mercoledì 12 febbraio 2014

[Dal libro che sto leggendo] Linea di fondo


Fonte: Orvieto Sport


Giusto l'anno scorso a Gennaio vi ho parlato di Marco Marsullo e del suo "Atletico minaccia football club" e guarda caso, ma non voluto, a fine Gennaio mi è capitato fra le mani questo libro di cui vi parlo oggi. Il protagonista José è un ex calciatore di serie A che, per un infortunio, ha dovuto rinunciare a giocare come professionista. 

La cosa interessante è scoprire quante declinazioni si possano applicare ad un tema come il calcio e, se il libro di Marco ci ricordava che il successo va agguantato sudandoselo calcio per calcio, Claudio Grattacaso ci fa vedere questo mondo da un altro punto di vista: quello umano. Personaggi patinati o no, quando le luci della ribalta si spengono - e non importa che sia per un minuto o per il resto della vita -, devono rientrare fra le quattro mura facendo i conti con una realtà che, anche per loro, non è bella come quella che presentano agli spettatori. Rapporti umani, familiari e di amicizia diventano forse più difficili per il grande dislivello tra quello che è reale e quello che invece è creato come l'immagine pubblica. Riuscire a parlare di questi temi, raccontando in tre tempi contigui fra loro ma estremamente diversi- prima del successo, durante e il dopo -, affrontando questo tipo di vita e le persone che la rendono uguale e diversa tutte le altre potrebbe sembrare caotico e, invece, sorprendentemente il risultato è più che armonico.

In più, quando lo leggerete, tenete a mente questo: il titolo è il libro stesso, ma non lo è  solamente nell'unica accezione che gli si potrebbe dare, pensando che ruota attorno al mondo del calcio.

Come avvenne per Marsullo di cui decantai il fatto che, sebbene si parlasse di calcio, risultasse appetibile e leggibile anche ad una come me che di questo sport se ne intende il minimo indispensabile, anche in questo caso, devo sottolineare che il calcio, in "Linea di fondo", non è ricorrente ne ingombrante e la storia risulta scorrevole e leggibile persino per me che, in questo periodo e con le solite cure, sono diventata una lumaca! Pertanto fidatevi e provate!
Non sarà questo libro che mi farà parlare di partite di calcio alla Nick Hornby sappiatelo!

Buone letture,
Simona Scravaglieri



Un tempo Barbara la capivo. E lei mi capiva. Bastava poco, sfiorarsi la mano, fissarsi per un attimo, dirsi una parola che per noi aveva un significato speciale e suonava come un messaggio in codice. Un tempo eravamo un cosmo nel cosmo, un universo regolato da meccanismi perfetti e leggi perfette, con le loro puntuali eccezioni che rendevano più bella la vita. Vengo qui due volte l’anno, e mi pesa. Il giorno prima comincio ad avvertire una smania che monta, un senso d’inadeguatezza, il respiro s’accorcia, non so dire bene. Fremo. Mi sveglio a notte fonda, aspetto l’alba e parto, cento chilometri di macchina e arrivo a destinazione. Non ho mai voluto essere accompagnato da Barbara, ho sempre preferito non dirle dove andavo quando decidevo di venire qua. Appena varco il cancello, mi accoglie un odore di lievito, di pane ancora da infornare. Forse viene dal gruppo di case in pietra ai piedi della vallata, ci deve essere una panetteria. Mi fermo, e mi sporgo per vedere meglio oltre il muro di recinzione, individuare un segnale, un filo di fumo. Un vento caldo muove le piante, e gli odori più vicini si fondono e coprono ogni altro odore. Il polline dei fiori, la resina degli eucalipti e dei cipressi mi fanno arricciare il naso.

Ecco, forse la falla si è aperta lì, nel momento in cui ho deciso di non dire, di tenere tutto per me, di provare a cancellare, minimizzare. Ho taciuto, mi sono seduto in un angolino a poppa della nave e ho aspettato che la bufera passasse. A che sarebbe servito parlare, spiegarsi, capire, chiedere aiuto o venire in soccorso, se era chiaro che la bonaccia prima o poi sarebbe tornata e la bufera non sarebbe stata altro che un ricordo lontano? È anche vero, però, che il bel tempo è solo apparenza, uno stato precario messo a intervallo tra due tormente. Ogni tempesta ti lascia diverso da com’eri. Allora bisognerebbe prevenire, riunire la ciurma e accordarsi per una strategia comune. Ma si deve essere abituati a farlo, e io quest’abitudine non ce l’ho mai avuta, ho sempre preferito il silenzio. Una volta i morti mi facevano paura. Le fotografie sbiadite, le espressioni severe, gli occhi taglienti, mi accusavano di vivere. Passavo in fretta tra le lapidi, a testa bassa, affondavo i talloni nel pietrisco cercando di evitare i loro sguardi. Ma loro mi seguivano, me li sentivo sul collo, appiccicati addosso, e allora non ho avuto scelta. Percorrere i viottoli lentamente, prendendo ogni volta una stradina diversa, fermandomi a caso di fronte a qualche tomba. La sagoma nera di una donna si china su una fioriera e sistema meticolosamente i gambi, come se dalla loro inclinazione possa dipendere la felicità del defunto. È anziana, porta un fazzoletto nero in testa, legato sotto il mento, come ormai si vede solo in paesini piccoli come questo. Le iridi chiare sono immobili nelle orbite, rughe profonde le incavano il viso, un albero sezionato, con gli anelli testimoni dei suoi anni. Mi guardo intorno, cerco il mio viottolo. L’hanno sepolto qui, lontano dalla città, per farlo stare accanto ai nonni, per non fargli mancare l’abbraccio di persone care. O forse pensavano che avrebbe provato paura in un altro cimitero, tutto solo, nel buio freddo dello zinco. C’è silenzio e fa caldo, anche se sono appena le otto. Il cielo è malato, il sole è un disco bianco e lattiginoso. Ogni tanto mi fermo e studio una lapide.
Questo pezzo è tratto da:

Linea di fondo
Claudio Grattacaso
Nutrimenti Edizioni, ed.2014
Collana "Greenwich"
Prezzo 16,00€

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