mercoledì 19 novembre 2014

[Dal libro che sto leggendo] Scrivere e riscrivere #occhioallapenna



Fonte: LettureSconclusionate


Pensavate che le mie dichiarazioni, riguardo il voler collezionare tutta la raccolta, della scorsa settimana sarebbero rimaste lettera morta? E invece eccoci qui, con un'altra puntata de "La scuola del racconto" di Guido Conti per Il Corriere della Sera. Questa volta, dopo aver affrontato nel primo libro "come si legge", affrontiamo "la riscrittura".

Detta così, ammetto, non dice poi molto ma, se ampliamo il concetto, coinvolgendo anche Maupassant la nebbia si dirada quando Conti spiega che, complice l'ampliamento dei possibili lettori -dopo la metà dell'ottocento anche l'editoria affronta la questione industriale e la nuova attenzione all'alfabetizzazione-, la scrittura non si ferma solo alla "questione puramente letteraria" ma spazia anche nel campo giornalistico.

Nel caso ancora più specifico, alcuni pezzi scritti da questo autore per i giornali sono stati rimaneggiati, da lui stesso, per uscire come racconti. Quindi il focus è capire e carpire i segreti per rileggersi e anche trasformare qualcosa in altro. Questione che peraltro è complicatissima da fare, a me succede molto spesso in piccolo quando scrivo i post di questo blog. Se dovessi rimaneggiare i post pubblicati, e devo dire che una volta ci ho anche provato, sarebbe una battaglia persa. Chissà se con queste indicazioni il mio rapporto, con i pezzi di cui vado meno orgogliosa, cambia. Vi farò sapere!

In questo caso ho scelto di tralasciare l'introduzione e darvi un assaggio del primo capitolo che fa i confronti fra un resoconto giornalistico che si chiama "Storia di un cane", che non vi riscrivo altrimenti il post diverrebbe la Divina Commedia. Il racconto rimaneggiato esce sotto il titolo "Mademoiselle Cocotte". 

Prima di lasciarvi alla lettura vi lascio anche queste informazioni:
per commentare online questi libri è disponibile anche un hastag: #occhioallapenna e c'è anche un anche un blog Tumblr "Occhio alla penna". Sembra una pessima battuta ma "buttateci un occhio"!

Buone letture,
Simona Scravaglieri


Mademoiselle Cocotte: prima e dopo

Cominciamo dalla fine. In Storia di un cane, l'autore conclude sottolineando la veridicità della storia.La vicenda narrata è realmente accaduta, puntualizzata, e questo è il suo maggior pregio.  
Questa storia ha un solo merito: è vera, interamente vera. Senza lo strano incontro col cane morto, dopo sei settimane e a sessanta leghe di distanza, non l'averi certamente ricordata: Se ne vedono tante, tutti i giorni, di queste povere bestie senza dimora!Se il progetto della Società protettrice degli animali sarà realizzato, forse incontreremo meno cadaveri a quattro zampe arenati sulle sponde del fiume. 
Così si conclude l'articolo di giornale. Il valore del testo dunque non è dato dalla sua costruzione ma dalla sua rispondenza ai fatti. Ben diverso è i caso di un'opera narrativa in cui lo stile, la chiarezza, la forza emotiva morale sono gli elementi importanti. Leggiamo adesso il racconto Mademoiselle Cocotte per scoprire come l'autore abbia prodotto questo "supplemento di valore narrativo", attraverso un'analisi del lavoro di taglia e cuci, di riscrittura e rifinitura fatto dal passaggio dalla prima versione giornalistica al racconto vero e proprio. Osserviamo come la vera scrittura creativa stia nel correggere, nel mettere a fuoco la prima idea, nel ripensare parti più o meno lunghe, calibrando il tutto per raggiungere la pulizia e l'armonia perfetta di struttura e linguaggio. Come vedremo, grazie a questa operazione sul testo, fatta di varianti a volte minime, il racconto e l'impressione che esso lascia sul lettore cambieranno profondamente. Madame [refuso: era Mademoiselle] Cocotte comincia così:


