Immagine presa da qui |
C’è un motivo per il quale l’arte contemporanea, d’avanguardia e sperimentale di solito rimane di nicchia e la spiegazione è molto semplice, ovvero, che l’arte per esserlo dovrebbe trasmettere un messaggio o una sensazione in chi la guarda senza bisogno di troppe spiegazioni perchè nel momento in cui l’artista deve spiegare per filo e per segno quel che ha fatto, l’arte perde la propria naturalezza e diviene un artefatto che può andare bene per un periodo, ma potrebbe non essere immortale.
E’ un po’ quello che succede in questo romanzo che definirei “sperimentale” che ha il pregio di provarsi appunto "su un terreno nuovo", ad una giovane età e con un primo romanzo che è divenuto in poco tempo un libro dalla classica esclamazione “Ma non l’hai letto?!”.
L’intelligenza dell’autrice si vede nella scelta del tema "madre e figlia" - che è un tema conosciuto quindi parte da una base reale e vissuta da ogni ragazza - colpite da un lutto. Il capo famiglia è stato ritrovato un una scarpata dove è caduto con la macchina insieme con l’amante. Quindi oltre al lutto, c’e’ anche l’umiliazione del tradimento e l’impossibilità di chiederne la spiegazione e quindi il silenzio che si porta via la morte avvolge la vita della madre e in parte quello della figlia che ventenne e con un'adolescenza neanche tanto alle spalle torna a casa, abbandona l’università e si occupa della madre. Il fosso, o meglio buco che ha ospitato l’ultimo respiro del padre diviene il tema ricorrente delle foto della madre e dei pensieri della figlia così come gli ideogrammi che Camelia aveva cominciato a conoscere all’università e poi, grazie ad un cinese conosciuto per caso, continua a studiare per hobby.
Se dovessimo fermarci al tema, direi che l’autrice ha pienamente centrato l’obiettivo narrando un fatto reale, per uscire da un dolore così grande non basta la voglia di farlo ma serve un aiuto esterno che sia un impegno e che renda più evidenti le nostre passioni e che in quelle condizioni una famiglia, per quanto strana sia, tende sempre a richiudersi in un bozzolo e se vuole ha la possibilità di conoscersi se i suoi componenti interagiscono prendendosi cura l’uno dell’altra. Se si fosse fermata a questo, probabilmente, anche io zompetterei in giro dicendo a tutti “leggetelo!”. Io non so quanto di autobiografico ci sia in quello che è scritto qui dentro e sono certa che ognuno di noi vive il dolore a modo suo, ma nel dolore e nella rabbia di Camelia non ritrovo molta autenticità. Anche io ho perso un padre e non in un buco e nemmeno si era andato a fare un giro in macchina con l’amante.
Ma mentre nel rapporto fra Camelia e Livia (la madre) trovo autentico e vivido il rapporto di comunione e di dipendenza che si crea nel dolore, la rivalsa verso il mondo della protagonista la trovo decisamente artefatta.
Veniamo alla scrittura. A chi mi ha chiesto com’era il libro mentre lo leggevo, l’esclamazione è stata “certo, che per una che deve descrivere i silenzi usa un sacco di parole!”. Eh sì, ma proprio tante, è un fiume in piena che va verso una cascata, o un buco come direbbe l’autrice. E in questo fiume in piena oggetti vengono buttati e riappaiono o sono spenti e la scena dopo si scopre che sono accesi. Insomma ci sono un pò d’errori grossolani dovuti probabilmente al fiume in piena. La sovrabbondanza di termini mi fa pensare ad uno scrittore di cui avevo cercato informazioni e il cui libro che raccoglie i suoi saggi ho trovato ultimamente e l’ho letto, anzi per meglio dire, l’ho divorato. In uno di questi dice:
“Una poesia o un racconto - qualsiasi opera letteraria che presuma di chiamarsi arte- è un atto di comunicazione tra scrittore e lettore. Chiunque può esprimersi, ma quello che gli scrittori e i poeti vogliono fare nelle loro opere, più che limitarsi a esprimere se stessi, è comunicare [...] C’è sempre l’esigenza di tradurre i propri pensieri e le proprie preoccupazioni più profonde in un linguaggio che li fonda in una forma - narrativa o poetica- nella speranza che il lettore li possa capire e possa provare quelle stesse sensazioni e interessi. Le sensazioni e le intuizioni del lettore accompagnano e integrano sempre un brano letterario. E’ una cosa inevitabile e auspicabile. [...] Credo di essere nel giusto quando penso che quella di essere capito sia una premessa fondamentale da cui qualsiasi buon scrittore deve prendere le mosse o, piuttosto, una meta da prefiggersi.”
Raymond Carver, in Per Tess, 1987
E in un altro punto dice che punto cardine di uno stile narrativo dovrebbe essere anche l’utilizzo dei termini e della punteggiatura. Più il racconto è sovraccarico e più il lettore farà fatica a stare dietro allo scrittore e, aggiungo io, per puro atto difensivo diverrà più attento e quindi gli errori verranno più facilmente all’occhio.
Questo libro ha vinto il Premio Campiello giovani è candidato al Premio Strega ma guardando tutti gli amici, i contatti FB o altro, avrei un solo contatto cui donarlo, che peraltro lo ha già letto e lo apprezza sicuramente più di me. Per la mia competenza scendere nel buco di Viola Di Grado è stata un’esperienza strana e forse Che non mi tornerà alla mente in altre situazioni, come diceva Craver a proposito dei capolavori e delle sensazioni che lasciano. E’ una lettura di passaggio fra un libro e l’altro e che forse nella mia memoria sbiadirà nella trama lasciando come ricordo un cumulo di parole metafore e ossimori, nonchè ideogrammi, che per quattro giorni hanno gravato sul mio ritmo serrato delle letture. Sono certa che l’autrice abbia del talento, non lo nego, ma che debba ancora farsi le ossa e limare ancora questo fiume di vocaboli che stona con un mondo che fa parte dei suoi studi, cinese e giapponese, che invece sembra più misurato nell’espressione. Ringrazio comunque Marco di Assaggi Letterari che me lo ha caldamente raccomandato e che mi ha suggerito la presentazione di Roma in cui ho avuto l’opportunità di sentire le ragioni dell’autrice.
Settanta acrilico trenta lana
Viola di Grado
Edizioni e/o, ed 2011
Collana “Dal mondo”
Prezzo 16,00€
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