arrivata nel paesino di provincia, ha comprato una vecchia casa malandata e, seppur non abbia mai piantato un chiodo, decide di ristrutturarla. Intravede lui in banca, ma non si incrociano. Ma un giorno lei trova delle lettere in soffitta e le legge e si innamora di colui che scrive e decide di indagare per sapere chi fossero lui e lei. Colui che scriveva era in Europa all'epoca della seconda guerra mondiale. Nemmeno ve lo dico come continua perché confido nel vostro intuito!

Posso anche capire che il mio modo di vedere al mondo femminile, che forse non è definibile femminismo, sia una concezione completamente personale e che quindi, accingendomi a scrivere quello che sto per dire, posso essere tacciata di essere oltranzista, ma, e ci tengo a sottolinearlo, io ho letto i veri romanzi rosa della tradizione italiana, di colei che riuscì a farsi apprezzare per certi versi anche da D'Annunzio che l'aiutò a trovare lo pseudonimo. E' vero, qui la scrittrice credo sia americana, è anche da considerare che magari ha letto una valanga di libri simili e ha pensato di aver avuto l'ideona. Ma si è dilungata parecchio, perché la sua, chiamiamola, eroina è una donna da denuncia, che non guarda in faccia a niente e nessuno, si impiccia e prende decisioni sulla vita altrui e che per i continui errori e figuracce che fa viene in continuazione scusata. Chiunque le satelliti intorno, dal futuro "eletto" al nonno, l'amica, il vicino di casa e via dicendo è solo una comparsa per dire: "Va tutto bene, anche se mi hai asfaltato in giardino che mi era costato milioni di dollari, non c'è problema è colpa mia e non tua!".
E' sbagliata di base l'idea della donna che lasciata a sé stessa, deve rompere le scatole al mondo ed essere scusata perché, poverina, è divorziata!

E la cosa che notavo, anche qualche tempo fa quando incappai ne "La signora dei funerali", gli uomini non esistono più. Sono solo un tramite per mettere un'altra tacca sulla lista delle priorità. Non hanno spina dorsale, o scusano tutti all'infinito. Bastano un seno e due gambe e fanno tutto. Ma dov'è che l'uomo è stato declassato ad essere non pensante? Qual è il momento in cui, siccome si tratta di romanticherie, gli uomini hanno la stessa consistenza bidimensionale di un poster? 
In questo, al netto degli errori e delle metafore che manco vi cito, che questo "libro" si rivela una vera porcheria. In una coppia si è in due, indipendentemente da caratteri dominanti o no, e invece nella concezione moderna, dei romance ma anche degli young adult, esiste la donna, il resto è contesto.

A questo si può accostare solo lo svarione in cui da una barca si arriva a terra ferma davanti ad uno specchio. Non si sa come siano tornati a terra o che sia successo nel frattempo; sembra solo che l'autrice dopo averla tirata per le lunghe per più di metà libro, avendo avuto l'occasione di far a lui chiedere a lei di uscire non vedesse l'ora, più dei diretti interessati, e abbia deciso di parlare di quello fregandosene della storia che fin lì si svolgeva. Tutto quello che voi vi aspettate da un libro del genere succederà... lei con i tacchi a spillo sul pontile sgangherato, lei che cade su lui e lui la salva... lui che lava più sé stesso che la barca, lui figherrimo in completo da ufficio e lui ancora più figherrimo con i jeans sempre molto stretti (che detta fra noi: ma perché devono sempre avere questi jeans aderentissimi? a me più che star lì a guardare cose verrebbe da dire "mangiato troppo eh???" oppure "hai sbagliato candeggio!!").  La perdita di un co-primario, la perdita di un contesto reale che non debba sempre facilitare le cose, la totale mancanza di un criterio nel gestire le quantità dei casi da presentare e non strafare, nel non limitarsi a farli sembrare "Vorrei fare un porno con te, ma devo andare avanti ancora 100 pagine!" penalizza qualsiasi romanzo rosa o altro rendendolo di bassa qualità. Non è solo perché sia un autopubblicato, perché se lo è e lo è così, e come tale viene letto, è perché l'evidenza di quello che si trova in giro e che va per la maggiore, di editoria tradizionale, è questo! Possibile che non si possa fare la differenza magari guardando indietro?

