mercoledì 19 settembre 2018

"Pista nera", Antonio Manzini - L'eroe antieroe e la distopia del noir.... #MarcoGiallini

Isabella Ragonese e Marco Giallini

"Al terzo episodio, sapevo che l'attore era Marco Giallini, al quarto che la serie è tratta dai gialli di Antonio Manzini, al quinto mi hanno detto che i gialli in questione dovevano essere sei, al sesto ho scoperto da Wikipedia che sono in effetti 18 tra romanzi e racconti (Manzini ma quanto scrivi? Perdindirindina!) e che volevo leggerli. In particolare, Manzini mi scuserà, vorrei capire se e quanto la trasposizione televisiva e il libro scritto corrispondano perché nel primo caso esce decisamente tanto l'attore principale e se fossero così costruiti mi piacerebbe capire quanto il Rocco Schiavone di Giallini corrisponda all'idea di Manzini e quanto invece ci sia di suo."

Iniziava da qui l'idea di un percorso di lettura accennato a Maggio, che poi amor di precisione più che di lettura si tratta di un percorso multimediale visto che #MarcoGiallini è un attore, anche se in passato ha scritto anche qualche articolo per Riders. E così ripartiamo da qui e proprio da quell'episodio che mi aveva convinto a leggere Manzini. I compiti a casa io li ho fatti seguendo la scaletta degli episodi della serie TV, sceneggiati dall'autore stesso coadiuvato da Maurizio Careddu. 
"Pista nera" (Sellerio, 2013) è il primo romanzo in assoluto della serie che in linea temporale è stato anticipato da un racconto ("L'accattone" raccolta "Capodanno in giallo", Sellerio, 2012), per vedere la presa sul pubblico - come ammette Manzini in un'intervista- ma scritto successivamente al romanzo citato.

Quello che ho scoperto leggendo Manzini è che è uno scrittore fuori dai soliti schemi, con il suo amore per la parola e per la sonorità del testo, che è precisissimo riguardo la terminologia medica - in alcuni casi sfiora la pedanteria, tanto da farmelo immaginare un po' ipocondriaco - che ha un talento per intessere le trame del giallo classico talmente spiccato da non dover nascondere nulla ai propri lettori riguardo le indagini. I casi narrati nel ciclo non hanno bisogno di abbellimenti: sono e nascono complessi come lo sono in generale quelli reali da cui, Manzini, in una serata al MAXXI con De Giovanni e Robecchi, dice di attingere per ispirazione; se una costante c'è nel "Manzini-style" è che colui che commette il male ("il reato" è sempre un limite verbale nella cosmologia manziniana che non permette di guardare alla realtà dell'atto nel suo complesso) è sempre l'insospettabile, anche se losco. Per costruire quel singolo atto, il colpevole deve crearsi una rete di normalità, rivestirsi di abitudine e finanche calarsi o vivere nella normalità più brutale e anonima ai più. Un omicidio, un furto, la rapina e via dicendo, si ammantano di tutti quegli aspetti del male che noi riconosciamo nella normalità come altro, come fato (povertà, malattia, solitudine etc) oppure la necessità che giustifica il gesto (l'ingiustizia sociale, la vendetta per un torto subito). Solo in un caso l'autore fa ricorso ad un reato che ricade nel classico di genere, anche se, nella combinazione dei due racconti che costituiscono l'architettura della puntata, non rinuncia ad affiancargliene un altro di contrappeso e di denuncia verso una sostanziale "dimenticanza" sociale della società civile e delle istituzioni.  

Dopo tutto questo, anche con l'aiuto di interviste e convegni che sono disponibili in rete, ho scoperto che Rocco Schiavone è un po' da considerarsi come un grande puzzle, che racchiude le caratteristiche abitudinarie di molti e che proprio per questo starebbe antipatico a tanti; ma all'autore tutta questa architettura non basta per avere un personaggio verosimile, così gli crea attorno un'atmosfera distopica che mina tutte le sue possibili certezze: la moglie, le donne, gli amici, i collaboratori, la città. Tutti questi pilastri, in cui un uomo normale alle strette cercherebbe un rifugio certo, crollano uno ad uno, costringendo un uomo che viveva sospeso fra legalità, senso della giustizia e illegalità a doversi mettere in discussione e alla prova ancora una volta. 
"Pista nera" non è un lavoro distopico intendiamoci, è un giallo in piena regola con una marcata vena noir. La distopia sta solo nella creazione del personaggio e della situazione in cui lasciarlo muovere come una cavia.

