Fonte: Meteoweb |
Alla fin fine, la via più semplice per essere felici è fare il bene.
Helen Keller
Fonte: Il tuo sorriso mi brucia dentro |
Fonte: LettureSconclusionate |
Fonte: Paul C. Brunson |
Odio la mia mano sinistra. Odio guardarla. Odio quando si blocca e trema, a ricordarmi che ho perso la mia identità. Ma la guardo comunque, perché mi ricorda anche che riuscirò a trovare chi mi ha portato via tutto. Ucciderò il ragazzo che mi ha uccisa, e lo farò con la mano sinistra.
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Nastya Morire non è poi così male dopo la prima volta.
Lo so per esperienza.
La morte non mi spaventa più.
È tutto il resto a spaventarmi.
Agosto in Florida significa tre cose: caldo, umidità opprimente e scuola. Scuola. Sono più di due anni che non ci torno. A meno che uno non consideri scuola starsene seduti al tavolo della cucina a studiare da privatisti con la propria madre, e per me non lo è di certo. È venerdì. Il mio ultimo anno di liceo inizia lunedì, ma non mi sono ancora iscritta. Se non mi presento oggi, non avrò un orario lunedì mattina, e mi toccherà aspettare in ufficio finché non me lo daranno. Mi sa che preferisco evitare la pessima scena da film anni Ottanta in cui il primo giorno arrivo già in ritardo e tutti smettono di fare quello che stanno facendo per fissarmi. Anche se esiste di peggio nella vita, sarebbe comunque una seccatura.
Mia zia svolta nel parcheggio della Mill Creek Community High School con me al rimorchio. È una scuola come tutte le altre. Se non si considera il colore putrido delle pareti e il nome sulla targa, è uguale identica a quella dove andavo prima. Margot – mi ha fatto rinunciare a “zia” perché la fa sentire vecchia – abbassa il volume della radio che ha tenuto a palla per l’intera durata del viaggio. Per fortuna il tragitto è breve, perché i rumori forti mi danno fastidio. Non è il suono in sé, ma il volume alto. I suoni forti finiscono per inghiottire quelli deboli, e i suoni deboli sono quelli che fanno più paura. Ora posso farcela perché sono in macchina, e di solito in macchina mi sento al sicuro. Fuori è un altro discorso. Non mi sento mai al sicuro, fuori.
«Tua madre si aspetta una telefonata quando hai fatto qui» mi dice Margot. Mia madre si aspetta un sacco di cose che non otterrà mai. Nell’economia del tutto, una telefonata non è una pretesa esagerata, ma questo non significa che debba averla vinta per forza. «Cerca almeno di mandarle un messaggio. Quattro parole. Registrazione fatta. Tutto bene. Se poi ti senti particolarmente generosa, alla fine puoi anche aggiungerci una faccina sorridente.»
La osservo di traverso dal posto del passeggero. Margot è la sorella minore di mamma, una decina d’anni in meno. È l’opposto di lei quasi in tutto. Non le somiglia per niente, il che vuol dire che non somiglia neanche a me, visto che io sono la copia sputata di mia madre. Margot ha i capelli biondo sporco, gli occhi azzurri e un’abbronzatura costante che mantiene con facilità lavorando di notte e sonnecchiando di giorno a bordo piscina, anche se è infermiera e dovrebbe sapere che non fa bene alla pelle. Io ho un incarnato pallido, occhi castano scuro e capelli lunghi, mossi, quasi neri ma non proprio. Lei sembra uscita da una pubblicità della Coppertone. Io da una bara. Solo uno stupido potrebbe pensare che siamo parenti, anche se è una delle poche certezze che mi rimangono.
Ha ancora quel sorriso furbetto stampato in faccia, consapevole del fatto che, pur non avendomi convinta a tranquillizzare mia madre, è riuscita comunque a instillarmi un po’ di senso di colpa. Impossibile provare antipatia per Margot, anche mettendosi d’impegno, il che me la fa odiare un po’, perché io non sarò mai come lei. Mi ha accolto in casa sua non perché io non abbia altri posti dove andare, ma perché non resisterei da nessun’altra parte. Per sua fortuna, le tocca vedermi solo di sfuggita, perché una volta iniziata la scuola non saremo quasi mai a casa negli stessi orari.
