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La storia non è altro che una compilazione delle deposizioni fatte dagli assassini circa le loro vittime e sé stessi.
Simone Weil
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Fonte: Necronomicon |
Fonte: Letture Sconclusionate |
Fonte: Archivio iconografico del Verbano Cusio Ossola |
UNO
Le prime avvisaglie dell’autunno spingono Adelmo Farandola a scendere in paese per fare provviste. La mattina, uscendo dalla baita, vede attorno alla malga l’erba dei prati intrisa di brina che stenta a sciogliersi. Venti gelidi insistono lungo il vallone, si insinuano fin tra le pareti della baita, sembrano battere alla porta, di giorno e di notte. Le nuvole si ingrossano, gravano sulle cose, e niente le sfilaccia più dalle pareti di roccia.
Giù in paese, allora, prima che sia troppo tardi e una nevicata renda difficoltoso il cammino.
Adelmo Farandola cammina, zaino in spalla. Ha bisogno di carne secca, salsicce, vino e burro. Le patate che ha messo da parte basteranno per tutto l’inverno. Ora riposano nella stalla, al buio, accanto ai vecchi utensili dell’alpe, i bigonci, le cavezze, le zangole, le catene, le spazzole, e protendono i germogli pallidi come per fare il solletico. Le patate ci sono, le mele anche – cassette di mele che il freddo renderà ingrugnite, lasciandole però commestibili. Adelmo Farandola ama il gusto di quelle mele brutte, un gusto che gli allappa i denti, si afferra a lungo ai peli delle narici, e sa un po’ di carne, di quella carne frolla che si avanza dopo una caccia abbondante. Anche le mele ci sono, e basteranno per l’inverno. Salsicce ci vogliono, e vino. Vino e burro. Burro e sale.
Il vento lo piega da un lato, mentre scende al paese. La fatica lo sorprende, e lo fa quasi ridere il pensiero di quanto faticherà al ritorno, in salita, con quel vento. Il sentiero scivola giù per canaloni e pianori, e talora scompare tra le vecchie ceppaie sfatte, tra l’erba alta, o il pietrame in perenne movimento, ma l’uomo sa come non perdere la strada.
Qui, a mezza costa, l’autunno colora i larici di un giallo scialbo. Non è l’autunno allegro e sfrontato del fondovalle, la tavolozza esasperata dei vigneti e dei boschi di ontani e castagni. Le foglie qui muoiono subito, si seccano subito sui rami, prima ancora di cadere.
In passato Adelmo Farandola si recava al paese più spesso, per ascoltare la banda nei giorni di festa solenne. Si nascondeva dietro i muri delle case, e lasciava che il suono della banda gli giungesse confuso. Ma aveva smesso presto di farlo, perché qualcuno lo aveva visto, gli era andato incontro con la mano tesa a stringere la sua, aveva cercato di scambiare due chiacchiere. Ora gli capita di scendere fino a metà della fascia di faggi, e di ascoltare le bande da lassù, ben protetto dalle foglie e dai tronchi. La musica sale indistinta, un pasticcio di colpi di grancassa, tube e stridori di clarini, oscillante nel vento, ma a lui basta questo, e a volte gli capita anche di riconoscere una melodia o l’altra, e gli viene addirittura voglia di canticchiarla, e allora lo fa, ma pianissimo, perché non vorrebbe essere scoperto da qualcuno che passa da quelle parti, pronto ad andargli incontro e a stringergli la mano e a non lasciargliela e a chiedergli cose che lui non sa, non si ricorda o non vuole sapere o non vuole dire.
Dopo qualche minuto, però, anche la banda gli dà la nausea. Gli sembrano troppi, troppo accalcati, troppo rumorosi, troppo allegri. Allora sputa per terra, si gira, riprende l’erta verso casa, dicendosi che quella banda suona proprio male, che gli abitanti del paese sono tutti stupidi, e che la musica non serve a nulla.
Ma gli capita anche di sognarla, quella banda, e nel sogno sente suonare melodie bellissime, da musicisti perfettamente intonati. E senza paura si mette in coda alla banda, li segue e canta a voce spiegata quella musica che gli ricorderebbe antichi momenti di gioventù se avesse conservato quei ricordi per intero, balli con le ragazze, e soprattutto risse e lotte con gli altri pretendenti, lunghe chiacchierate con ragazze, fatte per lo più di silenzi e sospiri e singhiozzi da ubriaco.
