mercoledì 23 marzo 2016

[Dal libro che sto leggendo] Il fondamentalista riluttante

Fonte: Vogue

Questa è una lettura fatta nel fine settimana che ho adorato. Non è bello, ma molto di più. Scorre che è un piacere ed è un piacevolissimo diversivo dalle letture che sto facendo in questo periodo. Oltretutto non è grandissimo e si finisce in una giornata.

E' un dialogo fra un pakistano e un americano che si incontrano in un mercato di Lahore e che hanno l'occasione. Changez, ha vissuto in America per 5 anni e trova in questo incontro un'occasione per parlare di quei momenti. Più che un dialogo è quasi un monologo, visto che parla sempre lui, ma è così avvolgente la voce del protagonista che non annoia mai.

Ho questo libro da un sacco di tempo, credo guardando l'adesivo sul prezzo, di averlo preso nel 2011, e ricordo di averlo comprato con "Tempo di uccidere" che invece ho letto praticamente subito. Non so sinceramente perché non gli ho dato subito un'opportunità ma è un libro che consiglio caldamente a tutti perché, mi ripeto lo so, è davvero piacevole da leggere. Un po' come staccare la spina e immergersi in un mondo in cui, le regole della cortesia e della naturalezza, sono quelle che in occidente non si trovano più. A questo fanno da contorno riflessioni su avvenimenti relativamente recenti, come quello del 2001 delle torri gemelle, guardate da un punto di vista del tutto inconsueto.

