Fonte: Blog Xiute |
Mi preme dare un avvertimento a chi sta leggendo la trilogia. Qualora stiate leggendo Divergent, il pezzo riportato oggi potrebbe rivelarsi uno spoiler, pertanto vi consiglio di non andare oltre il commento.
Detto ciò siamo a cinque giorni dai "fattacci" - non ve lo posso dire se non rischiando lo spolier! - che hanno generato la fine di Divergent il primo volume della saga. I personaggi principali li conosciamo già tutti se abbiamo letto il libro precedente. L'ansia di Beatrice è quella di non lasciare a metà un "lavoro già iniziato" e quindi è costretta a prendere delle decisioni, a volte, molto poco ponderate.
I toni con cui è scritto questo libro sono gli stessi di Divergent, parla in prima persona la protagonista attorno alla quale satellitano tutto il gruppo di personaggi non totalmente dipendenti da chi è al centro dell'azione. Verrano svelati nuovi segreti e, strano a dirsi, hanno una certa coerenza con il libro precedente.
Come detto già in precedenza, questa trilogia mia ha un po' stupita per un aspetto dei suoi contenuti che però, nonostante il libro sia coerente con il precedente, qui un po' si perdono lasciando il passo a quelli semplicemente più educativi come il sentimento di giustizia, l'amicizia e il sacrificio per l'ideale. Non sono di certo "due cosette", ma i presupposti da cui si partiva con il primo libro, sembra per un attimo lasciare il passo alla storia e alle rivendicazioni, non sempre lucide, dei protagonisti.
Ma non preoccupatevi c'è anche un altro volume, chiaramente già finito anche questo visto che è molto scorrevole.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Io ti ho avvertito e lo rifaccio...sei a rischio di spoiler! Poi non dire che non ti avevo avvertito!
CAPITOLO UNO
Mi sveglio con il suo nome sulle labbra. Will. Prima ancora di aprire gli occhi, lo vedo di nuovo crollare a terra. Morto. Sono stata io. Tobias si accovaccia davanti a me, appoggiandomi una mano sulla spalla sinistra, mentre il treno sobbalza sui binari. Marcus, Peter e Caleb sono vicini all’entrata. Faccio un respiro profondo e trattengo l’aria nella speranza di alleviare la pressione che mi sta montando nel petto. Soltanto un’ora fa, niente di quello che è successo mi sembrava reale. Ora invece sì. Espiro, ma la pressione non se ne va. «Forza, Tris» mormora Tobias, guardandomi negli occhi. «Dobbiamo saltare.» È troppo buio per capire dove ci troviamo, ma il treno sta procedendo in discesa quindi dobbiamo essere nei pressi della recinzione. Tobias mi aiuta ad alzarmi e mi accompagna verso il portellone aperto. Gli altri saltano giù, uno dopo l’altro: prima Peter, poi Marcus, infine Caleb. Prendo la mano di Tobias. Il vento è più forte sulla soglia della carrozza e mi spinge verso l’interno, come una mano che voglia riportarmi verso la sicurezza. Ci lanciamo nel buio. Il violento impatto con il suolo mi provoca una fitta alla spalla, dove sono stata ferita da un colpo di pistola. Mi mordo il labbro per non urlare e cerco mio fratello. «Tutto bene?» gli chiedo. Si sta massaggiando un ginocchio, seduto sull’erba pochi metri più in là. Annuisce. Lo sento tirare su con il naso, come se stesse nascondendo le lacrime, e devo voltarmi dall’altra parte. Siamo sul prato antistante la recinzione, a diversi metri dal sentiero sconnesso, lungo il quale i carri dei Pacifici trasportano il cibo in città, e dal cancello attraverso cui escono. Adesso, però, l’inferriata è chiusa e non sappiamo come fare a oltrepassarla: la recinzione ci sovrasta, troppo alta e cedevole per poterla scavalcare, troppo robusta per poterla abbattere. «Dovrebbero esserci delle guardie Intrepide, qui» osserva Marcus. «Dove sono finite?» «Probabilmente erano sotto simulazione» dice Tobias «e adesso sono…» esita «chissà dove, a fare chissà cosa.» Abbiamo interrotto la simulazione – ho ancora l’hard disk nella mia tasca posteriore – ma non ci siamo fermati a vedere che cos’è successo dopo. Che ne è stato dei nostri amici, dei nostri compagni, dei nostri capi, delle nostre fazioni? Non c’è modo di saperlo. Tobias si avvicina a una piccola scatola di metallo sulla destra del cancello e la apre. Dentro c’è una tastiera. «Speriamo che gli Eruditi non abbiano pensato di cambiare la combinazione» dice mentre compone una serie di numeri. Si ferma all’ottavo e l’inferriata si apre con uno scatto. «Come fai a conoscerla?» gli domanda Caleb. La sua voce vibra di un’emozione così intensa che quasi lo strozza. «Ho lavorato al centro di controllo degli Intrepidi, monitoravo il sistema di sicurezza. Cambiamo i codici solo due volte all’anno» risponde Tobias. “«Che fortuna» borbotta Caleb, squadrandolo diffidente. «La fortuna non c’entra niente. Ho lavorato lì solo perché volevo essere sicuro di sapere come fare a scappare.» Il modo in cui parla di scappare, come se pensasse che siamo in trappola, mi fa rabbrividire. Non l’avevo mai pensata in questi termini, e ora mi sembra stupido non averlo fatto. Camminiamo in gruppo. Peter si stringe al petto il braccio sanguinante – il braccio a cui ho sparato – e Marcus lo tiene per la spalla, sorreggendolo. Caleb si asciuga le guance in continuazione: sta piangendo ma non so come consolarlo, né perché non sto piangendo anch’io. Invece, mi metto in testa al gruppo. Tobias cammina in silenzio al mio fianco, e anche se non ci teniamo per mano mi dà stabilità.