Prendi un uomo che di suo è poco "sociale" ma che ha una moglie che ama alla follia e degli amici che conosce fin da ragazzino. Come ammette anche il vicequestore nei suoi pensieri, nello scorrere del libro, nella sua Trastevere degli anni '60 si giocava a guardie e ladri e da grandi si potevano scegliere solo due strade. Se i suoi amici hanno scelto quelle illegali, Rocco ha  intrapreso la professione più comoda: quella della guardia che conosce da vicino il mondo dei ladri. E questa è una delle caratteristiche che Manzini riuscirà, nel corso dei romanzi e dei racconti che ho letto, a sfruttare con una certa nonchalance dando l'opportunità a Rocco Schiavone di far vedere ai suoi lettori entrambi i lati della barricata anche nel corso delle sue investigazioni.
Dicevamo, prendi un uomo e allontana o fai sparire i suoi punti cardinali, quelli che danno peso e certezza alla sua vita, portalo al punto più basso della rovina personale e lavorativa con una serie di situazioni create da lui e altre che sono completamente indipendenti o forse derivate. Un uomo che improvvisamente si trova solo che per giunta viene mandato a mille e più km da ciò che conosce, uno che ha già stabilito che la sua vita è finita il 7 luglio del 2007 e che si trova a dover ricominciare un qualcosa che non dovrebbe esserci più. Rocco è in quel punto che, nel genere distopico, è l'inizio dopo la rovina e da dove i personaggi sopravvissuti devono ripartire per ricreare una qualsivoglia normalità che deve essere diversa da quella che ha portato alla distruzione che stanno subendo. Ma Schiavone è recalcitrante proprio perché, come detto, parte da sconfitto. Non si tira indietro a quel che gli capita, ma è deciso a dimostrare tutto il suo risentito dissenso in parte materialmente (le Clark e il Loden in mezzo alla neve), in parte in azioni (il rifiuto di arredare la casa in affitto, di farci entrare gli estranei e anche gli amici e di dare al barman di Aosta qualsiasi possibilità di ricordargli che oramai è di casa chiedendo "Il solito dottore?") e infine con un sarcasmo, in alcuni punti diventa cinismo, per nulla nascosto verso le figure a cui si deve affiancare (il giudice, il questore, D'Intino).

L'indagine. Su una pista di servizio per i gatti delle nevi, uno di questi mostri meccanici passa su quello che a tutti gli effetti è il cadavere di un uomo. L'uomo è irriconoscibile e senza documenti, il gattista è sconvolto ed è uno alle prime armi e giura di non aver visto passare nessuno davanti a lui mentre scendeva. Manca un guanto e il vicequestore, sotto gli occhi dei suoi nuovi collaboratori perplessi, osserva cose che loro non vedono e non capiscono. Si presenta il giudice Baldi che nemmeno è arrivato e già minaccia il suo nuovo collaboratore dicendo che "sa di lui abbastanza" e gli intima di chiudere il caso al più presto, dentro i limiti previsti dalla legge. Già questo, in termini di tempo e di spazio, regala al lettore e al telespettatore il quadro generale di quello che si troverà davanti: un giudice umorale, un vicequestore un po' cretino che gira con le clarck e il Loden sulla neve e cui piace vendicarsi, nei toni delle risposte, di coloro che si presentano come gradassi. 
Ma la domanda rimane una: un uomo nel buio, su una pista di servizio innevata a 1.500 metri di altezza che ci faceva? E perché manca un guanto? Gli indizi nel libro vengono tutti seguiti e presentati con dovizia di particolari, vengono commentate azioni e i tempi, su cui Rocco invita, di volta in volta, a riflettere i collaboratori, il giudice e anche il questore, nonché i suoi lettori. Indagine che si concluderà in perfetta coerenza con il percorso fatto per risolverla: ogni tassello avrà il suo posto e la sua spiegazione senza doverne dare una completa alla Poirot o alla Sherlock Holmes alla fine. Questo perché Rocco è umano, è un uomo di mezz'età che non ha bisogno e non vuole le luci della ribalta; a lui non interessa vincere sul "male" ma fare giustizia, anche se questa rivela spesso la bassezza delle ragioni che si usano come giustificazione per gli atti più biechi.