Ne riparleremo in recensione,
buone letture,
Simona Scravaglieri


Capitolo primo  

Chiedo scusa, signore, posso esserle d’aiuto? Ah, vedo che l’ho allarmata. Non si faccia spaventare dalla mia barba: io amo l’America. Mi sembrava che lei stesse cercando qualcosa; anzi, più che cercando, lei pareva in missione, e dato che io sono nativo di questa città e parlo la sua lingua, ho pensato di offrirle i miei servigi. 
Come ho fatto a capire che lei è americano? No, non dal colore della pelle; in questo paese abbiamo un ampio spettro di coloriti, e il suo non è raro tra le popolazioni alla nostra frontiera nordoccidentale. E non è stato nemmeno l’abito a tradirla; un turista europeo avrebbe potuto facilmente acquistare a Des Moines il suo stesso abito con lo spacco singolo e la sua camicia button-down. Certo, i capelli rasati e l’ampio torace –il torace, direi, di un uomo che fa regolarmente palestra, e ai manubri solleva senza sforzo duecento chili –sono tipici di un certo tipo di americano; ma di nuovo, gli sportivi e i soldati di ogni dove tendono a somigliarsi tutti. È stato piuttosto il suo contegno a permettermi di identificarla, e non lo prenda come un insulto –vedo che la sua espressione si è indurita –ma come una semplice osservazione. Allora, mi dica, cosa stava cercando? Di certo a quest’ora del giorno solo una cosa può averla condotta al vecchio bazar di Anarkali –così chiamato, come forse sa, in onore di una cortigiana murata viva per aver amato un principe –ed è la ricerca della perfetta tazza di tè. Ho indovinato? Mi permetta dunque, signore, di consigliarle il mio locale preferito. Ecco, è questo. Le sedie di metallo non sono granché imbottite, i tavoli di legno sono altrettanto grezzi, ed è, al pari degli altri, a cielo aperto. Ma le assicuro che la qualità del tè è ineguagliabile. 
Preferisce sedersi qui, con le spalle rivolte al muro? Benissimo, anche se così trarrà meno beneficio dalla brezza intermittente che, quando soffia, rende più gradevoli questi pomeriggi caldi. Non si toglie la giacca? Così formale? Be’, questo non è tipico degli americani, almeno non nella mia esperienza. E la mia esperienza è notevole: ho trascorso quattro anni e mezzo nel vostro paese. Dove? Ho lavorato a New York, e prima ho frequentato il college in New Jersey. Sí, ha indovinato: a Princeton. Che intuito! Cosa pensavo di Princeton? Be’, per rispondere a questa domanda devo raccontarle una storia. Appena arrivato mi guardai intorno e osservando gli edifici gotici –più recenti, scoprii in seguito, di molte moschee di questa città, ma antichizzati dai trattamenti a base di acidi e dal sapiente lavoro degli scalpellini –pensai, questo è un sogno diventato realtà. Princeton mi dava la sensazione che la mia vita fosse un film di cui io ero la star, e che tutto fosse possibile. Ho accesso a questo splendido campus, pensavo, a professori che sono titani nel proprio campo e a studenti che sono principi della filosofia in gestazione. 
Ero stato, devo ammetterlo, esageratamente generoso nelle mie idee sullo standard degli studenti. Erano quasi tutti intelligenti, questo sì, e molti erano anche brillanti, ma mentre io ero uno dei due soli pakistani del mio corso, due su una popolazione di piú di cento milioni di anime, badi bene, gli americani erano il frutto di una scrematura condotta su percentuali molto meno clamorose. Erano un migliaio i suoi compatrioti le cui iscrizioni erano state accettate, cinquecento volte i miei, pur essendo la popolazione del vostro paese soltanto il doppio di quella del mio. Di conseguenza i non americani tra noi tendevano in media a far meglio degli americani, e nel mio caso giunsi all’ultimo anno senza aver ricevuto un solo voto al di sotto del massimo. 
Col senno di poi capisco bene la potenza di quel sistema, pragmatico ed efficace come molte altre cose negli Stati Uniti. Noi studenti internazionali venivamo da ogni angolo del globo, ed eravamo vagliati non solo attraverso i severi test standardizzati, ma anche attraverso ulteriori selezioni minuziosamente personalizzate: colloqui, prove scritte, raccomandazioni, che permettevano di identificare i migliori e i più promettenti tra noi. Agli esami in Pakistan ero stato tra i migliori, inoltre ero un giocatore di calcio abbastanza bravo da competere nella squadra universitaria, cosa che feci prima di infortunarmi al ginocchio nel corso del secondo anno. Agli studenti come me venivano concessi visti e borse di studio, un totale sostegno finanziario, ed eravamo, badi bene, ammessi nei ranghi della meritocrazia. In cambio ci si aspettava che ponessimo i nostri talenti al servizio della vostra società, la società di cui entravamo a far parte. E perlopiú eravamo ben lieti di farlo. Io certamente, almeno all’inizio. 
Ogni autunno Princeton si sollevava la gonna per i reclutatori delle grandi aziende che arrivavano al campus e, come dite voi negli Stati Uniti, mostrava un po’ di pelle. La pelle mostrata da Princeton era una bella pelle, naturalmente, giovane, eloquente e quanto mai invitante, ma anche in mezzo a tutta quella pelle, nel corso dell’ultimo anno mi resi conto di essere qualcosa di speciale. Ero un seno perfetto, se vuole, un seno abbronzato, succulento, apparentemente ignaro della forza di gravità, e confidavo di poter ottenere qualunque lavoro desiderassi. 
Eccetto uno: Underwood Samson & Company. Mai sentiti nominare? Erano una società di consulenza. Stabilivano per i loro clienti il valore di un’azienda da acquisire, e lo facevano, si diceva, con una precisione inquietante. Erano piccoli, in pratica una bottega che impiegava un numero ristrettissimo di persone, e pagavano bene, offrivano al neolaureato un salario di partenza di più di ottantamila dollari. Ma soprattutto garantivano a chi ci lavorava un robusto set di competenze e un’esperienza lavorativa di prim’ordine, tanto che dopo due o tre anni trascorsi lì come analista, ti era praticamente garantita l’ammissione alla Harvard Business School. Per questo nel 2001 più di cento tra i laureati di Princeton avevano mandato i propri voti e curriculum alla Underwood Samson. Otto vennero selezionati –per un colloquio, ovviamente, non per un lavoro –e uno di loro ero io.

Questo pezzo è tratto da

Il fondamentalista riluttante
Mohsin Hamid
Einaudi Editore, ed. 2008
traduzione di Norman Gobetti
Collana "Super ET"
Prezzo 9,50€


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2 commenti:

  1. Come sai già, anche a me il libro è piaciuto moltissimo. Il film che ne è stato tratto, invece, è un'altra cosa.

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  2. Questo tuo commento mi ricorda che devo cercare questo film... a questo punto mi avete fatto salire la curiosità... Certo che si vede proprio che io la tv e il cinema non li frequento proprio, nemmeno lo sapevo che ci avessero fatto un film! XDDD
    Buona giornata mia cara!

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