Una vaga sensazione coglie Adelmo Farandola alle prime case del paese. Si guarda attorno, e tutto gli sembra meno estraneo di quanto gli accade di solito, quando torna a rifornirsi dopo mesi di solitudine sull’alpe. Prende sicuro la via principale, l’unica che possa dirsi via, e si dirige con una facilità che lo stupisce verso il negozio, l’unico che possa dirsi tale. La bottega si affaccia, con una vetrina ingombra di attrezzi impolverati e oggetti da regalo che la lunga esposizione al sole ha reso quasi incolori, sulla piazza della pieve, l’unica piazza che possa dirsi piazza. Lì si vende di tutto, alimentari e arnesi agricoli, biancheria e giornali, pure qualche ninnolo da donna. Adelmo Farandola entra, chinando naturalmente il capo all’ingresso, come si fa per timore quando si entra in chiesa, o come fa sempre lui per non sbattere contro il basso architrave della baita.
La donna del negozio lo guarda sorpresa, gli sorride.
– Buongiorno – gli dice, – lasci pure aperta la porta, grazie.
– Buongiorno a lei – dice Adelmo Farandola, con lentezza.
A non parlare per tanto tempo fatica a far uscire le frasi, e ogni parola gli sembra difficile come uno scioglilingua. Per distrazione, chiude dietro di sé la porta.
– Dimenticato qualcosa?
– No, io... dovrei prendere cose.
– Appunto, dico. Cose che si è dimenticato l’altra volta. L’altra volta, rimugina lui.
– La scorsa settimana, sì. Cos’era, martedì, mercoledì. Si ricorda lei?
– Io... io sono venuto a fare provviste. – Questo l’ho capito. Ma visto che è già venuto a fare provviste con quella stessa faccia la settimana scorsa, per l’inverno, io le sto chiedendo se per caso ha dimenticato qualcosa, e che cosa ha dimenticato l’altra volta di così importante, visto che non è proprio una passeggiata quella che deve fare per scendere fin qui, e poi risalire non ho mai capito bene dove.
La donna ha la lingua allenata alla chiacchiera. Adelmo Farandola invece, avvezzo ai silenzi di mesi, ha perso la capacità di ascoltare, oltre a quella di esprimersi.
– E visto che l’altra volta, insomma quel martedì o mercoledì della scorsa settimana lei, caro mio, si è caricato di un bel po’ di roba, mi chiedevo appunto che cosa mai avesse dimenticato. O è passato di qui solo per salutarmi? – ride la donna, una bella risata lunghissima che fa venire i brividi al povero Adelmo Farandola e la voglia di scappare dalla bottega senza comprare nulla.
– Io... non sono sceso dall’aprile scorso... – balbetta lui, invece, con grande sforzo.
– Ma se le dico che l’ho vista qui! Martedì o mercoledì! Mi prende in giro?
– No, io...
Entra un altro cliente, un vecchio del paese che una volta riparava attrezzi. Il campanello della porta fa sobbalzare Adelmo Farandola e gli fa fare un passo indietro, verso un angolo buio. Il vecchio annusa e ride.
– Ti è andato a male qualcosa? – dice alla donna.
– Benito! – ride la donna al nuovo arrivato.
– Il signor Adelmo vuole scherzare, e finge di non ricordarsi che è passato di qui la scorsa settimana a svuotarmi il negozio per l’inverno.
Lascia pure aperta la porta, grazie. Il vecchio ride ancora, si passa le dita sui baffi ingrigiti, non dice nulla.
– Io non sono sceso da aprile – balbetta ancora Adelmo Farandola. Il vecchio ride e tace.
– Diglielo tu, Benito, che martedì o mercoledì il signore era qui, e mi ha saccheggiato il negozio.
– Eh, ti ho visto anch’io – ride il vecchio.
– Ma dove? – Proprio qui fuori, per la strada. Carico come un mulo.
– Ecco, che le dicevo? – fa la donna, con aria di trionfo.
– Ma il signor Adelmo qui ha sempre voglia di scherzare, fingeva di non ricordarsi.
Adelmo Farandola tace a sua volta. Non scherza mai, lui, non sa scherzare, non sa nemmeno cosa vuol dire scherzare, se mai gli venisse in mente di scherzare nessuno se ne accorgerebbe, perché non sa scherzare, e al massimo lo prenderebbero per scemo, come sta capitando adesso.