Ma anche così, dubito che accollarsi una teenager cupa e musona sia il massimo dell’aspirazione per una single poco più che trentenne. Io non lo farei, ma d’altronde non sono un tipo generoso. Forse è per questo che scappo a gambe levate da tutti quelli che mi vogliono bene. Se potessi starmene da sola, lo farei. Ben volentieri. Lo preferirei, piuttosto che dover far finta di stare bene. Ma non ne ho la possibilità. Perciò mi accontento di stare con qualcuno che, almeno, non mi vuole così tanto bene. Sono grata a Margot, anche se non glielo dico. In verità, non le dico mai nulla. No, decisamente no.
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Da due settimane non riusciva più a fare un sonno filato. Si svegliava di colpo, più volte. Alle due, alle tre, alle cinque. Qualcosa di potente aveva ragione del buio e della dimenticanza che le concedeva il sonno. Se erano già le quattro o le cinque restava sveglia, non provava a chiudere di nuovo gli occhi, a spegnere la luce dell’abat-jour. Dalle fessure delle tapparelle arrivava già un chiarore di alba, un accenno di cielo di latte e, allora, preferiva aspettare, sveglia, che il nuovo giorno arrivasse pieno, intero. Gli si consegnava così, accesa, gravida di questo pensiero di lui che ormai le teneva compagnia come in una presa diretta continua, involontaria, inarginabile. Non si chiedeva mai – se non di sfuggita, ma così, tanto per – dove fosse e con chi fosse. Non la riguardava, non la toccava, non era una cosa importante.Sapeva di consistere in lui, così come lui in lei. Forse non gli toglieva il sonno, questo sì, ma era lei che era troppo eccitabile, sempre stata con reazioni amplificate, eccessive, glielo avevano detto fin da bambina. Però, pensava che, anche se non gli toglieva il sonno, aveva messo timidi villi dentro la pancia di lui. Ed era grande e luminosa la sensazione di averlo fecondato e di essere stata fecondata. Poter vivere a centinaia di chilometri di distanza con la consapevolezza d’essere gravidi, insieme. E felici di esserlo.Accecante e rapido come una folgore il nome di lui la trapassava fin dal risveglio. Sapere che c’era – da qualche parte nel vasto mondo – che si soffiava il naso, leggeva il giornale, appendeva il cappotto in un ristorante, si allacciava le scarpe, tutte queste minute cose che lui, da un’altra parte, faceva, la riempivano di stupefatta fierezza, di un sentimento verticale, solido, concreto, buono. Come il pane, come il gattò di patate che, da quando il nome di Marco era entrato tra i nomi amati, le veniva più morbido. Anche Stefano se n’era accorto. Un giorno le aveva detto: «Ma questo gattò ti viene meglio da un po’ di tempo in qua.»«Ho cambiato tipo di patate» aveva risposto lei.
Marco era arrivato a lei, con delle parole gentili, in un momento della sua vita in cui le pareva che dal mondo che abitava fossero scomparse la gentilezza e la grazia.Forse era lei che era inquieta, scontenta, nervosa: da tempo anche a scuola le parevano sgraziate le bidelle con certo fare brusco, certa aria di degnazione appena chiedeva loro un piacere. E Stefano era diventato un istrice. Il lavoro cui si stava dedicando ormai da tre anni, un manuale di Letteratura italiana per le scuole, lo assorbiva in modo totale, era sempre al telefono con l’editore, con il suo coautore che viveva a Torino, smadonnava, si capiva che non vedeva l’ora di licenziare un’opera che all’inizio l’aveva entusiasmato ma che, col tempo, per le mini censure che doveva porsi, i tagli da fare, era altra da quella che aveva in mente.
Fonte: Nuove soluzioni |
"Cerchiamo di contestualizzare: siamo a La Plata e il nostro giovane protagonista ha deciso di fare un giro allo zoo accompagnato dalla sua ragazza. L'esperienza, come dice anche lui - nella parte di libro trascritta qui sotto -, Risveglia i ricordi di una vacanza fatta a Misiones nella casa natale di un amico, Polonio, e con un altro che si chiama Seco. E' una vacanza fatta da ragazzi, appena diciottenni forse, che sperano di fare così la grande avventura. Invece... Invece ve lo dovete leggere ecco."L'idea di questa struttura un po' anomala, che non è nuova ma che viene comunque applicata in maniera inconsueta tanto da spiazzare un po' il lettore, non è affatto malvagia. La fobia è un qualcosa che appartiene ad ognuno di noi, che sia un leggero moto di repulsione o che sia vero e proprio terrore per qualcosa, in fondo ha sempre un'origine. Per alcuni è chiara, per altri no. In questo caso per Fanta è chiara e ricorda non solo il viaggio in sé, ma anche tutte quelle contrastanti emozioni che sono date da una serie di fattori scatenanti.
