Fonte: http://m.imdb.com/title/tt0050650/mediaviewer/rm205141760 |
E pure le cose belle ad un certo punto devono finire! Dopo avermi ammaliata con "La lotteria" di cui presto parleremo, con "Lizzie", Shirley non è andata altrettanto bene. La prima parte è anche decisamente ben strutturata. La storia c'è, ci sono quattro Elisabeth -e non tre come dice la sinossi-, c'è una zia saccente, e anche egocentrica, che si è incaricata di gestire la nipote fino alla maggiore età dopo la morte dei genitori e in particolare della sorella e madre di Lizzie, c'è un medico Wright che l'ha in cura per capire l'origine degli strani mal di testa della giovane e per capire cosa si nasconde dietro quelli che all'apparenza sembrano cambiamenti d'umore e invece sono personalità ben distinte. Ci sono proprio tutti gli elementi per creare una certa tensione. Peccato, e lo dico con il cuore che mi sanguina - è il primo Adelphi che proprio non va-, che ad un certo punto non si capisce poi molto di quello che succede e la tensione va a farsi benedire.
Le personalità si sovrappongono e bisticciano fra loro e, sebbene forse nel film è più facile far capire le sequenze dei piani di sovrapposizione delle varie Elisabeth che litigano fra loro, Shirley non è altrettanto brava a descriverla e l'insieme perde di qualità. La zia vaneggia, il medico diventa un padre noioso, non si sa mai con e di che donna si parli, perché tutte le Elisabeth sanno imitare le altre. Persino il "particolare scatenante" occupa lo spazio di due righe, non sto scherzando ho girato le pagine tre o quattro volte alla ricerca di altre notizie, e non basta. La differenza fra le donne non è così marcata, delle quattro alla fine il punto centrale è occupato solo da due. Il resto è annacquato, sbiadito e l'insieme perde di tensione e di mistero, tanto che, per leggere le ultime cinquanta pagine ci ho messo tre giorni. Davvero un peccato.
Ma sarei curiosa di capire a chi è piaciuto cosa in particolare è piaciuto, perchè non ho trovato grandissime ragioni per promuoverlo. Diciamo che ci penserò su... ma non credo che andrà più in alto di una sufficienza scarsa. Davvero un peccato. Però vi lascio uno stralcio del primo capitolo.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
1
ELIZABETH
Anche se il museo godeva di notevole fama in quanto sede di un sapere immenso, le sue fondamenta avevano cominciato a cedere. Così si era prodotta nell’edificio un’inclinazione verso ovest, bizzarra e fastidiosamente vistosa, e nelle giovani donne della città, le cui energiche questue avevano sostentato il museo, una sconfinata vergogna e la tendenza a incolparsi a vicenda. Al tempo stesso il cedimento aveva divertito non poco il personale, le cui diverse attività erano state alterate dalla decisa pendenza assunta dai pavimenti. Il responsabile del dinosauro, in effetti, aveva descritto con molto spirito la disposizione quasi fetale assunta dalle auguste ossa a lui affidate; e il numismatico, i cui esemplari mostravano la tendenza a scivolare battendo gli uni contro gli altri, fu sentito proferire commenti –fino alla noia –sugli armoniosi accostamenti venutisi così a creare. Il naturalista che si occupava degli uccelli impagliati e l’astronomo, le cui vite potevano quasi prescindere dall’equilibrio terreno, non risentirono in alcun modo del cedimento, se si eccettua la necessità di procedere come imboccando una curva inclinata per bilanciare il pavimento sghembo; camminare era, in ogni caso, un’attività poco familiare a entrambi, giacché l’uno s’interessava solo al volo, e l’altro al ruotare pago di sé delle sfere. Il dottissimo professore di archeologia, percorrendo distratto i corridoi obliqui, era stato visto mentre contemplava speranzoso le disgregate fondamenta. L’ingegnere e l’architetto, insieme alle stizzite cittadine, tentarono di dare la colpa in primo luogo alla scarsa qualità dei materiali utilizzati per la costruzione, in secondo luogo al peso eccezionale di alcune delle antichità ospitate all’interno; sul quotidiano locale un editoriale criticò la direzione del museo, la quale aveva consentito che le raccolte di meteoriti e minerali e un intero arsenale della Guerra Civile, disseppellito appena fuori città e comprendente due cannoni, venissero collocati nella parte occidentale dell’edificio; l’articolo sottolineava in tono asciutto che, se quell’ala avesse accolto invece l’esposizione di firme celebri e quella di abiti storici, forse le fondamenta non avrebbero ceduto o, quanto meno, non mentre i benefattori del museo erano ancora in vita. Poiché il quotidiano –contingente e non durevole –non era ammesso al di sotto del terzo piano, ovvero quello degli uffici, i cannoni e il resto poterono conservare la loro maldestra collocazione in barba agli editoriali, benché gli impiegati del terzo piano continuassero a leggere tutti i giorni le vignette e scorressero la prima pagina sperando di scoprirci le modalità della propria morte. La gente del terzo piano era portata alla riflessione, e credeva quasi a tutto quello che leggeva. In ciò, naturalmente, differiva poco o punto dagli eruditi residenti del primo e del secondo piano, i quali vivevano fra le vestigia imperiture del passato e facevano argute battutine sulla disintegrazione.
