venerdì 3 dicembre 2010

"La fattoria degli animali", George Orwell - Apologia del potere




Alcuni sostengono che le cose non accadano mai per caso. Potrei essere anche sommariamente d'accordo con questa tesi e, teoricamente, potrei dire che, a me, avviene con i libri e con le citazioni. In un momento come questo, dove la discussione politica e giornalistica e' all'apice della totale autodistruzione, a me è capitata in mano "La fattoria degli animali" di Orwell.

Non che rifugga dal contenzioso sull'ideologia ma trovo che, spesso, da un lato o all'altro, come sostiene Orwell, pur di portare l'acqua al mulino della nostra causa, si tralasci quel che di brutto c'e' o c'e' stato in passato. C'e' una sorta di corsa al proselitismo e da qualsiasi parte ci si trovi si deve far numero gli uni con gli altri, si deve per forza accettare tutte le tesi e non si deve mai dire "ma".

Cosi' avviene anche alla "Fattoria degli animali" ex "Fattoria Padronale" dove, innamorati dalla visione del vecchio maiale saggio chiamato "il Generale" su un mondo migliore e piu' libero per tutti, gli animali si ribellino al giogo umano per riprendere pieno possesso della propria vita.
Quel che e' straordinariamente attuale, in questo racconto, e' la caratterizzazione della presa di potere. Ovvero il passaggio da schiavi alla ribellione ad una nuova forma di schiavitù ovvero quella autonoma dove si e' schiavi ma convinti di essere liberi.

Si potrebbe affrontare questo libro da piu' punti di vista i principali potrebbero essere suddivisi in due categorie o l'analisi della "presa di potere" oppure l'analisi del "valore della massa".

Se da un lato la presa del potere è ai giorni nostri alla mercé dell'informazione al contempo il valore della massa, in una società che è l'informazione stessa, continua ad avvicinarsi pericolosamente allo zero assoluto. Mi spiego meglio, se da situazioni di totalitarismo come quelle che hanno caratterizzato la prima metà del '900, dove non c'era libertà di parola e pensiero e quindi l'adesione era presa come stato di fatto, oggi, con l'avvento della tanto agognata democrazia, dalla meta' del '900 in poi, si assiste ad una anestetizzazione del valore di libertà di pensiero a favore non delle convinzioni dell'unita' che compone la massa ma dell'adesione di gruppo al pensiero altrui. E in effetti questa e' la nuova forma di schiavitù moderna: la delega.

Orwell, quindi, dà una sua descrizione della presa di potere alquanto attuale descrivendone i passaggi graduali, fatti di condivisione delle motivazioni della massa che decide di cambiare modello di vita e mano a mano va ad incidere nelle classi sociali che tendono a delegare, vuoi per ignoranza e vuoi per pigrizia, il proprio pensiero o i problemi comuni lasciandoli ad altri. Così se la tentazione di colui che detiene man mano più potere e' pericolosa ma al contempo vizio connaturato alla natura mortale dell'uomo, la delega arriva a detenere un valore maggiormente condannabile. E l'informazione ne diviene l'oscuro manipolatore ad esempio smussando il valore di una legge assoluta, che passa da "Nessun animale ucciderà un altro animale" a "Nessun animale ucciderà un altro animale senza motivo", adeguandola così alle necessità de momento. O anche lavorando e influendo sulla massa ritenuta più ignorante, per cultura o per povertà di pensiero, proponendo modelli che siano comprensibili e facilmente replicabili all'occorrenza, ripetitivi che rimangano ben impressi nella mente di coloro che devo portare il verbo come avviene con le pecore e il loro fastidioso ritornello "quattro gambe buono, due gambe cattivo!".
Questi modelli, però, oltre a non essere risolutivi per il potere cui devono asservirsi, perché chi appartiene a questa categoria non e' in grado di andare oltre la lezione insegnata e quindi può solo rumoreggiare ma non far nuovi proseliti, sono autodistruttivi nel momento in cui il potere vacilla perché, se e' facile il primo addestramento, l'inversione di marcia richiede motivazioni credibili e se, nella "Fattoria" basta il cantastorie del potere, oggi, nella situazione odierna, l'informazione che può contare sull'enorme volume di notizie condivise e condivisibili che fanno si che un articolo sia già vecchio prima di uscire e che al contempo sia "dimenticabile", deve comunque scontrarsi con chi dall'altro lato confida invece nella continua sobillazione delle masse con modelli più appetibili per accaparrarsi nuovi seguaci.