A quanto pare no, non è possibile. Che non era un libro dove buttare 0,99€ come ho fatto io perché era in offerta s'era capito già, vero? Diciamo che per questi lavori, autopubblicati o no non importa, è meglio aver adottato il termine americano e non "romanzo rosa" giusto per non accostarli con ben altri esempi. Volete sognare? Volete andare in un mondo in cui uomini e donne riescono a raccontarvi una storia? Volete davvero sapere l'essenza del rosa quale è? L'ha descritta Aldo Busi, in un bellissimo libro pubblicato qualche anno fa: L'amore è una budella gentile. Nessuno si innamorerà se non voi, magari con una lacrimuccia e con una bella risata... Un libro, vero, scritto da un bravo autore che vi stupirà, come lo ha fatto con me. 
Buone letture,
Simona Scravaglieri

Un nastro color lavanda
Heather Burch
AmazonCrossing, ed. 2016
Traduzione a cura di Gloria Fassi
Prezzo 9,99€

Fonte: Amazon.it

domenica 1 luglio 2018

"Guasti", Giorgia Tribuiani - Sottomissione volontaria...


Fonte: pxhere.com


E' la decima volta che riscrivo questa recensione. È la dannazione dei libri che ti sono piaciuti talmente tanto che nessuno dei resoconti che scrivo e riscrivo sembra adeguato. Anche questo è un guasto, perché io è una settimana che tento di spiegare al mondo delle mie amicizie perché dovrebbero leggerlo e," è bello", non sembra una definizione che lo racchiuda perfettamente, anzi, gli sta stretta come quelle magliette che dopo il lavaggio si sono ristrette al punto tale da farti venire il dubbio che non siano mai state della tua taglia. Ecco, "Guasti" è un libro piccino che però avrebbe una  taglia extralarge, perché in un piccolo spazio tocca temi di un certo peso, in una ambientazione a dir poco drammatica, ma che viene narrato in una maniera così accattivante che tu non gli puoi rimanere indifferente. È come vedere una pièce teatrale da un punto di vista inconsueto: invece di essere uno spettatore fermo in poltrona, tu, sei al contempo dentro la testa della protagonista e fuori. Non ti è permesso sederti, perché nelle mostre non è mai permesso sedersi è previsto solo che tu guardi e scorri. Ed è proprio quello che Giada non riesce a fare: i suoi guasti non le permettono di scorrere, la fermano in una sala.

Contestualizziamo: Roma, mostra di plastilinazione artistica, ovvero una mostra di corpi umani, o di loro parti, che sono stati trattati con una tecnica che li rende rigidi, inodori e anche eterni. I corpi perdono la pelle, ma si sceglie, a volte, di metterli in posa come stessero ancora facendo il lavoro che facevano in vita.  C'è ad esempio una ballerina, chissà in che posizione l'hanno messa? Ma questo non è per noi interessante, quanto una "rappresentazione" viva di una delle sale al piano di sopra. L'autrice non lo dice, ma da come si svolgono i fatti sembra che la sala in questione sia una di quelle a fine giro. Quelle in cui arrivi all'ultimo e il tuo occhio oramai si è abituato a quello che all'inizio lo stupiva. In questa sala ci sono una teca con quattro polmoni che testimoniano gli stadi dell'inquinamento da fumo, un'entrata da un'altra sala, un'uscita da cui si intravedono le scale e magari un simbolo dei bagni. C'è anche uno di questi corpi, colto nell'attimo in cui sta per fotografare qualcosa, e una donna. È lì dall'apertura e rimarrà tutti i giorni della mostra. È Giada e sta ampliando il concetto di arte portandolo ad un livello superiore. Lei e l'uomo congelato nell'atto di fotografare hanno un rapporto, anzi lo avevano. Una storia seria, lei ne sembra convinta, anche se non si sono mai sposati. Ed è forse qui quello che sembra il guasto principale: lei, quando lui è morto, non ha avuto nessuna delle eredità che l'avrebbero lasciata andare, perché lui se n'è andato ma c'è. E lei è ancora una sua proprietà, come la foto sull'altalena. Non ha avuto una lapide su cui piangere e che segnasse, con la sua chiusura, la fine di qualcosa da rimpiangere e a cui pensare con nostalgia. Lui non c'è, ma c'è è lì e lei è ancora sua.