A margine di questa storia  c'è anche un'altra vicenda che vede coinvolto l'amico più caro di Roma, Seba. È l'ago della bilancia che permette al protagonista di farsi percepire come uno di noi, anche agendo ai limiti della legalità: un carico dalla Germania, materiale da requisire per poi dire "abbiamo avuto una soffiata". Poi una scoperta e la decisione da giudice armato non di "Giustizia" ma solo di "senso della giustizia personale". Ma questa storia ve la dovete svolgere da soli. Come dice Manzini, si è fatto un gran parlare della personale preghiera laica di Schiavone in TV, mettendosi a contestare un vicequestore che si fa le canne appena arrivato in ufficio, ma nessuno si è preoccupato di dire nulla della sua carriera parallela. Ecco in questo ha ragione, perché quell'aspetto, che divide la vita e il pensiero di un uomo normale da quella di un rappresentante delle forze dell'ordine che la legge non la deve solo applicare ma conoscere a memoria grazie ai suoi studi, è quello che regala al personaggio la verosimiglianza rendendolo davvero reale. L'uomo, quello comune contesta molto spesso i limiti della Giustizia, non sul piano filosofico o quello qualunquista di Baldi, e in questo contesto non è l'uomo ma il vice questore che deroga alla Giustizia, uguale per tutti ma proprio per questo mai giusta per nessuno, in favore di un "senso di giustizia" che, come dice Baldi in un'altra occasione, lo fa calare nelle vesti di colui che decide solo in base a convinzioni personali, condivisibili ma non per questo eticamente giuste. E, strano a dirsi, queste vicende sono un'ulteriore finestra nella distopia personale di Schiavone e quella ancora più grande della sfera sociale. Sono quegli scorci che ce lo rendono più vicino, proprio perché soddisfano il nostro senso di giustizia ma che dimostrano anche il nostro naturale limite nel guardare alle cose: il malaffare non è mai uguale per tutti come non lo è la nostra percezione della giustizia fatta. Siamo naturalmente portati a fare una selezione del reato e di chi lo commette, non in base alla gravità dello stesso ma  al nostro "senso di giustizia" limitato al nostro personale sentire e questo rappresenta, in tutto e per tutto, la sconfitta sociale che viviamo ogni giorno quando giudichiamo come azione giusta anche un illecito. È un po' come pensare al povero che non ha nulla da mangiare che ruba una mela da dare ai figli e confrontarlo con il ricco che sottrae soldi allo stato: entrambi sono crimini equipollenti perché sono furti. Ma la natura umana rifugge dalla logica inoppugnabile della Giustizia e ci porta a guardare alla necessità del povero e alla futilità del ricco. Lo sguardo di Manzini è quello dell'intellettuale classico, quello di una volta, che sa che non è nel suo ruolo giudicare ma sta a lui alzare l'asticella della riflessione e della discussione. È un discorso scomodo, concediamolo, ma ci permette di misurarci su un terreno complesso e capire a quanta della libertà e della civiltà di cui ci vantiamo siamo disposti a rinunciare per il nostro senso di giustizia che non necessariamente è equanime.