* * *
Intravedo alcuni puntini luminosi: è il primo segnale che ci stiamo avvicinando al quartier generale dei Pacifici. Poco dopo diventano quadrati di luce, che si trasformano in finestre illuminate e, infine, in un complesso di edifici di legno e vetro. Per arrivarci dobbiamo attraversare un frutteto. I piedi sprofondano nel terreno. Sopra la mia testa i rami si tendono gli uni verso gli altri, formando una specie di galleria: frutti scuri pendono tra le foglie, pronti a cadere, e un profumo intenso e dolce di mele troppo mature si mescola con l’odore della terra umida. Quando siamo vicini, Marcus si stacca dal fianco di Peter e passa davanti a tutti. «So io dove andare» dice. Ci guida oltre il primo edificio, verso il secondo sulla sinistra. Tutte le costruzioni, tranne le serre, sono fatte dello stesso legno grezzo e scuro. Da una finestra aperta mi giunge alle orecchie lo scroscio di una risata, e il contrasto tra quel suono e il silenzio di morte che m’invade il petto è stridente. Marcus apre una porta. La totale assenza di misure di sicurezza mi sorprenderebbe se non ci trovassimo nel quartier generale dei Pacifici: la loro fiducia negli altri rasenta spesso la stupidità. Una volta dentro, l’unico rumore che si sente è lo scricchiolio delle nostre scarpe. Non sento più Caleb piangere, non che prima facesse tutto questo baccano. Marcus si ferma sulla soglia di un “ufficio con la porta spalancata. Seduta dentro, con lo sguardo fisso sulla finestra, c’è Johanna Reyes, la rappresentante dei Pacifici. È difficile dimenticarsi di lei, anche se la si è vista una sola volta. Ha il viso segnato da una profonda cicatrice che scende dal sopracciglio destro fino al labbro, rendendola cieca da un occhio e procurandole un evidente difetto di pronuncia. Io l’ho sentita parlare solo una volta, ma me lo ricordo. Sarebbe una bella donna se non fosse per quella cicatrice. «Oh, grazie a Dio» esclama appena vede Marcus. Gli va incontro a braccia aperte ma invece di stringerlo, si limita a toccargli le spalle, come ricordandosi dell’avversione degli Abneganti per i contatti fisici non necessari. «Gli altri del tuo gruppo sono arrivati qualche ora fa… non erano sicuri che tu ce l’avessi fatta» continua, riferendosi agli Abneganti che erano con mio padre e Marcus nel rifugio. Mi ero completamente dimenticata di loro. Poi sposta lo sguardo prima su Tobias e Caleb, quindi su di me, e infine su Peter. «Oh, cielo.» I suoi occhi indugiano “sulla camicia di Peter, inzuppata di sangue. «Manderò a chiamare un dottore. Posso concedere a tutti il permesso di fermarvi stanotte, ma domani spetta alla nostra comunità decidere. Probabilmente non saranno entusiasti della presenza di Intrepidi nella nostra residenza» aggiunge, guardando me e Tobias. «Naturalmente vi devo chiedere di consegnare tutte le armi che avete.» Mi domando come faccia a sapere che sono un’Intrepida, visto che indosso una camicia grigia. La camicia di mio padre. E nel momento stesso in cui penso a lui, avverto il suo odore: un misto di sapone e sudore. Il suo ricordo mi riempie la testa, e stringo i pugni con tale forza da conficcarmi le unghie nei palmi. Non qui. Non qui. Tobias consegna la pistola, ma quando porto la mano dietro la schiena per tirare fuori la mia, lui mi ferma, intrecciando le dita alle mie per nascondere il suo gesto. Lo so che è una mossa intelligente tenerci almeno una pistola, ma sarebbe stato un sollievo sbarazzarmene. «Mi chiamo Johanna Reyes» si presenta la donna, stringendo la mia mano e poi quella di Tobias. Un saluto da Intrepidi. Sono colpita dalla sua conoscenza degli usi delle altre fazioni. Finché non li vedo con i miei occhi, tendo sempre a scordarmi di quanto siano rispettosi degli altri i Pacifici. «Questo è T…» comincia Marcus, ma lui lo interrompe. «Mi chiamo Quattro» dice. «Questi sono Tris, Caleb e Peter.» Pochi giorni fa “Tobias” era un nome che conoscevo solo io, tra gli Intrepidi; era la parte di sé che aveva regalato a me. Ora, lontano dal nostro quartier generale, ricordo perché nascondeva quel nome al mondo: è tutto ciò che lo lega ancora a Marcus. «Benvenuti nella nostra residenza.» Johanna mi guarda e sorride con un sorriso sghembo. «Adesso, se permettete, ci prenderemo cura di voi.»
Questo pezzo è tratto da:
Insurgent
Veronica Roth
De Agostini Editore, ed. 2014
Prezzo 10,97€ (copertina flessibile)
Nessun commento:
Posta un commento