Fonte: LettureSconclsuionate |
Fonte: Hotel Delfino |
1voyage voyage
Il gatto reputa di cagarsi addosso quando è troppo tardi per tornare indietro, e tragicamente presto per arrivare a destinazione.
Trauma da automobile, piccola Ciopy, ma quanto a trasporti felini su gomma è la prima volta anche per noi, e a lasciarti digiuna non ci abbiamo pensato. Dall’espressione del casellante è chiaro che all’abbassarsi del finestrino ha usmato l’afrore ma non ne individua la fonte. Con quella faccia da piciorla ammaestrato sarà dura intuirla. Sarebbe il caso di indicargli la gabbietta con la micia imboscata giù al buio fra il sedile anteriore e il cruscotto, di modo che quello, mentre conta le lire di resto da porgere alla mamma, la smetta di fissare con disgusto il sedile di dietro della 127, la smetta di guardare me.
Andar via da Cuviago è come spezzare un assedio invisibile. Vorrei fosse per sempre. Sarà per tre settimane. Speriamo che non corrano via, che stiano ferme per un po’. Con meno puzza, però.
I preparativi per andare al Mare sono più belli dell’essere al Mare. La prima volta a Marina Ligure con la mamma, in quel luglio del ’79, è stata indimenticabile: da allora “Mare” lo scrivo sempre maiuscolo, e i professori precisini ci s’incazzino pure. Ma il meglio è prima: sognare, immaginare, contare i giorni, fare i bagagli. La dolcezza del radunare tutte quelle cose leggere e colorate sul letto, mentre fuori la pioggerella estiva accarezza le foglie dei ciliegi, il crogiolarsi nell’incanto di tutte le vigilie, trattenere le gocce dei momenti, non lasciarle evaporare via.
Anche le mattine di Natale per me sono sempre state così. Prolungare nel dormiveglia l’attesa della scoperta, malgrado sapessi che sotto l’albero avrei trovato ben poco: una macchinina, un cane di pezza o un libro, soldatini di plastica o animaletti di legno, qualche torrone, e l’odiosa “roba utile” da parte di nonna Corinna e zia Trude o della De Ropp, compensata negli anni migliori da giocattoli inaspettati spediti dal Piemon- te. Da piccolo a Lavinia mi dissero che c’era di mezzo una violazione di domicilio da parte di un Gesubambino invisibile, e io ci credevo, e di conseguenza pensavo che se mi fossi alzato a spiare nelle profondità della notte avrei visto i doni volarsene a mezz’aria per tutto il corridoio. Ma non osai mai, avevo una fifa troia di quelle effrazioni, anche se erano fatte a fin di bene.
Adesso so che ce li mette lei la sera tardi. Potrei scoprirli dopo che è andata a dormire, eppure la mattina aspetto e aspetto, invece di precipitarmi a spezzare l’incantesimo come tutti gli altri fessi.
E la mamma viene a chiamarmi, confusa e stupita, quasi delusa: «Corradino, non ci vai a guardare i doni?»
Ma l’anno scorso erano morti tutti, da ’ste parti, allora io e la mamma abbiamo affidato la Ciopy alla Marilù del bosco e siamo andati a passare il Natale in Piemonte, per dimenticare i fantasmi sotto la coltre nevosa di un paesotto chiamato Ceva, dove sono venuti anche gli zii di Pinerolo e Mondovì. C’era lo zio Renzo, quello delle barzellette e delle poesie dialettali, che come prima cosa ha detto «Sapete cos’ha portato, di bello e di buono, lo zio Renzo, per tutti voi bravi pronipoti? Una... bel- la... merda!» Però poi si è riscattato con una poesia seria intitolata “Temp”, che a me è piaciuta perché non era noiosa e verso la fine diceva: Temp, bastàrd! E in ogni caso scherzava, e i regali ce li aveva portati.
