domenica 28 settembre 2014

L'ha detto... Audrey Hepburn


Fonte: Pinterest


L'eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai. 
Audrey Hepburn



venerdì 26 settembre 2014

"La Signora Harris va a New York", Paul Gallico - I sogni son desideri...

Fonte: oztypewriter



Visto che il libro di questa settimana non pare sortire effetti positivi, come avete potuto leggere Mercoledì, oggi vi parlo di una bella fiaba. 

C'era una volta a Londra una signora, vedova, che sbarcava il lunario, nell'immediato dopoguerra, facendo le pulizie a casa di famiglie aristocratiche o ricche. La signora Harris, questo era il suo nome,aveva una amica con la quale si riuniva ogni sera per il rito del tè. Quest'ultima faceva solitamente la cuoca, abitava nel quartiere e garantiva alla signora Harris la possibilità , non solo di fare quattro chiacchiere e coltivare n'amicizia sincera ma anche, di poter sempre avere, in cambio dei proprio, pettegolezzi freschi riguardanti le persone da cui andavano a servizio. 

Accanto alle due donne viveva un'altra famiglia numerosa e antipatica, i Gusset, che avevano avuto in passato a che fare con una servetta divorziata che, per seguire il nuovo amore, gli aveva lasciato a tempo indeterminato il figlioletto nato dal suo matrimonio con un soldato americano che aveva voluto a tutti i costi tornare in patria. Inutile dire che il povero ragazzino veniva maltrattato dai figli della coppia e dai due adulti. La signora Harris e la sua amica si interrogavano su che fare per ritrovare il padre del ragazzo e un giorno... Un'occasione, un viaggio verso la Grande Mela e comincia l'avventura!

Non è scritto in uno stile contemporaneo, ma è tradotto veramente bene,  è  leggero, proprio come dovrebbe essere una fiaba. La scrittura ha il sapore di quella proposta nella letteratura di consumo della  metà del '900 che poi è il periodo in cui è stato scritto (1960) ed è senza pretese. ne esce fuori un lavoro delizioso, pieno di buoni sentimenti e di positività. I personaggi che mano a mano entrano nella trama a seconda delle situazioni sono ben caratterizzati e pertinenti. In più, come tutte le favole ha una piccola morale: è un invito a seguire  i nostri sogni e desideri con impegno e lealtà.

Per questo motivo, per lo stile in cui è scritto, per l'insieme delle situazioni proposte, a mio avviso, è un ottimo libro da far leggere o da leggere con i ragazzi. Non annoia, ha un buon ritmo e si lascia leggere senza problemi. La nostra signora Harris, nel suo modo di vedere il mondo e gli uomini di potere e non ricorda lontanamente Forrest Gump, ma solo nella sua positività e ingenuità.
Mi è capitato fra le mani per caso e l'ho veramente adorato e ve lo segnalo volentieri. 

E' bello pensare che anche un libro leggero di ieri, ancora oggi riesca a suscitare interesse e divertimento nei lettori, non trovate?
Buone letture,
Simona Scravaglieri

La signora Harris va a NewYork
Paul Gallico
Tradotto da: Francesca Pè
Frassinelli Editore, Ed. 2013
Collana "Narrativa"
Prezzo 14,88€
Ebook 9,99€


Fonte: LettureSconclusionate

mercoledì 24 settembre 2014

[Dal libro che sto leggendo] Lo strano caso dell'apprendista libraia



Fonte: BlogLive



Quello di cui leggerete oggi è la prima parte del primo capitolo de "Lo strano caso dell'apprendista libraia". Oggi - martedì 23 - mentre tornavo a casa pensavo a due coincidenze: Settembre 2013 "La verità sul caso Harry Quebert" Settembre 2014 "Lo strano caso dell'apprendista libraia". Mesi simili, casi letterari entrambi a quanto pare e appartenenti alla medesima categoria ovvero i romanzi. Ma le analogie, a quanto sembra - non l'ho ancora finito questo libro! - pare non finiscano qui.

Hanno entrambi una predilezione per dialoghi assolutamente ininfluenti e nel ripetersi nelle descrizioni e nei "momenti bui". Ieri, per Dicker, era sempre la storia della ragazza scomparsa oggi per la Meyler è la luce di New York. Quando c'è un buco, un momento in cui bisogna dare alla storia una svolta introspettiva, la nostra eroina declina frasi, senza alcun peso o poetica di sorta, su quanto l'affascini la luce della grande mela. E ancora una volta, davanti ad un romanzo "romantico" mi trovo a domandarmi: ma possibile mai che questo sia l'unico modo di raccontare l'amore? L'amore non può essere per le donne romantiche un sentimento al netto delle frasi cretine e dei nomignoli idioti? Possibile che una donna lasciata deve raccontarmi minuto per minuto la sua sofferenza tralasciando il tema principale per il quale sembra la storia stia in piedi?