Quel che Orwell non affronta, ma a cui nemmeno accenna è una soluzione o anche una riflessione su che cosa sia meglio, il totalitarismo o la democrazia? Quando e come agire sulla forma di democrazia perché essa nella sua naturale evoluzione non divenga un totalitarismo travestito da repubblica? Dove riconoscere la voce contrastante che porti però ad una evoluzione e non sia solo forma di trasporto da una forma di schiavitù all'altra? L'adesione ad un movimento deve per forza essere assoluta e asservita o è sempre necessario mantenere la propria identità anche quando questa potrebbe andare a scapito dell'obiettivo finale e far vacillare il potere stesso? E' meglio una legislazione con valore assoluto che commetterà comunque qualche ingiustizia? Oppure una più aperta, smussata nei suoi valori assoluti, ma che lascia spazio alla natura "furba" dell'uomo che profitta di ogni occasione gli venga a portata di mano?
Sono concetti che vengono aperti ma non svolti in questo racconto. Si prendono come dato di fatto e non si va oltre ed e' in questo adeguamento a favore della storia che Orwell commette un errore.
In questo racconto infatti esistono tre categorie di personaggi "più uno" della vita moderna: i furbi (individuati dall'intelligenza) il popolo (individuato dall'ignoranza intesa come non conoscenza o fatica di apprendimento) l'informazione che fa da congiunzione ai due mondi.
Nella vita reale un valore così assoluto non esiste. Non tutti coloro che hanno la conoscenza sono liberi dal proselitismo strisciante e succube ed e' altresì vero che nel popolo non tutti sono asserviti. C'è anche una sostanziosa fetta di appartenenti a quel "più uno" che nel racconto e' ironicamente rappresentato dall'asino che impara, che sa, conosce, vede e ricorda ma se anche asseconda, non totalmente, il potere imposto ne registra al contempo i movimenti e gli errori, nonché le fandonie ma rifiuta di divenire forza di contrasto. Si potrebbe pensare anche qui in un atto di pigrizia. Ma, in effetti, e' solo un metodo attuato molti, con pensieri discordanti dalla massa di evitare il confronto teorico quando si sa bene che la massa asservita o la tendenza che ti circonda e' satura di informazioni pre-confezionate e si rischia di sentirsi ripetere a domande o riflessioni più e più volte con la stessa nenia come avviene con le pecore "quattro gambe buono, due gambe cattivo!".

Altro aspetto vincente di questo racconto e' rappresentato dalla descrizione del ruolo dell'informazione. Quella che utilizza la buona oratoria per distorcere, modificare anche il comune ricordo. E mentre al nostri giorni, l'informazione sembra dover essere battente e urlata nella "Fattoria" basta che sia diffusa. Non importa che essa sia compresa appieno, anzi questa e' la condizione auspicata, perché se non siamo padroni di quel che ci dicono, domani, quel che abbiamo mancato di capire oggi, avrà un'altra forma o altri significati che ci si fa notare forse nella volta precedente non avevamo afferrato. Oggi, invece, l'oratoria e' andata a farsi benedire e anche la scrittura ha lasciato il passo all'urlato e al mero attacco, tralasciando il fatto che l'obiettivo del giornalista non dovrebbe essere chi sta attaccando, ma chi legge.

Era un libro che, all'epoca avevo marchiato come noioso, ma che con il tempo l'esperienza e forse anche l'attualità presente sui giornali, riviste,tv, radio e libri ha assunto significati nuovi.
Buone letture,
Simona


La fattoria degli animali
George Orwell
Mondadori Editore, Ed 2010
Collana "Classici Moderni"
Prezzo 8,50€



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