Mi sono sempre andati a genio, questi parenti piemontesi della mamma sull’anzianotto andante. Mi piacevano molto anche quelli tedeschi di Videla, mio padre, a dir la verità. Soprattutto la Clarissa di Wolfsburg, che per Pasqua mandava coniglietti di cioccolato, buonissimi e pieni, non come le sottili uova italiane del put con dentro la sorpresina sghimbescia. Qualcuno maligno potrebbe insinuare: sono i tuoi preferiti perché stanno lontani, un parente che è sempre fra i piedi non è mai preferito, e io non saprei cosa rispondere.
L’unica cosa che mi convince poco, di questi piemontesi, è che quando parlano, oltre a Bastalà e Boia fàus, ripetono sempre “Fatti furbo”. I furbi a me mi stan sul culo. Secondo me la furbizia è il contrario dell’intelligenza, è il lato disonesto della stupidità. I bambini più idioti stanno sempre a cercar di fregare gli altri, invece di fare amicizia. Ma forse i prozii non intendevano proprio quel tipo di furbizia.
Fonte: Swif Uniba |
Fonte: Luca Fadda |
Spett.le segreteria del Premio Strega,
ho letto con estrema attenzione le novità relative a quest'anno e sono lieto di poter presentare la mia candidatura alla cinquina finalista con il mio romanzo di fantascienza Kairòs, edito da Ciesse Edizioni. Come ben sapete però la congiuntura sfavorevole (bassa congiuntura) economica che stiamo attraversando non può permettere né a me, né al mio editore di regalare l'intera tiratura del libro per coltivare una speranza che rasenta il sogno.
Per questo motivo ho deciso di venire incontro al mio editore presentando per conto mio il mio libro. Parto dal presupposto che l'AIE si è fatta promotrice della campagna #unlibroèunlibro, campagna che puntava all'abbassamento dell'IVA sugli ebook in quanto un libro, in qualsiasi formato, è sempre un libro, è cultura. Io sono d'accordo e vorrei sottolinearlo per l'ennesima volta con questa mia proposta. Tra le parole che rappresentano lo Strega c'è la parola "bibliodiversità", inoltre segnalate come quest'anno si punti alla salvaguardia dei piccoli e medi editori. Converrete con me che la campagna da me citata puntava a parificare i diritti del cartaceo a quelli dell'ebook, in una sorta di allargamento del concetto di "quote rosa" (in questo caso "quote tecnologiche") nella formazione della cinquina finalista.
Forte di questa convinzione e nel rispetto delle vostre linee che vogliono salvaguardare la piccola e media editoria, allego copia in formato e-pub e mobi del mio libro Kairòs, edito a luglio 2014 da Ciesse Edizioni. Lo potrete distribuire tra i 500 lettori facendo ctrl+c una volta e ctrl+v 499 volte. Se dovesse servire, nel caso i lettori non avessero un ebook reader, indico i link ai quali scaricare alcune app di lettura gratuite per computer, tablet, iPad, smartphone e iPhone.
(app Kindle, app Tolino, app Kobo, Calibre)
Sono fiducioso nella Vostra serietà quando preciso che, ovviamente, sarebbe meglio evitare di duplicare l'ebook oltre le 500 copie da distribuire ai lettori, perché altrimenti si entrerebbe nel campo della pirateria e l'AIE non ne sarebbe troppo felice. Ringrazio per l'attenzione e attendo conferma della candidatura di Kairòs al Vostro prestigioso concorso.
