Fonte: Mush Room Qualunque |
Oggi parliamo di un libro che in effetti è stato già letto e anche recensito venerdì. Lavoro veramente interessante nel suo incastro fatto di continui contrasti fra personaggi e situazioni. In questo caso, come potrete leggere qui sotto, la scrittura scorrevole aiuta a prendere confidenza anche con il periodo. Siamo in quell'epoca in cui la chiesa gestisce il suo potere agendo sulle credenze e le leggende dei contadini.
Il rogo di una donna diventa un esempio, non tanto di salvezza quanto di morte. Il messaggio è chiaro, bisogna chinarsi alla legge dell'altissimo dettata dal clero altrimenti si verrà dannati in terra e nei cieli e, sebbene oggi questo ci faccia sorridere, nelle popolazioni ignoranti era un gran deterrente. Uno degli aspetti che viene comunque fuori e che difficilmente viene trattato nei libri è che anche il potere clericale non era così consapevole di quello che faceva. Pure nelle gerarchie si cercava di mantenere un livello basso di istruzione. Ai monaci bastava lavorare e saper leggere i salmi, ma come ci racconta Ginzburg per il suo Menocchio, l'istruzione era diversa da come la concepiamo noi.
Era una conoscenza cieca e non illuminata che serviva solo a far fare azioni che venivano ripetute e che non doveva permettere al pensiero di andar oltre. Un esempio lo abbiamo qui. Frati che si organizzano per fare un rogo uccidendo una donna che condannano come "prostituta del diavolo". Nessuno si domanda quali incartamenti o quali prove, la sessione di interrogatorio non è aperta a tutti, proprio come succede per il Menocchio. Sono secoli differenti, quello che racconta Ginzburg e quello che racconta Pantò, ma i comportamenti sono similari.
Un ottimo libro da leggere e da osservare attentamente per il suo modo di trattare la storia perché questa sia verosimile nel periodo in cui è ambientata.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
26 giugno 1762
E se qualcuno non fu trovato scritto
nel libro della vita,
fu gettato nello stagno di fuoco.
Apocalisse 20, 15
Al crepuscolo
Sei, sei, sei, sei, sei, sei. Sei, sei, sei, sei, sei, sei. Sei, sei, sei, sei, sei, sei… Cento volte sei, più dieci volte sei, più una volta sei. Contò i passi meticolosamente, accostando ogni volta il tallone alla punta dell’altro piede. Girò in tondo, seguendo un cerchio ampio, immaginario ed eterno nella mente, alla ricerca della perfezione perpetua. Alla fine, si fermò a osservare la legna accatastata e i ramoscelli disposti in modo ordinato e impeccabile al centro. «Un cerchio perfetto di seicentosessantasei passi» si disse soddisfatto il frate, descrivendo la parabola con un rapido gesto del braccio. «La porta d’ingresso per l’inferno è pronta.» Fra’ Giuseppe Pardo da Arona, elemosiniere del convento di san Calocero in Monte, sfregò soddisfatto i palmi delle mani sulle guance, fendendo con le dita la barba incolta. Poi li unì in preghiera, sfiorandosi la punta del naso con gli indici e poggiando il mento sui pollici. Quindi, orientò lo sguardo verso il cielo fuligginoso e rossastro al crepuscolo di una giornata afosa. Un ricordo di oltre cinquant'anni prima gli esplose all'improvviso nella mente, facendo contrarre tutte le grinze del volto solcato dall'età. Quel pulviscolo sanguigno, simile a vapore proveniente dagli inferi, era stato il segno premonitore di un terribile terremoto. Il vento furioso che si era poi scatenato, il rimbombo squassante, la terra che si era spaccata sotto ai suoi piedi e persino le fiamme che emergevano dal suolo avevano inciso segni indelebili nella sua anima di bambino, già allora poco propenso al coraggio e all'avventura.