Ma allora perché "Guasti" e non "Guasto"? Semplice, perché come spesso succede il guasto che ci ferma, è quello finale che deriva da altri precedenti. I guasti, nella cosmologia tutta particolare di questa storia, non ti fermano ma deviano la natura delle persone e la via che si percorre, ti adatti e diventi una persona diversa a seconda dei percorsi che ti trovi a fare e alle persone che incontri e con le quali hai un rapporto. L'elevazione a potenza di questa storia sta appunto qui. Una coppia di due persone una congelata e l'altra viva e vegeta, che non si possono dire addio ma che non possono stare insieme. Sono anche due persone che vivono un rapporto in buona parte malato, lei preferisce lo stato di gregario sotto la luce di lui e lui, in un atto di leggerezza, toglie a lei l'unica eredità vera. È nello scorrere delle giornate di mostra che si svolge questa storia che potenzialmente è ferma lì e se uno va a guardare nelle sfumature, Giada, non è mai dal lato dello spettatore bensì del mostrato. È come se entrambi fossero in mostra e la gente che passa è solo una scusa per interrompere i momenti di introspezione troppo violenti. In questo inferno in cui Giada si è ritrovata non c'è pace perché nel confronto non c'è risposta e così questa Analisi che scava sempre più in profondità, di guasto in guasto, risalendo alle origini è un percorso lento ma inesorabile.

Ma non significa solo questo, lo stare entrambi in vetrina. Va oltre, è la definizione di una volontà; due innamorati si guarderebbero negli occhi, un gregario e il suo riferimento no. È il gregario che guarda il leader e non il contrario. In questa storia che Giada fatica a lasciar andare l'idea dell'amore ha colorato la sopraffazione emotiva e l'ammirazione trasformando un rapporto già nato "rotto" in una convivenza di facciata. Ma è solo quando il leader smette di rispondere che Giada si trova di fronte una libertà che stenta a riconoscere e seguire. Questo perché i gradi di sottomissione hanno costituito gli strati che sono serviti a modellarsi in funzione di quello che Giada pensava ci si aspettasse da lei. E l'ideale a cui si spingeva era proprio quello che odiava di più: una foto.
È una sottomissione volontaria, mai richiesta ma che ha sentito di dovere, e'  l'ennesimo dramma ma anche comodo. Perché in questa sottomissione la nostra protagonista ha potuto trovare un porto sicuro, un'accettazione facile da raggiungere perchè è un'accettazione che si ottiene con atteggiamenti e comportamenti chiari, definibili.

Nel momento in cui cessa l'intercalare di un dialogo, la sicurezza di una presenza, il porto sicuro scompare e ci si ritrova a doversi confrontare con il mondo in cerca di un nuovo porto, di una nuova sicurezza. È a questo punto che i gradi della separazione dalla libertà diventano infidi e perversi: nelle persone che hanno una reale difficoltà di rapportarsi con gli altri e di riconoscere i comportamenti codificati che ci garantiscano l'accettazione il mondo è davvero un posto difficile e per chi si ritrova a doverci rifare i conti è un po' come tornare bambini e imparare a camminare. Sapere di chi fidarsi, imparare a contare sulle persone non aspettandosi che queste si comportino esattamente come vogliamo noi e via dicendo sono questioni con le quali facciamo i conti tutti i giorni. L'umana necessità di aggregazione cozza sempre contro l'individualità sfacciata nel singolo. 

Dopo tutta questa riflessione, a me viene una domanda che verrebbe a chiunque: perché pubblicare un libro così d'impatto, e in un certo senso, di peso in una stagione da ombrellone. Ecco, questo non è propriamente un libro da ombrellone, perché dopo che lo hai letto, fatichi a regalarlo al vicino, anche se non puoi resistere dal consigliarglielo. Perché questo lavoro, nonostante ci trasformi in quello che racconta - il libro è la statua e il lettore che se ne innamora la protagonista, e con lo stesso cipiglio della statua anche il libro ci tiene un po' a distanza- è scritto nella stessa tensione e ritmo degli umori della protagonista. In questa narrazione che passa dal pensiero alla parola detta senza soluzione di continuità, avviluppa il lettore in una spirale perversa da cui quando si riemerge si rimane con il fiato in gola. Ti verrebbe da dire che magari avrebbe potuto allungarsi un po' sul finale o narrare che succede dopo ma, poi, fermandoti, ti renderai che è perfetto così, perché come è nato narrando di un fotografo congelato nell'attimo di fotografare, il finale così pensato e scritto è una foto, è quell'attimo che il fotografo stesso, se fosse stato in vita, avrebbe voluto fermare.
E una foto, da che mondo e mondo, e come dice anche Giada non racconta il prima e il dopo di chi sei, ma solo quel secondo, perfetto e irripetibile e lo ferma a memoria futura.
È sicuramente per questo che il libro non lo cederete.
Un libro davvero consigliatissimo.
Buone letture,
Simona Scravaglieri


Guasti
Giorgia Tribuiani
Voland Edizioni, ed. 2018
Collana "Amazzoni"
Prezzo 14,00€

Fonte: LettureSconclusionate


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