Chissà, magari, più in là migliora...
Speriamo.
Buone letture,
Simona Scravaglieri

P.s. Anche le lettrici sconclusionate a volte ritornano...:D


I. 
Io, Esme Garland, detesto le complicazioni. E questa è una vera sfortuna, perché da quando mi sono svegliata stamattina ho la brutta sensazione che da un momento all’altro me ne capiterà una. Bevo il mio tè e mi chiedo se ho dimenticato di consegnare una tesina, di pagare l’affitto oppure di dare la pappa al gatto di Stella. Non mi viene in mente niente. Rifletto sul fatto che la probabilità di incorrere di una complicazione seria è piuttosto remota, visto che non riesco neppure a immaginarmela. Riprendo a bere il tè e guardo la Broadway sotto la mia finestra.
I grattacieli di New York spiccano così netti contro la luce del sole che sembrano ritagliati da un bambino sul cartoncino nero. Il sole del mattino invade le vie trasversali e lascia in ombra il lato est delle avenue. Questa luce così limpida è una delle cose che mi piacciono di più. La luce limpida, la gente limpida.
Mi piace svegliarmi con il sole che invade la stanza. Quando sono arrivata qui, pensavo di ritrovarmi in una cameretta da studente, con una finestra minuscola affacciata sulla scala antincendio. Invece in agosto ho aperto la porta di questo appartamento e la prima cosa che mi ha colpito è stata proprio la luce così invadente. È uno studio, due locali con bagno. Però la parola mi piace, dà l’impressione di essere come quegli artisti morti di fame che hanno abitato in minuscole soffitte per secoli. Si trova esattamente sopra un minimarket aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, quindi non è quello che propriamente si dice silenzioso, ma ha una bella vista sulla Broadway, che si insinua come un ruscello nel rigido reticolato delle strade di Manhattan. Ormai è ottobre, ma continua a farmi effetto.
Irv Franks, del 14D, sta calando il cestino davanti alla mia finestra, con la solita lista della spesa e un biglietto da venti dollari attaccato al filo. Come sempre uno dei coreani del negozio di sotto sta aspettando il cestino. Sì, sta sorridendo, me lo immaginavo. Chiunque, da qualsiasi paese provenga, sa quanto sia piacevole riprodurre la vita del villaggio in questo modo; e tutti sono contenti che funzioni ancora.
Non sono venuta a New York per evadere dai confini della mia cittadina inglese. Non pensavo che New York mi avrebbe aiutato a esprimere al meglio la mia personalità, e neppure che avrebbe contribuito a rinvigorire il mio animo depresso. Il mio animo si deprime assai raramente. Non ho commesso l’errore, o nutrito la speranza, di pensare che New York sarebbe stata il santuario della mia redenzione. La Columbia University mi ha offerto un posto dove studiare storia dell’arte, e in più mi ha messo a disposizione una borsa di studio. Nessun altro mi aveva offerto soldi.
Ecco perché sono venuta qui. All’inizio, la situazione non sembrava promettente. Sono arrivata come tutti gli altri, dopo aver giurato di non essere una spia o colpevole di depravazione morale, e di non portare lumache con me. Nei primi sconvolgenti minuti fuori dal JFK, un venerdì notte di pioggia, ho visto taxi gialli sfrecciare per la strada mentre inservienti dell’aeroporto si lanciavano insulti e limousine lucide passavano in mezzo a quel manicomio: sembrava di essere sull’orlo del caos. Come tanti altri, anch’io ho pensato: “Impossibile, non ce la farò mai”. Ma poi ce la si fa, eccome. Si riesce a entrare in città di sera senza venire uccisi, e a svegliarsi il giorno successivo ancora vivi, e un attimo dopo ci si ritrova a passeggiare sulla Broadway sotto il sole.
Questo pezzo è tratto da:

Lo strano caso dell'apprendista libraia
Deborah Mayler
Garzanti Editore, Ed. 2014
Prezzo 16,40€

- Posted using BlogPress from my iPad

[Dal libro che sto leggendo] Lo strano caso dell'apprendista libraia


Fonte: BlogLive



Quello di cui leggerete oggi è la prima parte del primo capitolo de "Lo strano caso dell'apprendista libraia". Oggi - martedì 23 - mentre tornavo a casa pensavo a due coincidenze: Settembre 2013 "La verità sul caso Harry Quebert" Settembre 2014 "Lo strano caso dell'apprendista libraia". Mesi simili, casi letterari entrambi a quanto pare e appartenenti alla medesima categoria ovvero i romanzi. Ma le analogie, a quanto sembra - non l'ho ancora finito questo libro! - pare non finiscano qui.