– Allora, che cosa vuole? – dice la donna, ora più sbrigativa, visto che è arrivato un altro cliente.
– Ecco, io... Io... – Lei, sì.
– Io non mi ricordo esattamente che cosa ho preso l’altra volta... – Come non ricorda? Il vecchio ride per conto suo, di fronte alla smemoratezza del montanaro. – Non ricordo che cosa ho comprato... perché a me servirebbe del sale...
– Ma se gliene ho dato tre pacchi!
– ...del burro...
– Tre chili! E che ci fa con tutto quel burro?
– ...del vino...
– Eh, quello non è mai abbastanza – ride il vecchio.
– Una damigiana non le basta? Quando l’ho vista partire carico di tutta quella roba ho pensato che non ce l’avrebbe mai fatta fin lassù! Ma come ci è riuscito, a proposito? – E poi, di nuovo ammiccando: – Non mi dirà che ha già finito quel ben di dio. Il vecchio ride, ride.
– Il vino si finisce in fretta! – ride.
Basta, alla fine, per non partire di lì a mani vuote, Adelmo Farandola compra due bottiglioni di rosso e tre paia di calzettoni di lana. Paga con grosse banconote attorcigliate e bisunte, che la donna con un sospiro prende in mano. Ed esce, nel vento già invernale.
Fonte: Zingarate |
Fonte: Il Post |
Fonte: Epic Reads |
Marilyn Fonte: SodaPDF+ |
Dove siamo quando leggiamo? In quale tempo e in quale spazio ha propriamente luogo il singolare, fragile evento della lettura? Qual è lo statuto della nostra soggettività mentre sul libro, di frase in frase, si mobilitano insieme l'orecchio e lo sguardo, l'immaginazione e la voce?Una volta un grande scrittore del Novecento, Thomas Mann, ha raccontato una sua esperienza di lettura intrecciandola ad una esperienza di viaggio. Una traversata con Don Chischiotte, il «feuilleton» scritto da Mann nel 1934 dopo aver lasciato la Germania nazista, era appunto il diario della sua prima navigazione verso gli Stati Uniti d'America. Ma sin dall'inizio lo scrittore in esilio aveva preso la sua decisione: ad accompagnarlo in un «viaggio mondiale» doveva essere il «libro mondiale» di Cervantes; e in questo modo «l'avventura dello scriverlo» trovava il corrispettivo nell'avventura, per così dire sdoppiata, «rappresentata dal leggerlo» e dalla navigazione attraverso l'Atlantico, sulla base labile di un piroscafo nelle alterne congiunture della vita di bordo. D fatto, l'esperienza riflessa dei luoghi del Chisciotte e del suo epos intriso di humor si avvicendava o si confondeva di continuo con i luoghi del lettore, in una poltrona a tettuccio sopra coperta con lusso placcato della social hall, tra una conversazione sul tempo e il ricordo struggente della Germania perduta. Ma quando il lettore alzava gli occhi dal libro, ecco che il pathos comico del Chisciotte, con la sua vertiginosa alchimia di avvilimento e esaltazione, pareva riverberarsi nei luoghi circostanti e colorirne la percezione si trattasse di una partita a shuffle board o dei volenterosi sforzi artistici dell'orchestrina di bordo tra i segni grigi variamente dissimulati della Grande Depressione. Intanto, navigando in questo «oceano narrativo», il lettore entrava in contatto con il tempo nascosto ma operante della tradizione o della biblioteca del romanzo moderno, che l'autore in progress della saga di Giuseppe esplorava attraverso le parole di Cervantes per accordarla al proprio disegno inquieto di ritrovare e umanizzare il mito. E alla fine del viaggio, oltre che del libro, mentre tra la nebbia cominciava a profilarsi giganteschi grattacieli di Manhattan, nella mente del lettore il volto di Don Chisciotte poteva assumere dei tratti alteri ma insieme commoventi di Nietzsche, fra le speranze, le inquietudini, le illusioni di un'Europa turbata alla ricerca di un nuovo umanesimo e di se stessa.