Stavamo uscendo da un manicomio, quando scorsi in un angolo del cortile un uomo alto, magro, che ripeteva ostinatamente l'atto di chiamare un cane immaginario. Con voce dolce, tenera, gridava:"Cocotte, piccola Cocotte, vieni qua Cocotte, vieni qui, bella" battendosi sulla coscia come si fa per attirare le bestie.Chiesi al medico "Quello, chi è?".Mi risposte " Oh! Quello non è interessante. È un cocchiere di nome François, diventato pazzo dopo aver annegato il suo cane".Insistei: "Raccontatemi la sua storia. Le cose più semplici, più umili, sono quelle che a volte ci toccano il cuore".Ed ecco la storia di quell'uomo, riferita per intero da una palafreniere suo amico.

Maupassant, nella nuova versione, taglia il cappello introduttivo dal precedente pezzo giornalistico, in cui riassumeva la notizia della nascita di un ospizio per cani randagi che, a Parigi di metà Ottocento, doveva essere un grande problema non solo sociale ma anche sanitario. Siamo agli albori degli Enti per la protezione degli animali e della nascita dei canili comunali, alle origini di una niova sensibilità verso il mondo animale, una delle conquiste del mondo moderno che porterò alla Carta dei diritti riconosciuta a livello internazionale. In un articolo, è la "notizia" della progettata fondazione del canile a catturare l'attenzione del lettore.Nel racconto si entra nella storia nel modo più efficace: con un dialogo, un movimento a due. di botta e risposta, che da subito mette il lettore di fronte ai personaggi con la più efficace delle caratterizzazioni, il linguaggio. La storia, a cui il dottore è indifferente, tocca invece il cuore del narratore. In Mademoiselle Cocotte la notizia della nascita degli ospizi per i cani perde senso ed è François che diventa subito protagonista, quindi è lui che compare fina dall'inizio sulla scena, nel cortile del manicomio.Importante peraltro sottolineare che la veridicità dei fatti è un'ossessione ricorrente nell'opera narrativa di Maupassant, quasi egli dovesse ricordare sempre al lettore le follie e il disordine del reale. Questa volta preferisce invitare ad ascoltare il racconto del palafreniere sottolineando che la sua bellezza sta nell'essere umile e semplice.

Questo pezzo è tratto da:

Scrivere e riscrivere
Con i racconti di Guy De Maupassant
Guido Conti
Corriere della Sera Edizioni, Ed. 2014
Collana "La scuola del racconto" Vol.2
Prezzo 6,90€ (Più il prezzo del quotidiano)
 solo 6,90€ sullo store del Corriere della Sera

domenica 16 novembre 2014

L'ha detto... André Gide


Fonte: I giorni e le notti


Non credo al diavolo, ma è proprio quello che il diavolo spera: che non creda in lui. 

 André Gide

venerdì 14 novembre 2014

"The White Family", Maggie Gee - I gradi di sofferenza per la pura bellezza...

Fonte: Edencaf

Quando penso a libri libri del genere penso a tutte le inutili discussioni che ho fatto nel tempo sulla necessità o no di fare recensioni negative. Non è un libro da recensione negativa, ma per arrivare a comprenderne la bellezza lo devi sviscerare e analizzare come se stessi facendo una recensione negativa. Come sempre detto negli anni, recensire un libro che non è piaciuto richiede forti motivazioni e non un semplice "non m'è piaciuto!". Se, però, non mi mettessi a scrivere ogni volta ciò che penso di quel che leggo, libri come questo, come anche "Il sale" e "La città degli angeli" non avrebbero svelato la loro bellezza. Io li definisco i libri a "scoppio ritardato" quelli che odi tra pagina 80 e pagina 100 fino alla fine e che, una volta chiusi, digeriti e analizzati si svelano nella loro immensa bellezza e non ti lasciano proprio più.


