Fonte: LettureSconclusionate |
Avete presente il Dickens di "Grandi speranze" o "Oliver Twist"? Ecco, cancellate per un attimo quell'uomo e tornate a quello de "Il circolo Pickwick", la cui ironia non rimane latente e nemmeno scompare dietro la denuncia sociale. Il nostro scrittore, in questo libro di viaggio, è veramente diverso: ironico, acuto, sarcastico, attento al particolare e al raffronto dei due mondi: il vecchio e il nuovo. Quando Dickens partì dall'Inghilterra era davvero animato dalle più grandi e lodevoli intenzioni di far conoscere l'America al netto del pensiero prevenuto dell'epoca.
Poi però in America, nonostante ci fosse una grande presenza di fan del nostro eroe, c'è il pensiero, da parte di alcuni, che egli non sia andato lì a visitare usi e costumi del nuovo mondo ma a rivendicare i diritti sui suoi libri stampati "in nero", che volesse far soldi e prendesse appunti per pubblicare l'ennesimo testo contro gli americani - cosa che non è mai stata nelle intenzioni dello scrittore -. Quindi, se da Boston a New York Dickens si sente a casa e benvoluto, New York gli riserva qualche delusione grazie alla lobby degli editori e dei giornalisti che si oppone all'esimio ospite pubblicando articoli che lo mettono in ridicolo o con dichiarazioni false.
C'è un'interessante, e quantomai accurata, introduzione di Michael Slater, che vi consiglio di leggere (nell'edizione che vi segnalo io, c'è!), ma la rivelazione di questo libro è che stupisce la facilità e il divertimento che si trae da una lettura così interessante firmata dalla penna dickensiana. Da un lato è visibile la voglia di fare la differenza nella letteratura di genere e dall'altra le stoccate a questi "fannulloni", come li chiama nell'introduzione originale del libro, non vengono risparmiate. E' stata una vera sorpresa di cui riparleremo in recensione!
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Capitolo primo
Partenza
Non dimenticherò mai l'espressione di stupore. per quanto seria e per tre quarti divertita, che aveva il mio viso quando, la mattina del 3 gennaio 1842, aprii la porta e mi affacciai nella « cabina di lusso » del piroscafo postale Britannia, registrato a 1.200 tonnellate di stazza ed in partenza per Halifax e Boston.
Che quella fosse la cabina assegna al « Signor Charles Dickens e signora » anche la mia mente turbata lo comprendeva grazie a un biglietto proclamante il fatto, appuntato su un sottile coltrone, destinato a ricoprire un sottilissimo materasso disteso in un luogo all'apparenza irraggiungibile. La mia mente non poteva rendersi conto, almeno per il momento, che proprio quella fosse la cabina di lusso intorno alla quale il « Signor Charles Dickens e signora » avevano discusso giorno e notte per quattro mesi; Che proprio quella fosse la piccola, raccolta cameretta, con almeno un piccolo divano, che il forte spirito profetico di Charles Dickens aveva prevista e che la Signora, con senso delle proporzioni splendidamente misurato, aveva predetto provvista soltanto di due grandi armadi piazzati in qualche angolo remoto (armadi che avrebbero potuto passare dalla porta con la facilità con la quale la giraffa entra in un vaso di fiori). Impossibile connettere la stravagante ed impraticabile speie di scatola che avevamo davanti con l'immagine delicata e graziosa, per non dire splendida, magione dipinta da mano maestra negli annunci pubblicitari della compagnia di navigazione, appesi negli uffici dell'agenzia londinese. Impossibile non pensare che quella cabina di lusso fosse soltanto un piacevole scherzo del comandante della nave, inventato apposta per far apprezzare di più la vera cabina di lusso dove fra poco ci avrebbero fatti entrare. Così, mi lasciai cadere su una specie di seggiolotto di crine e mi rivolsi, con uno sguardo privo d'espressione, verso alcuni amici che ci avevano accompagnati a bordo, e facevano mille smorfie cercando di infilarsi attraverso la piccola porticina della nostra cabina di lusso.
Veramente, se non fossimo state persone d'inguaribile ottimismo, già quello che avevamo intravisto scendendo sottocoperta avrebbe dovuto prepararci al peggio. Il fantasioso artista che ho già ricordato aveva dipinto in quel suo capolavoro il salone immenso, arredato con un lusso - come direbbe la signora Robbins - più che orientale, e pieno (ma non zeppo) di signore e signori dall'aspetto vivace e soddisfatto. Ora, per raggiungere la nostra cabina eravamo entrati dal ponte in un lungo e stretto stanzone, vagamente simile a un grande carro funebre con finestrine nei fianchi. In cima c'era una melanconica stufa con tre o quattro freddolosi camerieri intorno, e sui lati, per tutta quell'allucinante lunghezza si stendevano due lunghissime tavole su ognuna delle quali una mensola, appesa al basso sffitto e pina di bicchieri e d'ampolle, incuteva lugubri previsioni di mari tempestosi. Lì per lì io non mi accorsi di nulla, ma osservai che un mio amico, quello che si era occupato di sistemarci per il viaggio, entrando impallidì, dette indietro d'un passo e, battendosi la mano sulla fronte, mormorò « Impossibile! » o qualcosa di simile. Ma con gran forza d'animo si riprese e, dopo un colpetto di tosse, con un sorriso spettrale che mai dimenticherò e gli occhi vaganti per le pareti, gridò: « Cameriere, queso è il tinello, vero? ». Prevedendo la risposta, tutti capimmo la sua agonia, tanto spesso ci aveva parlato del salone. Infatti, era rimasto così persuaso da quel quadro da ripeterci ad ogni occasione che per farsi un'idea di quel salone bisognava prendere un'ordinaria sala da da pranzo e moltiplicarla almeno per sette. E quando il cameriere rispose dicendo la verità, la spietata, nuda verità: « Signore, questo è il salone » lo vedemmo piegare sotto il duro colpo.
quando alcuni amici, abituati a vedersi quasi ogni giorno, stanno per dividersi e sta per calare fra loro il sipario di miglia e miglia di mari immensi e tempestosi, non si può certo permettere che un momentaneo disinganno getti un'ombra sulle poche ore liete che ancora rimangono. Così ogni sorpresa si muta naturalmente in sonore risate, come quelle alle quali mi abbandonai restando seduto sul seggiolotto di crine. Non eran passati nemmeno due minuti, che ci eravamo già tutti persuasi che quella cabina era il più lieto e piacevole soggiorno possibile, e che solo un centimetro in più di larghezza avrebbe rovinato tutto. Si scoprì che lasciando la porta appena aperta e strisciando dentro come serpenti ci si stava perfino in quattro, utilizzando anche la doccia. Si notò come era ariosa; come ci fosse un bel portello da tener spalancato tutto il giorno (tempo permettendolo); come l'oblò collocato proprio sopra lo specchio, avrebbe reso gradevole l'operazione di radersi (purché la nave non ballasse troppo) e si concluse che forse la cabina era piuttosto larga. Io resto comunque del parere che, anche levando le due cuccette sovrapposte (di più stretto, per dormire, cè solo la bara), essa non era più grande di quelle carrozzelle con la porta posteriore famose per scaraventare nella strada, come sacchi di carbone, i loro passeggeri.
Questo pezzo è tratto da:
America
Charles Dickens
Feltrinelli editore, ed. 1996
Traduzione Maria Buitoni, Gianfranco Corsini, Gianni Miniati
Collana "Universale Economica Feltrinelli"
Prezzo 9,00€
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