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Fonte: LettureSconclusionate |
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I
Era l’ultimo giorno di luglio. La lunga estate calda volgeva al termine, e noi, stremati pellegrini del selciato di Londra, cominciavamo a pensare all’ombra delle nuvole sui campi di grano, e alle brezze d’autunno in riva al mare.
Quanto a me, quel che restava dell’estate mi lasciava senza forze, senza allegria, e, a dire il vero, anche senza soldi. Nel corso di quell’anno non avevo amministrato i miei guadagni con la solita attenzione; e la mia prodigalità ora mi condannava a un autunno da trascorrere all’insegna del risparmio, dividendomi tra il villino di mia madre a Hampstead e il mio modesto appartamento in città.
La sera, ricordo, era immobile e nuvolosa; l’aria di Londra era pesante più che mai, e il ronzio del traffico, che proveniva in lontananza dalla strada, pareva invece più debole del solito; quel po’ di vita che batteva timido dentro di me e il grande cuore della città che mi pulsava intorno sembravano affondare all’unisono, sempre più languidi, insieme al sole che calava all’orizzonte. Mi sollevai dal libro su cui, dimentico della lettura, stavo sognando, e lasciai il mio appartamento per andare incontro all’aria fredda della notte, nei sobborghi. Quella era infatti una delle due sere a settimana che avevo l’abitudine di trascorrere assieme a mia madre e mia sorella. Così mi diressi verso nord, in direzione di Hampstead.
Alcuni avvenimenti, cui non ho ancora accennato, rendono a questo punto necessaria una precisazione da parte mia: a quel tempo mio padre era già morto da alcuni anni; e mia sorella Sarah e io eravamo gli unici sopravvissuti di una famiglia di cinque figli. Anche mio padre, come me, era stato insegnante di disegno. Aveva faticato molto, ed era riuscito a ottenere grandi soddisfazioni professionali; e il suo affetto, la sua ansia di provvedere al futuro di quanti dipendevano dal suo lavoro l’avevano indotto, fin dai primi anni di matrimonio, a investire in un’assicurazione sulla vita una parte dei suoi guadagni assai più consistente di quella che in genere un padre di famiglia ritiene necessario risparmiare a tale scopo. Grazie alla sua ammirevole prudenza e abnegazione mia madre e mia sorella, dopo la sua morte, poterono contare solo sui loro risparmi, senza dover chiedere aiuto a nessuno. Io ereditai la sua clientela, e potei dirmi davvero grato per le prospettive che mi si aprivano davanti alla mia giovane età.
Il placido crepuscolo tremava ancora sulle creste più alte della brughiera, e sotto di me Londra pareva sprofondata in un golfo di tenebre nell’ombra di quella notte nuvolosa, quando arrivai davanti al cancello del villino di mia madre. Non avevo ancora suonato il campanello che la porta di casa si spalancò con violenza; al posto del cameriere comparve il mio caro amico italiano, il professor Pesca, che si precipitò gioiosamente a ricevermi, con la sua garrula parodia di un tipico benvenuto all’inglese.
Per rendere giustizia al suo ruolo in questa vicenda e, mi sia concesso aggiungere, anche al mio, il professore merita l’onore di una presentazione formale. Un caso del destino aveva voluto che fosse proprio lui il punto di partenza della strana vicenda familiare che queste pagine hanno lo scopo di rivelare.
Avevo incontrato per la prima volta il mio amico italiano in casa di una famiglia piuttosto in vista, dove egli insegnava la sua lingua e io il disegno. Tutto ciò che sapevo allora sulla sua storia personale era che un tempo aveva goduto di un certo prestigio presso l’Università di Padova; che aveva lasciato l’Italia per motivi politici (la natura dei quali egli si asteneva con chiunque dal rivelare); e che da molti anni s’era rispettabilmente sistemato a Londra come insegnante di lingue.