Solitamente sono saghe di famiglie o, come nel caso della Wolf, il caso parte da una questione di famiglia per diventare altro. Sempre la questione verte su un dolore, da ciò che lo provoca e ciò che comporta, ma sempre è evidente che il "dolore" non è qualcosa che continui a sentire ma diventa qualcosa che fa parte di te e che modifica il tuo essere in rapporto con te stesso e con gli altri; il dolore guida le tue scelte, i tuoi successi e i tuoi insuccessi ma questi ogni volta che avvengono non minano il dolore che rimane inalterato. Altra cosa che è ricorrente è che questo dolore, che assomiglia a quello che ci portiamo dietro quando viene a mancare qualcuno che ci è caro, è un dolore senza perdono. Non si può annullare con una atto di clemenza ma chiede altro: la comprensione.
Intesa come conoscenza, la comprensione in questo caso amplia questo concetto per diventare quello stato psicologico che ti permette di capire che cosa ha generato quel comportamento e la scelta deliberata di perseguirlo. E' solo in quel momento che siamo in grado, secondo questi autori, di superare questo status per far diventare questo "dolore" paritetico a quello che ci accompagna giornalmente ma che non influisce più così pesantemente sul nostro modo di essere.

E' quello che succede e non succede anche qui. Siamo di fronte alla famiglia White, siamo a Londra e intorno agli anni '60-'70. La guerra è lontana, ma Alfred, padre di famiglia se la ricorda ancora bene, ricorda che da giovane che non aveva studiato è partito per la sua patria, che quando è tornato, nel parco dove oggi è rimasto l'unico guardiano, ha conosciuto May, ballando insieme a lei e innamorandosene quasi subito. Ricorda lo stupore e il piacere del fatto che lei, di un tipo di famiglia diversa e con un grado di studio molto più alto del suo, abbia accettato subito la sua proposta di matrimonio e ricorda la gioia, sempre nascosta perché non si pensasse che fosse meno "uomo", per la nascita dei suoi tre figli. Darren, Shirley, Dirk sono tre risposte diverse ad una vita difficile con un padre difficile. La fuga, la scelta diversa e la ricerca di approvazione. Padre padrone, le botte, la mancata esternazione di affetto, comprensione e lode, l'alcol e l'assenza sono tutte cose che fanno sparire i passi invece fatti per amore verso i figli. Così Darren fugge grazie alla carriera fortunata di scrittore e Shirley sceglie di sposarsi con un uomo di colore in un momento dove la questione razziale è molto sentita e Dirk, il piccolo di casa, cerca l'approvazione del padre nelle sue frequentazioni ed esternazioni filo razziste.
Si ritrovano tutti al capezzale del padre, soccorso da un amico di famiglia Tom, ed è in quell'attimo che la storia comincia. E' l'inizio del percorso di dolore verso la comprensione, ma non è detto che tutti riescano ad arrivarci.

Ecco, come già detto questo è uno dei libri che ho odiato da pagina 100. il problema appartiene al tipo di scrittura e alla scelta di svolgimento della trama. oltre ad avere simili risvolti, questi libri sono la risposta a coloro che sostengono che "la vita sia troppo breve per leggere ciò che non mi piace". Sono composti di quelle che io definisco "pagine pregne" che senza alcun sotterfugio letterario - ripetizioni, metafore e via dicendo - fanno sì che ogni volta che hai letto due pagine ti sembra di aver letto un capitolo intero. In parte è dovuto all'architettura del libro, spesso i capitolo sono dedicati a singoli personaggi andando avanti e indietro nella loro vita personale per svolgere, volta per volta, quanto ha creato quello che sono nel presente della narrazione. In altri casi la costruzione è dedicata alla sommatoria di situazioni, ma non è questo il libro in questione. Altro motivo possiamo ritrovarlo nelle continue tensioni che compongono la trama fin quasi a spezzarla e le continue deviazioni di rotta senza un finale certo. Anche questa è una forma di arte, che si caratterizza per tutti questi strappi che si creano senza una direzione certa e senza un finale previsto fino all'ultima pagina. Che poi, a dirla tutta, un finale non c'è affatto, c'è un altro inizio, che però non annuncia un libro successivo ma conferma che la vita non finisce, continua oltre le nostre perdite finché non siamo noi stessi a morire. 