Nè Manzini e né Giallini  sono Rocco Schiavone. Di Giallini, Manzini, in un'intervista dice che, prima di averlo segnalato fra i possibili protagonisti, ne sapeva poco. Giallini in un'altra ammette che i libri li ha letti dopo che gli hanno parlato del personaggio e che ha deciso di accettare il ruolo e, in un'altra occasione, dice di aver sentito quel personaggio molto suo.
A Schiavone, Manzini, ha regalato di suo solo la scala delle "Rotture di coglioni" che è una sua graduatoria che si continua a riempire di nuove voci. Giallini, invece, a Schiavone regala la rotondità di una interpretazione che lo rappresenta in tutte le sue sfumature e che diventa più ricca nei suoi momenti bui. Sono quelli che Rocco condivide con la sua Marina, la donna che ama e con la quale vuole ritrovare quel calore e quella serenità perduti al netto del mondo che lo circonda. Sono momenti fatti di gesti, di movimenti, di sguardi nella quotidianità che però non cedono il passo a stucchevolezze di sorta (grazie Antonio!), la divisione fra i due c'è, e c'è un motivo che in questo libro è accennata e nella serie invece si svela nel secondo episodio, ma non è questo che li limita. Il rapporto tra Marina e Rocco è quello di una coppia consolidata e complice, in cui il bacio o la parolina dolce non sono qualificanti come dimostrazioni d'amore. La vera dimostrazione di amore è quella di non voler rompere l'idillio di quei rari momenti insieme, contaminandoli con il male esterno che logora e insudicia la vita fuori, come nel gesto della scena finale di "Pista nera" in cui un insofferente Rocco non vuole dire a sua moglie cosa non va nell'aver risolto un caso: si alza dalla posizione in cui stava dormendo sul divano accanto a lei, si sistema seduto e quando lei insiste, lui si sporge senza un fiato verso il tavolino davanti, la macchina da presa lo inquadra mentre allunga un braccio per prendere una sigaretta e nel contempo incassa la testa nelle spalle e arrotola come un gatto la schiena, mentre la accende. Un modo fisico per dire "non mi costringere a dirlo, parliamo d'altro!". Una sequenza più da teatro che da cinema, perché non prevede parlato e non è l'espressione del volto dell'attore che comanda, quanto l'utilizzo che lui fa della sua fisicità, in quello spazio ristretto, per esprimere una malessere e il derivante peso di portarlo come un fardello dietro ogni giorno che passa. 
A teatro tu non sempre sei davanti, non vedi distintamente la faccia dell'attore, ne scorgi i lineamenti grazie al trucco teatrale che contrasta l'appiattimento delle luci forti di scena: a farla da padrone sono il tono della voce e la fisicità che sottolinea le parole, i gesti, la situazione. Ecco, la scena appena descritta, costruita a dovere con una inquadratura grande come un divano a due posti, la posizione degli attori che quasi si incrociano ma non si toccano, Giallini si sistema ma Isabella Ragonese (Marina) non deve spostare il ginocchio a testimonianza che non sono in contatto, si nutre di movenze appena accennate ma che sono tutta eredità del mondo teatrale. Lei domanda ma non si propende, a sottolineare la distanza, rimane ferma persino quando insiste, quasi non possa superare la linea del cuscino nero ricamato su cui lui poco prima poggiava la testa e che è rimasto lì, in una posizione quasi innaturale ma non casca.

Lo Schiavone di Manzini e quello di Giallini si assomigliano? Diciamo che si completano. Nel passaggio da libro a serie Tv, Rocco perde qualche pensiero espresso in maniera forse un po' brutale (sono pochi però) e qualche sberla di troppo. Giallini lo completa svolgendolo in tutta la sua "romanità" e accentua la dicotomia fra quello che poteva diventare e quello che è. Quello che è il Rocco della serie TV, complice sicuramente la mano di Manzini, è un uomo più verosimigliante perché mantiene le sue caratteristiche di borgata di quartiere povero, ma dimostra la contaminazione subita dalla cultura acquisita nel corso degli studi (l'ennesima dicotomia fra quello che sente di essere e quello che invece è), per cui laddove necessario e solo in estrema ratio e per motivi d'indagine, per esempio, scende a "livello sberla" ma non eccede, come invece nel libro fa. Il confronto con Seba, che nel libro è solo fisico (quest'ultimo viene descritto come un omaccione, quasi un orso, il suo corrispettivo filmico non è così corpulento ma conserva questo spirito rude ma molto più umanizzato e accattivante), sullo schermo diventa il metro con il quale misurare la strada fatta per separarli che però non è bastata a scalzare l'amore amicale. E Rocco vive una profonda dicotomia fra un passato cui appartiene ma che, al contempo, non gli appartiene più.
Meglio la puntata o il libro? Entrambi. Libro e film, o chiamatelo come vi pare, si integrano coprendo alcune sfumature che singolarmente le penalizzano. La profondità dell'indagine viene fuori se la puntata la vedi con attenzione più volte, perché alcuni particolari, nell'incrociarsi degli eventi, non sono così evidenti, per cui in alcuni punti sei distratto e la spiegazione finale un po' galleggia. Il libro ti permette di apprezzare la finezza dell'intuito dell'autore che incastra una situazione perfetta in una trama che, su una ragnatela di indizi che collegati con la giusta sequenza, ha una solidità difficilmente attaccabile e che non richiede ulteriori spiegazioni.