Pur non essendo un vero e proprio nano –giacché era perfettamente proporzionato dalla testa ai piedi –Pesca era, credo, il più piccolo essere umano che io abbia mai incontrato fuori da una fiera. Già di per sé appariscente, a causa del suo aspetto fisico, egli si distingueva ulteriormente tra i ranghi e le file del genere umano per via dell’innocua eccentricità del suo carattere. Una sola idea sembrava dominare la sua vita: sentiva di dover dimostrare la sua gratitudine al paese che gli aveva offerto asilo e mezzi di sussistenza facendo tutto il possibile per trasformarsi in un perfetto gentiluomo inglese. Non contento di pagare il suo tributo alla nazione portando sempre sottobraccio un ombrello e indossando invariabilmente ghette e cappello bianco, il professore ambiva a diventare inglese anche nelle abitudini e negli svaghi, oltre che nell’aspetto fisico. Considerandoci del tutto eccezionali, come nazione, in virtù della nostra passione per l’esercizio fisico, quest’omettino dal cuore tanto ingenuo, ogni volta che ne aveva l’occasione, si votava con entusiasmo a tutti i nostri sport e passatempi inglesi: fermamente convinto di poter adottare l’intera varietà dei nostri svaghi nazionali con un semplice sforzo di volontà, proprio come aveva adottato le nostre ghette nazionali e il nostro nazional cappello bianco.
L’avevo visto rischiare botte e lividi buttandosi alla cieca in una caccia alla volpe o in un campo di cricket; e poco dopo lo vidi rischiare la vita, sempre alla cieca, in mezzo al mare al largo di Brighton.
C’eravamo incontrati lì per caso e stavamo facendo il bagno insieme. Se fossimo stati alle prese con qualche esercizio tipico della mia nazione avrei dovuto, naturalmente, tenerlo d’occhio con grande attenzione; ma poiché in genere, nell’acqua, gli stranieri sono in grado di badare a se stessi né più né meno di noi inglesi, non mi passò neppure per la testa che l’arte del nuoto potesse costituire semplicemente una variante in più sulla lista dei virili esercizi che il professore riteneva di poter apprendere all’impronta. Appena ci fummo entrambi allontanati dalla riva, vedendo che il mio amico non era più accanto a me, mi fermai, e mi guardai intorno per cercarlo. Con mio grande orrore e stupore, non vidi altro, tra la spiaggia e me, che due minuscole braccine bianche che lottavano per un istante sulla superficie dell’acqua, per poi sparire subito nel nulla. Quando mi tuffai sott’acqua per salvarlo, il poveretto giaceva buono buono sul fondo, raggomitolato in un avvallamento del greto, e mi parve di gran lunga più piccolo del solito. In quei pochi minuti che trascorsero mentre lo riportavo a riva, l’aria lo fece rinvenire, ed egli riuscì a salire i gradini del trampolino con il mio aiuto. Mentre a poco a poco recuperava le forze, lentamente tornò a farsi strada in lui lo splendido miraggio del nuoto. Non appena smise di battere i denti, e fu in grado di parlare, sorrise debolmente, e disse che doveva essersi trattato di un crampo.
Quando si fu ripreso del tutto mi raggiunse sulla spiaggia, e la sua calda indole mediterranea spazzò via in un momento ogni britannico contegno. Mi travolse con le più selvagge manifestazioni d’affetto –esclamò entusiasta, con quel suo modo di fare esagerato, tipicamente italiano, che da quel momento la sua vita era a mia disposizione –e dichiarò che non sarebbe mai più stato felice finché non avesse trovato il modo di provarmi la sua gratitudine, rendendomi qualche servigio che non avrei più dimenticato fino alla fine dei miei giorni.
Feci del mio meglio per arginare quel fiume di lacrime e proteste, insistendo nel voler considerare tutta quell’avventura soltanto come un buon argomento per qualche risata tra amici; e alla fine riuscii, come avevo immaginato, a ridimensionare l’eccessiva gratitudine di Pesca nei miei confronti. Mai avrei potuto pensare, allora –e anche dopo, quando la nostra piacevole vacanza volse al termine –che quell’opportunità di sdebitarsi, tanto ardentemente auspicata dal mio amico, si sarebbe presentata di lì a poco: che egli l’avrebbe afferrata all’istante; e che così facendo avrebbe convogliato l’intera corrente della mia esistenza verso un corso assolutamente nuovo, rendendomi quasi irriconoscibile a me stesso.
Eppure così fu. Se non mi fossi tuffato a salvare il professor Pesca quando giaceva sott’acqua nel suo letto di ghiaia, con ogni probabilità non sarei mai stato coinvolto nella storia che queste pagine stanno per raccontare –e forse non avrei neppure sentito nominare quella donna che ha popolato ogni mio pensiero, che si è impossessata di tutte le mie energie e che ormai è diventata l’unica guida, e l’unico scopo, della mia esistenza.
Fonte: Decorating Files |