Allora la nostra vita finirà ma la vita di tutti proseguirà rigenerata dalla comprensione di ciò che è successo, in quel lasso di tempo in cui noi e coloro che ci sono sopravvissuti siamo entrati in contatto. In quel momento, la morte,  evolviamo in base alla comprensione di ciò che abbiamo vissuto. Non giustifichiamo e ne perdoniamo, capiamo le motivazioni delle scelte altrui che hanno influito sulla nostra vita, passiamo oltre, memori di quello che abbiamo imparato, sperando di non sbagliare più, ma forse commettendo nuovi errori - nessuno è perfetto - ma sperando di fare sempre minori danni di quelli che abbiamo subito noi.

A questo servono libri del genere ed è per questo che sono necessari i gradi del dolore dei personaggi, e anche del lettore. Perché è in casi come questo che concetti, sensazioni, emozioni non ti lasceranno mai, rimarranno lì a ricordarti storie come queste che con l'odio hai vissuto personalmente con i personaggi di cui hai letto e sono la vera magia che si nasconde nei libri. Maggie Gee è una che ha fatto la sua gavetta, che ha scritto per riviste di narrativa contemporanea e sperimentale come l'inglese Granta e che nel suo porsi ai lettori cerca di replicare le emozioni di cui parla a chi si avvicina alla su scrittura.
Ha anche trovato una felice traduzione italiana ad opera di Giovanni Giri per Edizioni Spartaco - guarda se questa decisione di scegliere nominare i traduttori non mi farà diventare anche una che selezionerà i libri in base a chi ha tradotto! - che è riuscito a rendere l'atmosfera di questo genere di libro.

Inutile dire che è un libro consigliatissimo, che continuerò a leggere libri del genere quando mi capiteranno. La persistenza di un libro è data dal fatto che ci possa abbandonare o no nel tempo. Io questo libro l'ho iniziato a Gennaio, interrotto a Febbraio e ripreso a Marzo per finirlo ad Aprile. Non l'ho aperto oggi, non è stato necessario. E' rimasto tutto ancora nitido, così come avviene per "La città degli angeli" e per "Il sale".

Buone letture,
Simona Scravaglieri

The White family
Maggie Gee
Edizioni Spartaco, ed. 2010
Collana "Dissensi"
Traduttore Giovanni Giri
Prezzo 16,50€

Fonte: LettureSconclusionate





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mercoledì 12 novembre 2014

[Dal libro che sto leggendo] E così vuoi lavorare nell'editoria



Fonte: Pinterest

Se vi viene il sospetto che io stia leggendo tutta la collana diretta da Giulia Mozzato (I libri di WuZ), ebbene sì, avete ragione. E' un po' come per il libro del Corriere della Sera, sono saggi che aiutano anche i lettori a farsi un'idea. In sostanza spesso mi arrabbio quando trovo errori o se un libro mi sembra lavoro perso e quindi soldi buttati e via dicendo. Ma ve lo siete mai chiesti da dove vengono i libri?

Conoscete tutta quella serie di processi che ci sono fra lo scrittore che ha scritto (e pensa  che sia il libro capolavoro del secolo) e, come Claudia Consoli ci spiegava, "Quando i libri vanno in rete"? Spesso si pensa di conoscerli ma , nella realtà dei fatti, non sempre è ciò che sembra.
Quindi perché leggere questo libro? Probabilmente per cercare di capire un po' le dinamiche che muovono le scelte che poi ci sono, ma non possiamo scinderle dal lavoro originale, generando poi il prodotto che acquistiamo e leggiamo. Che ci piaccia o no non è il punto centrale. ma almenoper una volta potremo sbirciare dietro le quinte.

Oltretutto è anche molto divertente e quindi non vi annoierete di certo!
Buone letture,
Simona Scravaglieri


