mercoledì 4 maggio 2016

[Dal libro che sto leggendo] Anime baltiche



La collina delle croci
Fonte: Gamtos Katalogas


Con il pezzo che oggi vi trascrivo inizia un bel viaggio che ci porta sulle coste e nell'entroterra di terre poco frequentate in Italia. Non sono propriamente sconosciute Estonia, Lettonia e Lituania ma è pur vero che sono luoghi che conosciamo molto meno di quel che dovremmo. Da un lato c'è quel che Salamov diceva ne "Il guanto", ovvero che dopo un periodo terribile come quello del Gulag era tornato indietro provato e lui si sentiva come se avesse indosso dei guanti nuovi che, seppur belli e comodi, non gli calzavano come quelli vecchi. La Russia aveva da tempo cancellato le tracce dei Gulag e lui non avrebbe più ritrovato i guanti vecchi anche se fosse ritornato nei luoghi dell'orrore. 

Anche i paesi baltici vivono questa realtà, stretti fra due grandi potenze, da un lato la Germania e dall'altro la Russia. Patria in cui chi era del luogo viveva nel terrore del Gulag, gli Ebrei dei Lager e Russi e Conti baltici nel terrore di veder spodestati i propri privilegi. Per un certo periodo che va dalla fine del regno degli Zar fino alla fine della seconda guerra mondiale è persino difficile capire di che nazionalità si è e in quel mondo freddo, per la maggior parte del tempo, la vita diventa come quella che Salamov descrive nella Visera: un cerchio. Chi oggi comanda domani verrà annientato e nessuno riuscirà a sfuggire da questo inferno.

In realtà, Salamov è uscito dal cerchio infernale ben due volte, seppur vivendo la sua vita da libero come un controllato dal KGB almeno fino alla riabilitazione, e così al cerchio sfuggono in pochi, ma qualcuno ce la fa. Ma a ricordare chi ce l'ha fatta e chi non c'è più rimane l'immenso patrimonio artistico lasciato in eredità al mondo. Mark Rothko, Hannah Arendt, Romain Gary, Gidon Kreme sono alcuni degli artisti citati qui. Arte, letteratura, musica, filosofia si fondono insieme riconoscendosi in destini molto simili sia per origine e sia per nostalgia.

Un libro veramente affascinante, di cui riparleremo in recensione... buona sbirciata!
Buone letture,
Simona Scravaglieri






1.