«Non è possibile» sbottò a un tratto fra’ Giuseppe scacciando le paure. «Stasera non è proprio possibile che accada. Il diavolo avrà già il suo lauto pasto.» Infatti, pochi attimi dopo prese a soffiare una brezza lieve e tiepida, la nebbiolina incominciò a sciogliersi nel vuoto profondo della notte e il rosso si stinse impallidendo e diluendosi nel bianco terso di una luna piena. Un urlo stridulo e prolungato attraversò le mura del convento e si propagò tra i boschi. Il frate sobbalzò voltandosi di scatto, si separò definitivamente dalle tracce dei suoi ricordi e decise di percorrere il cortile e rientrare. Camminava spedito, sussurrando una nenia funebre, intonando ripetutamente una frase che aveva letto da qualche parte e che gli sembrava particolarmente appropriata alle circostanze: «Strega, strega sei. Strega, sei la prostituta del diavolo. Strega, strega sei. Strega, sei la prostituta del diavolo…». A metà strada, un nuovo grido animalesco risuonò nelle sue orecchie, interrompendo quel ritornello sguaiato. Poi un altro ancora piovve dall'alto e si diffuse in rivoli sonori nei terreni intorno. Risvegliò l’ululare dei lupi e rimpiazzò il silenzio desolato delle campagne di quella parte del Ducato di Milano, dando il via a un’eco prolungata e monotona in cui non si distinguevano le impronte vocali dell’uomo da quelle delle bestie. Il convento di san Calocero in Monte emerse dalle ultime ombre della nebbia, chiaro e imponente sulla collina. Non solo le ampie volte e le colonne del loggiato, i tetti rossi spioventi, le mura candide, ma anche il solitario campanile e la sua punta protesa verso il cielo e verso l’Altissimo si stagliarono netti sul fondale della scena, dominato dal buio della notte. «Fratello mio, è la notte giusta per la festa dei lupi» disse il frate guardiano non appena fra’ Giuseppe Pardo da Arona si fu avvicinato al portone d’ingresso del convento. «Già, la festa dei lupi e la festa dei diavoli» rispose l’altro facendosi il segno della croce e guardando ancora una volta il cielo. Quell'ombra di timore ancestrale svanì subito dal suo volto, confortato dal fatto che i vapori rossastri avevano davvero lasciato spazio alla luna piena e splendente. «La pira per bruciare l’eretica è pronta?» domandò il frate guardiano fissando l’oscurità del cielo. «È perfetta, come ogni anno!» ribatté in tono rassicurante il frate elemosiniere. «E quest’anno c’è anche la strega» sorrise soddisfatto il frate guardiano. In effetti, non era capitato tutti gli anni ai frati domenicani, e agli inquisitori ospitati nel convento, di poter officiare quel rito tradizionale e crudele di purificazione, che si ripeteva dal 1592. Spesso era mancata la protagonista, perché il mondo non era forse più così popolato di streghe, oppure perché le eretiche si erano fatte furbe. In quei casi veniva simbolicamente bruciata un’effigie. Ma non era certo la stessa cosa. Solo la carne arsa di una strega, ingoiata dallo stagno di fuoco, porta d’ingresso dell’inferno, poteva purificare dai mali e dai peccati del mondo dei vivi. « La malerba l’è quèla che cress püssee… » affermò, mostrando un ghigno sdentato, fra’ Giuseppe. Poi chiese: «Ha finalmente partorito quella baldracca del diavolo?» mentre gli ritornava in mente la nenia che aveva canticchiato sino a qualche minuto prima. Proprio in quell'istante, un nuovo urlo risuonò dalle stanze del primo piano dell’edificio. «Non so» sussurrò timoroso il frate guardiano, sfiorando il crocefisso che portava al collo. «Forse è meglio che andiate a controllare di persona.» Fra’ Giuseppe si voltò lentamente, diede un ultimo sguardo alla pira ancora fredda e scura nel cortile, immaginò le fiamme che consumavano il peccato, e attraversò la soglia. Si lasciò alle spalle gli echi dei lupi che incominciavano a vagare nervosamente per i boschi. Il frate, prima di chiudere il portone, si fece il segno della croce in un gesto più superstizioso che devoto. Gli era sembrato, infatti, di veder ardere nel buio della notte tanti piccoli occhi di brace. Le bestie si erano forse avvicinate alla legna accatastata, pregustando uno spettacolo insolito e, magari, sperando in un pasto inaspettato. Intanto, annusavano l’aria e puntavano il muso e i denti aguzzi verso il cielo.
Questo pezzo è tratto da:
Il cerchio del Diavolo
Giuseppe Pantò
Rizzoli Editore e Amazon Eu, ed. 2014
Solo in ebook
Prezzo 4,99€
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