INTRODUZIONE
Del perché di questo libro

Sette anni fa avevo un lavoro normale, che piaceva molto a mia nonna. Ero assunta ( che aggettivo vintage!) a tempo indeterminato, in una azienda solida, a cinquecento metri da casa. Il gruppo era formato da belle persone, il clima era rilassato, si stava oggettivamente bene. Il lavoro, però, non mi piaceva: non sono il tipo giusto cui affidare un budget in Excel, non so neanche le tabelline.
Un giorno i si presentò l'opportunità di fare un'esperienza nel giornalismo: cercavano una didascalista per due testate di moda. Non serviva una persona preparata, ma semplicemente sveglia e non analfabeta. Non so le tabelline, ma analfabeta non sono. L'esperienza mi piacque, anzi mi galvanizzò. Finalmente facevo qualcosa che sentivo mio, anche se il giornalismo di moda non è proprio un ambiente per damine (avete presente Il diavolo veste Prada?).
Per circa un anno svolsi due lavori. Di giorno ero un'impiegata (quasi) modello,. Timbravo il io bel cartellino alle otto e trenta del mattino e uscivo alle cinque e mezza del pomeriggio. Qui cominciava la mia seconda vita: mi fiondavo in auto e guidavo come una pazza fino alla redazione, in centro a Milano, dove lavoravo alle mie didascalie fino a quando l'impresa di pulizie non mi cacciava fuori.
Fu un periodo molto stancante, ma anche stimolante, emozionante (e tanti altri begli aggettivi che finiscono in -ante). Giunse però il momento in cui mi resi conto di non essere né carne e né pesce: non ero un'impiegata, perché dentro non lo ero mai stata; e non ero una giornalista, perché mi ci dedicavo per troppo poco tempo e in modo saltuario.
Decisi quindi di votarmi a una sola delle due strade, quella dell'incertezza, del precariato (che si chiama free lance), delle cose che non sapevo fare.
pochi mesi dopo, sempre alla ricerca di nuove collaborazioni ed esperienze, iniziai a lavorare per una piccola  prestigiosa casa editrice di Milano. Cercavano un editor e, sebbene non avessi mai fatto l'editor, mi candidai, vendendo con molta abilità tutto quanto avevo imparato in redazione. Funzionò.
Messa così può sembrare che sia stata solo questione di fortuna - e, certo, una bella botta di... non guasta mai - ma avevo appreso parecchie cose lavorando per le testate di moda, molte delle quali non avevano nulla a che vedere con i refusi e l'impaginazione.
All'inizio della mia collaborazione la piccola e prestigiosa casa editrice per cui lavoravo pubblicava sei libri l'anno. Oggi sono più di venti, tra narrativa e saggistica.
Il mio primo libro (e test d'ingresso, credo) fu un saggio sulla storia delle Repubbliche del Plata. No sapevo nemmeno dove fossero le Repubbliche del Plata. Lo imparai, come imparai moltissime altre cose: leggendo e, soprattutto, sbagliando.
Dopo essere sopravvissuta alle Repubbliche del Plata, sono passata attraverso romanzi fantascientifici, raccolte di poesie, noir, saggi di storia diFisica nucleare, ricette di cucina, critica cinematografica, teatro, storia, ucronia, romanzi d'amore.
Negli anni ho attivato nuove collaborazioni con altre case editrici, come redattore, editor, correttore di bozze e con alcune testate come redattore.
Ho, in altre parole, svolto un percorso completo come ultima ruota del carro presso una testata di moda, a editor, passando attraverso l'ebbrezza dell'impaginazione, le presentazioni, la vendita dei volumi al banchetto. le fotocopie e il caffè. Tengo a precisare che, ancora oggi, faccio sia le fotocopie che il caffè. 
Questo libro parla della mia esperienza di editor, che presenta - com ho avuto modo di scoprire frequentando  i colleghi - aspetti tragicomici in comune con molti altri editor.
Ci troverete la persecuzione da manoscritto e l'ossessione da refuso, l'esordiente esuberante e lo scrittore saccente, l'errore dell'ultimo minuto e la fissa per le vedove, le telefonate infinite  le integrazioni via sms, l'arte del copia e incolla e la gioia dei ringraziamenti.
Tutti i tic del nostro mondo - spesso poco conosciuto, amato quanto inviso - su cui è bello, ogni tanto, farsi una risata.

Questo pezzo è tratto da:

E così vuoi lavorare nell'editoria
I dolori di un giovane editor
Alessandra Selmi
Editrice Bibliografica, ed. 2014
Collana "I libri di WUZ"
Prezzo 9,90€



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domenica 9 novembre 2014

L'ha detto...Jorge Luis Borges


Fonte: Sidekickbooks



La terra è un paradiso. L'inferno è non accorgersene. 
 Jorge Luis Borges
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