ORGOGLIO
La figlia di Jakobson


Estonia, settembre 1999
Al largo i marinai erano un’ottima compagnia. Dal Dollart al Sund mi ero goduto i racconti di tempeste e naufragi con cui Huig, Melle e Aristides condivano i pasti, ma sulla terraferma mi sembrarono tipi un po’ rozzi.Avremmo dovuto raggiungere Oulu, il porto più a nord della Finlandia, per portare sale e caricare pasta di legno. Ma vedendo la stiva, il noleggiatore cambiò idea: era troppo sporca per trasportare sale da cucina. 
Dopo ventiquattr’ore di attesa al porto di Emden, il cabotiero si vide assegnare un’altra destinazione: Pärnu, in Estonia. Conoscevo il paese solo di nome, per via di quell’elenco imparato a scuola: Estonia, Lettonia e Lituania. Una filastrocca impossibile da dimenticare.
 Aristides, il cuoco di Capoverde che da una vita navigava al Nord per conto di armatori olandesi, era già stato una volta in Estonia, quando il paese faceva ancora parte dell’impero sovietico. All’ultimo momento tre poliziotte erano venute a piantonare la nave, una alla passerella e le altre due vicino alle cime d’ormeggio. Le tre virago russe si erano fatte portare una seggiola e avevano gridato in olandese: “Cuciniere, mangiare!” Ricevettero di che sfamarsi. Dopodiché gridarono: “Cuciniere, scopare!” Sapevano queste frasi in tutte le lingue. 
Quattro giorni dopo avvistammo le coste della Curlandia. Le dune erano talmente bianche che le scambiai per scogli di gesso. Più a est la spiaggia si allungava come una larga striscia di luce accecante. 
Sotto la punta dell’isola di Saaremaa la nave imboccò lo stretto che dà accesso al golfo di Riga. Boschi di conifere si profilarono all’orizzonte, infiammati dagli ultimi raggi del sole. 
Il capitano, vecchio e prudente, mise Huig, Melle e me di vedetta. Secondo Huig era arteriosclerotico:arteriosclerotico: erano secoli che nessun capitano gli ordinava più di scrutare il mare a occhio nudo. Dalla scoperta delle onde radio, ci si affidava al radar. Ma il capitano aveva visto sulla carta nautica così tanti punti esclamativi che non si sentiva affatto a suo agio. Il golfo di Riga era un campo minato. I sovietici avevano piazzato le mine quando le acque del golfo erano ancora vietate alle navi straniere, e lì erano rimaste.
Mi sporsi con Huig dal parapetto del ponte di prua. 
“Come se nel crepuscolo si potessero vedere le mine”, borbottò con il suo mozzicone di sigaretta rollata all’angolo della bocca. 
“Com’è fatta una mina?” chiesi. 
“Tonda e nera.” 
Il mare era dello stesso nero, e la carta riportava un secondo pericolo: acque contaminate da sostanze chimiche, divieto di balneazione. I russi avevano ridotto la zona in un bello stato! 
La nave avanzava al rallentatore. Non vibrava né beccheggiava, scivolava sull’acqua come una barca a vela. L’aria odorava di terra e di pini. La costa continuava a essere formata da due strisce: una chiara, la sabbia, e una scura, i boschi. Nessun faro, nemmeno un puntino luminoso. Sembrava di penetrare in un mondo segreto. 
Huig era stato a Riga una dozzina di anni prima. All’epoca tutte le navi straniere erano scortate da due pattugliatori della marina sovietica.Navigavano a neanche un miglio di distanza, i fari costantemente puntati sulla nave. 
“Quando camminavi sul ponte non osavi nemmeno grattarti il culo. Non si poteva mai sapere, magari pensavano che volevi sparare.” 
Dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, il golfo di Riga è aperto alle navi di tutte le nazionalità. Eppure Huig vide avvicinarsi una barca che evidentemente voleva sbarrarci la strada, “se non mi sono andati a puttane gli occhi”. Dalla foschia della sera emerse un pattugliatore della guardia costiera lettone.
 I lettoni non avevano creduto a quello che il timoniere della nostra nave aveva comunicato via radio: che eravamo vuoti e diretti in Estonia. Ma quando videro il Grachtborg alto sulla superficie dell’acqua, senza neanche un grammo di carico nella stiva, ci fecero segno che era tutto a posto.
La luna era appena spuntata quando la nave pilota ci affiancò. Huig e io avevamo terminato la nostra missione, il pilota sapeva di sicuro dov’erano le mine. Poco dopo mezzanotte la nave entrò nel porto di Pärnu e ormeggiò a una piccola banchina, proprio di fronte alla città. Eravamo gli unici nel porto. 
Nel cuore della notte venni buttato giù dal letto dal primo timoniere. La polizia di frontiera voleva controllare se la mia faccia corrispondeva alla foto sul mio passaporto. Mi vestii e andai nella cabina del capitano. Trovai tre musi lunghi che mi fissavano. I poliziotti avevano chiesto delle stecche di sigarette e il capitano li aveva coperti d’insulti. “Che stronzo”, borbottò il primo timoniere, “se non avesse voluto fare a tutti i costi il calvinista, a quest’ora ce ne staremmo a ronfare in cuccetta.” 
Fummo costretti a presentarci uno alla volta ai doganieri. Il mio interrogatorio fu il più lungo; delle nove persone a bordo ero l’unico passeggero. 
“Che cosa ci fa su questa nave?” mi chiese in inglese uno dei doganieri.
 “Volevo vedere il mar Baltico”, risposi assonnato. 
Perché, cos’ha di speciale?” 
“Secondo i marinai è il più bello di tutti.” 
“Mai notato.” 
“È la luce a essere speciale. Morbida e calda.” 
“La luce?” gli uomini si scambiarono un’occhiata. 
“In autunno si infiamma.” 
“E lei cosa fa di lavoro?” 
“Lo scrittore.” 
“Ah!” 
Un pazzo, ma non pericoloso. Mi sembrò di cogliere una punta di sarcasmo nel modo in cui mi timbrò il passaporto. 
La mattina dopo, lunedì, scesi a terra. Le case di Pärnu, quando non erano coperte di impalcature, erano appena state dipinte di giallo, di rosso, di grigio chiaro o di azzurro. Per strada si respirava odore di attivismo. Tra un quartiere e l’altro si stendevano parchi; il più grande arrivava fino alla spiaggia. Rimasi colpito dalle donne: avevano tutte il naso all’insù e le gambe che parevano coi trampoli. 
Le case ricordavano la Finlandia e la chiesa più rilevante era russo-ortodossa. Le donne sotto il porticato, alle quali si doveva pagare l’ingresso, avevano un foulard in testa, un golf e calzettoni di lana. Erano contadine. Comprai tre cartoline e la più vecchia tirò fuori dalla tasca una calcolatrice elettronica. La maneggiava con la disinvoltura di un ragazzino il computer. 
Sulla spiaggia, la stazione termale mi riportò ad atmosfere germaniche. Aveva l’eleganza degli hotel di Baden-Baden di fine Ottocento e vi si percepiva l’eco di passati splendori, pur se spenti da poco. Fino agli ultimi anni Ottanta ci venivano i funzionari sovietici per rimettersi in forze, e i fumatori più incalliti giuravano sui poteri taumaturgici dell’aria pura del Baltico.

Questo pezzo è tratto da:


Anime Baltiche
Jan Brokken
Iperborea, ed. 2014
Traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo
Collana "Narrativa"
Prezzo 19,50€


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