Elizabeth Richmond occupava un cantuccio in uno degli uffici; quella era la sezione del museo più vicina, per così dire, alla superficie, dove la corrispondenza col vasto mondo esterno veniva condotta liberamente, e dove meno trovavano protezione i tipi studiosi e tremebondi. Seduta alla sua scrivania lì all’ultimo piano, nell’angolo più occidentale, giorno dopo giorno Elizabeth rispondeva alle lettere che offrivano al museo raccolte di fiori pressati o vetusti bauli da marinaio riportati dal Catai. Non è dimostrato che il suo equilibrio personale venisse alterato dalla pendenza del pavimento, né si poté dimostrare che fosse stata lei a svellere il palazzo dalle fondamenta; è innegabile tuttavia che l’uno e l’altro cominciarono a smottare all’incirca nello stesso periodo. Il pensiero automatico di ogni persona collegata al museo, fino al paleontologo, era stato quello di riparare, rabberciare
raccolte di meteoriti e minerali e un intero arsenale della Guerra Civile, disseppellito appena fuori città e comprendente due cannoni, venissero collocati nella parte occidentale dell’edificio; l’articolo sottolineava in tono asciutto che, se quell’ala avesse accolto invece l’esposizione di firme celebri e quella di abiti storici, forse le fondamenta non avrebbero ceduto o, quanto meno, non mentre i benefattori del museo erano ancora in vita. Poiché il quotidiano –contingente e non durevole –non era ammesso al di sotto del terzo piano, ovvero quello degli uffici, i cannoni e il resto poterono conservare la loro maldestra collocazione in barba agli editoriali, benché gli impiegati del terzo piano continuassero a leggere tutti i giorni le vignette e scorressero la prima pagina sperando di scoprirci le modalità della propria morte. La gente del terzo piano era portata alla riflessione, e credeva quasi a tutto quello che leggeva. In ciò, naturalmente, differiva poco o punto dagli eruditi residenti del primo e del secondo piano, i quali vivevano fra le vestigia imperiture del passato e facevano argute battutine sulla disintegrazione. Elizabeth Richmond occupava un cantuccio in uno degli uffici; quella era la sezione del museo più vicina, per così dire, alla superficie, dove la corrispondenza col vasto mondo esterno veniva condotta liberamente, e dove meno trovavano protezione i tipi studiosi e tremebondi. Seduta alla sua scrivania lì all’ultimo piano, nell’angolo più occidentale, giorno dopo giorno Elizabeth rispondeva alle lettere che offrivano al museo raccolte di fiori pressati o vetusti bauli da marinaio riportati dal Catai. Non è dimostrato che il suo equilibrio personale venisse alterato dalla pendenza del pavimento, né si poté dimostrare che fosse stata lei a svellere il palazzo dalle fondamenta; è innegabile tuttavia che l’uno e l’altro cominciarono a smottare all’incirca nello stesso periodo. Il pensiero automatico di ogni persona collegata al museo, fino al paleontologo, era stato quello di riparare, rabberciare e ricostruire, anziché erigere un nuovo edificio in un sito diverso, e i carpentieri prima di mettere mano al restauro avevano ritenuto necessario aprire una sorta di pozzo che corresse per tutta l’altezza dell’edificio, dal tetto alle cantine, scegliendo come punto per entrarvi l’angoletto di Elizabeth al terzo piano. Al secondo il buco finì per passare al di là di un sarcofago, e al primo, non senza una certa logica, dietro una porticina con la targa «Vietato l’ingresso»; l’ufficio di Elizabeth non offriva alcuna possibilità di occultamento, così un lunedì mattina, quando arrivò al lavoro, scoprì che giusto alla sinistra della sua scrivania, e alla portata del gomito quando batteva a macchina, il muro era stato rimosso mettendo a nudo lo scheletro del palazzo. Il mattino in questione fu lei la prima persona a entrare nella stanza; appese in bell’ordine il cappotto e il cappello all’appendiabiti accanto alla porta, e poi attraversò l’ufficio e guardò giù dal buco, avvertendo una repentina vertigine e la tentazione quasi irresistibile di buttarsi giù, nelle sabbie primordiali su cui presumibilmente sorgeva il museo. Dal fondo le giunse una debole eco: erano le voci delle guide al primo piano; era giorno di apertura e le guide a quanto pareva si stavano pulendo le unghie. Invece la voce querula e ben più nitida che sembrava venire dal secondo piano doveva essere quella dell’archeologo il quale, fuori dal sarcofago, si lamentava della corrente d’aria. Elizabeth, scrutando nel pozzo, sospirò perché aveva mal di testa, e perché da un po’ di tempo ce l’aveva quasi sempre; poi si girò verso la scrivania contemplando la lettera in cui si offriva al museo un grattacielo in miniatura realizzato con i fiammiferi. Il tempo di arrivare alla terza lettera in giacenza, e la leggera sensazione festiva suscitata dalla mancanza della quarta parete era svanita quasi completamente. Appena l’ebbe letta, si alzò e tornò a guardare nella cavità, poi si rimise seduta pensando: ho mal di testa. «cara lizzie» diceva la lettera «adesso il tuo scemo paradiso degli allocchi è finito per sempre occhio che arrivo lizzie occhio che arrivo e non fare niente di brutto perché ti acchiappo e te la faccio vedere io e non pensare che non so quello che fai lizzie perché io vedo tutto –sporchi pensieri lizzie sporca lizzie».
Questo pezzo è tratto da:
Lizzie
Shirley Jackson
Edizioni Adelphi, ed. 2014
Traduzione di Laura Noulian
Collana "Fabula"
Prezzo 20,00€
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No!Ma non mi dire! Sai quante volte l'ho messo e tolto dal carrello del Libraccio?? E ogni volta mi pentivo per averlo tolto.
RispondiElimina"Abbiamo sempre vissuto nel castello" mi era piaciuto parecchio (preso in prestito bibliotecario). Avevo anche pensato di regalartelo, ma con te è come regalare fiori ad un fioraio...