Cordialmente
Luca Fadda
Fonte: Blog Letteratura e Cultura |
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Fatale. Bastò una breve occhiata all'immagine per dare forma all'oscuro presentimento dei mesi precedenti. L’embrione era ricurvo come un anfibio, un occhio rivolto verso di lui. E quello sopra la coda da drago era una gamba o un tentacolo?Nella vita sono pochi i momenti di grande certezza. Ma in quest’istante Henry vide nel futuro. Quell'anfibio sarebbe cresciuto, sarebbe diventato una persona. Avrebbe avuto dei diritti, delle pretese, avrebbe fatto domande e a un certo punto avrebbe saputo tutto ciò che occorre per diventare un uomo.Sull'immagine dell’ecografia, grande più o meno come una cartolina, si riconosceva a destra dell’embrione una scala di grigio, a sinistra delle lettere, in alto la data, il nome della madre e quello della dottoressa. Henry non dubitò neppure per un istante della sua autenticità. Betty fumava seduta accanto a lui al volante dell’auto e vide le sue lacrime. Gli posò la mano sulla guancia. Credeva che fossero lacrime di gioia. Lui invece stava pensando a sua moglie, Martha. Perché non poteva avere un figlio da lui? Perché si ritrovava seduto in macchina con quest’altra donna?Provava disprezzo per se stesso, si vergognava, gli spiaceva tantissimo. La vita ti dà tutto, era sempre stato il suo motto, ma mai in una volta sola.Era pomeriggio. Le onde si infrangevano monotone contro la scogliera, il vento piegava l’erba e premeva contro i finestrini della Subaru verde. Sarebbe bastato accendere il motore, schiacciare l’acceleratore, la macchina avrebbe superato il ciglio dello strapiombo precipitando di sotto tra i flutti. In cinque secondi sarebbe finito tutto, lo schianto avrebbe ucciso tutti e tre. Prima però avrebbe dovuto alzarsi dal sedile del passeggero per cambiarsi di posto con Betty. Troppo complicato.«Non dici niente?»Che cosa doveva dire? La situazione era già abbastanza pesante, quell'affare nell'utero di Betty sicuramente già si muoveva, e se c’era una cosa che Henry aveva imparato, era di non dare mai voce a ciò che era meglio rimanesse taciuto.Negli anni passati Betty lo aveva visto piangere una volta soltanto, quando gli era stata conferita la laurea ad honorem dello Smith College nel Massachusetts. Fino ad allora aveva pensato che Henry non piangesse mai. Seduto immobile in prima fila, Henry aveva pensato a sua moglie.Betty si sporse oltre la leva del cambio e lo abbracciò. Rimasero in silenzio ad ascoltare il reciproco respiro, poi Henry aprì la portiera del passeggero e vomitò nell'erba. Vide le lasagne che aveva preparato a Martha per pranzo. Somigliavano a un composto embrionale di grumi di pasta color carne. A questa vista la saliva gli andò di traverso e cominciò a tossire violentemente.Lei si tolse le scarpe, con un balzo uscì dalla macchina, strappò Henry dal suo sedile, gli cinse la cassa toracica con entrambe le braccia e premette con forza, finché le lasagne gli fuoriuscirono dal naso. Era fenomenale come Betty sapesse fare la cosa giusta senza riflettere. Rimasero entrambi in piedi nell'erba accanto alla Subaru, il vento che faceva nevicare batuffoli di schiuma di mare.«Su, dillo. Che cosa dobbiamo fare?»La risposta giusta sarebbe stata: tesoro, le cose si mettono male. Ma una risposta del genere porta delle conseguenze. Cambia le cose o le fa scomparire del tutto. E a quel punto non servono più nemmeno i rimorsi. E chi vorrebbe cambiare qualcosa che fila liscio e comodo?«Tornerò a casa e racconterò tutto a mia moglie.»«Davvero?»Henry vide lo stupore sul viso di Betty, lui stesso era sorpreso. Perché lo aveva detto? Henry non aveva la tendenza a esagerare, raccontare tutto non sarebbe stato necessario.«Che cosa intendi con tutto?»«Tutto. Le dirò tutto. Basta bugie.»«E se lei ti perdonasse?»«Come potrebbe?»«E il bambino?»«Spero che sia una femmina.»Betty lo abbracciò e lo baciò sulla bocca. «Henry, sai essere fantastico.»Già, sapeva essere fantastico. Adesso sarebbe tornato a casa e avrebbe sostituito le bugie con la verità, finalmente avrebbe raccontato ogni cosa, senza riguardi, compresi tutti i dettagli scabrosi, be’, magari non proprio tutti, ma quantomeno i fatti essenziali. Doveva essere impietoso. Ci sarebbero state lacrime, una sofferenza atroce, anche per lui. La fine della fiducia e dell’armonia tra lui e Martha, ma anche un atto liberatorio. Non sarebbe più stato un disgraziato mascalzone e niente più motivi di vergognarsi. Era giusto così. La verità avanti alla bellezza, tutto il resto sarebbe venuto da sé. Abbracciò la vita sottile di Betty. Nell’erba c’era un sasso, abbastanza grande e pesante da provocare un colpo mortale. Gli sarebbe bastato chinarsi a raccoglierlo.«Forza, sali.»Lui si mise al volante e accese il motore. Invece di partire in avanti e lanciarsi oltre la scogliera, ingranò la retromarcia e fece muovere la Subaru lentamente all’indietro. Un grave errore, come avrebbe constatato in seguito.
Fonte: Roba da donne |