Hanno entrambi una predilezione per dialoghi assolutamente ininfluenti e nel ripetersi nelle descrizioni e nei "momenti bui". Ieri, per Dicker, era sempre la storia della ragazza scomparsa oggi per la Meyler è la luce di New York. Quando c'è un buco, un momento in cui bisogna dare alla storia una svolta introspettiva, la nostra eroina declina frasi, senza alcun peso o poetica di sorta, su quanto l'affascini la luce della grande mela. E ancora una volta, davanti ad un romanzo "romantico" mi trovo a domandarmi: ma possibile mai che questo sia l'unico modo di raccontare l'amore? L'amore non può essere per le donne romantiche un sentimento al netto delle frasi cretine e dei nomignoli idioti? Possibile che una donna lasciata deve raccontarmi minuto per minuto la sua sofferenza tralasciando il tema principale per il quale sembra la storia stia in piedi?

Chissà, magari, più in là migliora...
Speriamo.
Buone letture,
Simona Scravaglieri

P.s. Anche le lettrici sconclusionate a volte ritornano...:D


I. 
Io, Esme Garland, detesto le complicazioni. E questa è una vera sfortuna, perché da quando mi sono svegliata stamattina ho la brutta sensazione che da un momento all’altro me ne capiterà una. Bevo il mio tè e mi chiedo se ho dimenticato di consegnare una tesina, di pagare l’affitto oppure di dare la pappa al gatto di Stella. Non mi viene in mente niente. Rifletto sul fatto che la probabilità di incorrere di una complicazione seria è piuttosto remota, visto che non riesco neppure a immaginarmela. Riprendo a bere il tè e guardo la Broadway sotto la mia finestra.
I grattacieli di New York spiccano così netti contro la luce del sole che sembrano ritagliati da un bambino sul cartoncino nero. Il sole del mattino invade le vie trasversali e lascia in ombra il lato est delle avenue. Questa luce così limpida è una delle cose che mi piacciono di più. La luce limpida, la gente limpida.
Mi piace svegliarmi con il sole che invade la stanza. Quando sono arrivata qui, pensavo di ritrovarmi in una cameretta da studente, con una finestra minuscola affacciata sulla scala antincendio. Invece in agosto ho aperto la porta di questo appartamento e la prima cosa che mi ha colpito è stata proprio la luce così invadente. È uno studio, due locali con bagno. Però la parola mi piace, dà l’impressione di essere come quegli artisti morti di fame che hanno abitato in minuscole soffitte per secoli. Si trova esattamente sopra un minimarket aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, quindi non è quello che propriamente si dice silenzioso, ma ha una bella vista sulla Broadway, che si insinua come un ruscello nel rigido reticolato delle strade di Manhattan. Ormai è ottobre, ma continua a farmi effetto.
Irv Franks, del 14D, sta calando il cestino davanti alla mia finestra, con la solita lista della spesa e un biglietto da venti dollari attaccato al filo. Come sempre uno dei coreani del negozio di sotto sta aspettando il cestino. Sì, sta sorridendo, me lo immaginavo. Chiunque, da qualsiasi paese provenga, sa quanto sia piacevole riprodurre la vita del villaggio in questo modo; e tutti sono contenti che funzioni ancora.
Non sono venuta a New York per evadere dai confini della mia cittadina inglese. Non pensavo che New York mi avrebbe aiutato a esprimere al meglio la mia personalità, e neppure che avrebbe contribuito a rinvigorire il mio animo depresso. Il mio animo si deprime assai raramente. Non ho commesso l’errore, o nutrito la speranza, di pensare che New York sarebbe stata il santuario della mia redenzione. La Columbia University mi ha offerto un posto dove studiare storia dell’arte, e in più mi ha messo a disposizione una borsa di studio. Nessun altro mi aveva offerto soldi.
Ecco perché sono venuta qui. All’inizio, la situazione non sembrava promettente. Sono arrivata come tutti gli altri, dopo aver giurato di non essere una spia o colpevole di depravazione morale, e di non portare lumache con me. Nei primi sconvolgenti minuti fuori dal JFK, un venerdì notte di pioggia, ho visto taxi gialli sfrecciare per la strada mentre inservienti dell’aeroporto si lanciavano insulti e limousine lucide passavano in mezzo a quel manicomio: sembrava di essere sull’orlo del caos. Come tanti altri, anch’io ho pensato: “Impossibile, non ce la farò mai”. Ma poi ce la si fa, eccome. Si riesce a entrare in città di sera senza venire uccisi, e a svegliarsi il giorno successivo ancora vivi, e un attimo dopo ci si ritrova a passeggiare sulla Broadway sotto il sole.
Questo pezzo è tratto da:

Lo strano caso dell'apprendista libraia
Deborah Mayler
Garzanti Editore, Ed. 2014
Prezzo 16,40€

- Posted using BlogPress from my iPad

domenica 14 settembre 2014

L'ha detto...Milan Kundera


Fonte: Flikr

Sapevo soltanto che non sapevo nulla. 
 Milan Kundera

mercoledì 10 settembre 2014

Ferie...

Fonte: LettureSconclusionate
Ogni tanto bisogna arrendersi all'evidenza, è stata un'estate un po' impegnativa e io sono un po' arrivata, pertanto mi prendo qualche giorno di ferie per poter riprendere il fiato. Rimarranno i domenicali perché già programmati. 

Buona giornata,
Simona Scravaglieri

mercoledì 3 settembre 2014

[Dal libro che sto leggendo...] Julie&Julia



Fonte: Style.it

Come già detto nella recensione di Julie&Julia, la Julie Powell del libro è decisamente diversa da quella del film. Nella trasposizione cinematografica le storie della Powell e della Child si completano e sono equipollenti in questo lavoro la vita della Child è un'introduzione a mo' di frase d'effetto piazzata davanti ad ogni capitolo.

Per chi non conoscesse né il film e né la storia, Julie Powell impiegata amministrativa frustrata per la mancata carriera di attrice (nel libro e scrittrice nel film) un giorno decide di darsi un progetto da seguire, come imparare "L'arte della cucina francese", e di trascriverlo in un blog che terrà aggiornato giornalmente per l'anno in cui cercherà di realizzare le 524 ricette del libro di Julia Child.

La storia è vera, ma l'umanità della Powell cinematografica non si ritrova nel libro. Quella reale è una via di mezzo fra una delle ragazza di Sex&City e una noiosa e petulante ragazza un po' viziata tanto che, nelle riflessioni su cosa le è capitato di bello grazie a questa esperienza, riesce a dire che "finalmente può lasciare il suo posto di lavoro ed essere pagata per stare a casa a scrivere". 

Diciamo che preferisco di gran lunga il film e il lavoro fatto dagli sceneggiatori,
Buona letture e buon rientro,
Simona Scravaglieri


Giovedì 6 ottobre 1949  
Parigi
Alle sette in punto di un tetro pomeriggio sulla Rive Gauche, Julia si accingeva a mettere in forno i piccioni per la seconda volta in vita sua.
La prima volta l'aveva fatto quella mattina stessa, durante la sua primissima lezione di cucina, nell'angusto seminterrato della scuola di cucina Cordon Bleu, al numero 129 di Rue du Faubourg Saint- Honoré. E adesso ne stava arrostendo degli altri nella cucina dell'appartamento preso in affitto con suo marito Paul: una stanzetta in cima ad una stretta scala che un tempo, prima che la vecchia casa fosse suddivisa in più alloggi, era la zona riservata alla servitù.
I fornelli e il piano di lavoro erano troppo bassi per lei, come qualsiasi altra cosa su questa terra. Eppure, Julia preferiva la sua cucina a quella della scuola: le piacevano la luce e l'aria che si respirava lassù, le piaceva il montavivande che avrebbe trasportato i volatili giù, in sala da pranzo; le piaceva la possibilità di cucinare con il marito seduto a tavola a tenerle compagnia.
Presto ci avrebbe fatto l'abitudine, ai ripiani di quella cucina, ne era certa. Quando trascorri un'intera esistenza a guardare il mondo dall'alto del tuo metro e ottantotto, finisci per adattarti un po' a tutto.
Anche adesso Paul era lì con lei: di tanto in tanto le scattava una foto, mentre scriveva al fratello Charlie. " Se vedessi Julie infilare il pepe e lardo nel didietro di un piccione morto" diceva nella lettera, "ti renderesti conto di quanto sia già profondamente cambiata."
In realtà Paul non aveva visto ancora niente. Sua moglie Julia Child, all'età di trentasette anni, aveva deciso di imparare a cucinare.
Questo pezzo è tratto da:

Julie&Julia
La deliziosa storia di un'educazione sentimentale ai fornelli
Julie Powell
Rizzoli Editore, ed. 2009
Collana "BUR"
Prezzo 9,90€ 
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