Della carriera di Manzini, di quella di Giallini, che da il nome al percorso, delle altre "notiziole" di contorno alla serie e al rapporto dei citati con Schiavone ne riparleremo di volta in volta. Strano a dirsi per me che sapevo praticamente nulla su tutti e tre, ma tra interviste, conferenze, articoli ci sono mille sfumature che ridefiniscono l'immagine generale e che è difficile sintetizzare se non con il rischio di sembrare pedanti o peggio dei "fan sfegatati" ovvero il corrispettivo, se esiste, del nerd nel mondo della fantascienza. Il percorso non nasce per ingigantire un mito, che in parte già c'è ed è composto di un seguito corposo per entrambi, ma per capire quali siano i meccanismi che lo rendono caro ad un pubblico trasversale, tra lettori e non lettori, anziani e giovani e di estrazione sociale e culturale differente.  La forchetta del gradimento è talmente ampia che io davvero ho glissato Manzini scientemente pensando il solito "caso letterario", cosa che invece a conti fatti non è, o se lo sembra, utilizza questo suo potere per continuare a fare la differenza non soltanto con l'impegno verso il sociale, inserendone i temi scottanti nelle sue trame, ma anche non scendendo a patti con una forma narrativa semplice, ricercando una formula invece più ricercata che si nutre anche della parola sconosciuta o desueta proposta in maniera da non essere di fastidio anche a chi non vuole sentirsi in difficoltà.
Però un paio di note di folklore possiamo aggiungerle anche qui:
- riguardo il libro: Manzini, in una presentazione dice che "Pista nera" nasce proprio a Champoluc, in una gita fatta con la sorella e il marito. Avevano perso la funivia per risalire al rifugio che li avrebbe ospitati e quindi hanno dovuto risalire con il gatto delle nevi e in quella occasione Manzini si domandò " e se passiamo sopra una persona?". In un'altra presentazione integra la storia dicendo che dopo questo pensiero, l'ispirazione è stata così forte da aver passato l'intera settimana di vacanza a scrivere invece che a sciare.
- riguardo la serie: Ogni volta che si chiede a Manzini dell'insana cocciutaggine di Schiavone nel continuare ad indossare Clark e Loden se lo si osserva bene a lui viene da ridere sotto i baffi che non ha. In una delle tante presentazioni di libri si capisce il perché quando spiega che, all'inizio delle riprese televisive, alle due di notte il telefono squillava e quando rispondeva una voce (di Giallini) esclamava solo "Manzini! Mortacci tua!" e buttava giù. Riguardo il Loden in particolare invece ha una risposta più articolata: è un accessorio che in montagna è un cappotto primaverile ma per uno che è sempre vissuto a Roma e il massimo dell'altitudine frequentata è Monte Mario (300 mt) è naturale considerarlo un cappotto invernale. Questo la dice molto sui pezzi che hanno composto il grande puzzle che è Schiavone.

Sperando che non siate morti di inedia, vi do appuntamento al prossimo libro per questo percorso. I libri che compongono la prima stagione sono quattro romanzi e due racconti. Per chi non lo sapesse, la prima stagione di Rocco Schiavone che sta andando in replica in questa settimana da fine agosto è visibile su RaiPlay e su Prime Video di Amazon (disponibile per i clienti Prime).
Buone letture e buona visione,
Simona Scravaglieri 


Pista nera
Antonio Manzini
Sellerio editore Palermo, ed. 2013
Collana "La memoria"
Prezzo 13,00€
Ebook 8,99€





2 commenti:

  1. Ciao! Io sono una fan sia dei romanzi che della serie tv… e concordo con tutto quello che hai scritto. Davvero un'ottima analisi di un personaggio non facile e di un attore che secondo me non potrebbe far meglio di così :-)

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    Risposte
    1. Ciao Silvia, sono contenta che tu sia del mio stesso avviso! :)
      Ti aspetto per i prossimi post dedicati all'argomento allora! Buon pomeriggio, Simona

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