Fonte: Pinterest |
L'eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai.
Audrey Hepburn
Fonte: oztypewriter |
Fonte: LettureSconclusionate |
Fonte: BlogLive |
I.
Io, Esme Garland, detesto le complicazioni. E questa è una vera sfortuna, perché da quando mi sono svegliata stamattina ho la brutta sensazione che da un momento all’altro me ne capiterà una. Bevo il mio tè e mi chiedo se ho dimenticato di consegnare una tesina, di pagare l’affitto oppure di dare la pappa al gatto di Stella. Non mi viene in mente niente. Rifletto sul fatto che la probabilità di incorrere di una complicazione seria è piuttosto remota, visto che non riesco neppure a immaginarmela. Riprendo a bere il tè e guardo la Broadway sotto la mia finestra.Questo pezzo è tratto da:
I grattacieli di New York spiccano così netti contro la luce del sole che sembrano ritagliati da un bambino sul cartoncino nero. Il sole del mattino invade le vie trasversali e lascia in ombra il lato est delle avenue. Questa luce così limpida è una delle cose che mi piacciono di più. La luce limpida, la gente limpida.
Mi piace svegliarmi con il sole che invade la stanza. Quando sono arrivata qui, pensavo di ritrovarmi in una cameretta da studente, con una finestra minuscola affacciata sulla scala antincendio. Invece in agosto ho aperto la porta di questo appartamento e la prima cosa che mi ha colpito è stata proprio la luce così invadente. È uno studio, due locali con bagno. Però la parola mi piace, dà l’impressione di essere come quegli artisti morti di fame che hanno abitato in minuscole soffitte per secoli. Si trova esattamente sopra un minimarket aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, quindi non è quello che propriamente si dice silenzioso, ma ha una bella vista sulla Broadway, che si insinua come un ruscello nel rigido reticolato delle strade di Manhattan. Ormai è ottobre, ma continua a farmi effetto.
Irv Franks, del 14D, sta calando il cestino davanti alla mia finestra, con la solita lista della spesa e un biglietto da venti dollari attaccato al filo. Come sempre uno dei coreani del negozio di sotto sta aspettando il cestino. Sì, sta sorridendo, me lo immaginavo. Chiunque, da qualsiasi paese provenga, sa quanto sia piacevole riprodurre la vita del villaggio in questo modo; e tutti sono contenti che funzioni ancora.
Non sono venuta a New York per evadere dai confini della mia cittadina inglese. Non pensavo che New York mi avrebbe aiutato a esprimere al meglio la mia personalità, e neppure che avrebbe contribuito a rinvigorire il mio animo depresso. Il mio animo si deprime assai raramente. Non ho commesso l’errore, o nutrito la speranza, di pensare che New York sarebbe stata il santuario della mia redenzione. La Columbia University mi ha offerto un posto dove studiare storia dell’arte, e in più mi ha messo a disposizione una borsa di studio. Nessun altro mi aveva offerto soldi.
Ecco perché sono venuta qui. All’inizio, la situazione non sembrava promettente. Sono arrivata come tutti gli altri, dopo aver giurato di non essere una spia o colpevole di depravazione morale, e di non portare lumache con me. Nei primi sconvolgenti minuti fuori dal JFK, un venerdì notte di pioggia, ho visto taxi gialli sfrecciare per la strada mentre inservienti dell’aeroporto si lanciavano insulti e limousine lucide passavano in mezzo a quel manicomio: sembrava di essere sull’orlo del caos. Come tanti altri, anch’io ho pensato: “Impossibile, non ce la farò mai”. Ma poi ce la si fa, eccome. Si riesce a entrare in città di sera senza venire uccisi, e a svegliarsi il giorno successivo ancora vivi, e un attimo dopo ci si ritrova a passeggiare sulla Broadway sotto il sole.
Fonte: BlogLive |
I.
Io, Esme Garland, detesto le complicazioni. E questa è una vera sfortuna, perché da quando mi sono svegliata stamattina ho la brutta sensazione che da un momento all’altro me ne capiterà una. Bevo il mio tè e mi chiedo se ho dimenticato di consegnare una tesina, di pagare l’affitto oppure di dare la pappa al gatto di Stella. Non mi viene in mente niente. Rifletto sul fatto che la probabilità di incorrere di una complicazione seria è piuttosto remota, visto che non riesco neppure a immaginarmela. Riprendo a bere il tè e guardo la Broadway sotto la mia finestra.Questo pezzo è tratto da:
I grattacieli di New York spiccano così netti contro la luce del sole che sembrano ritagliati da un bambino sul cartoncino nero. Il sole del mattino invade le vie trasversali e lascia in ombra il lato est delle avenue. Questa luce così limpida è una delle cose che mi piacciono di più. La luce limpida, la gente limpida.
Mi piace svegliarmi con il sole che invade la stanza. Quando sono arrivata qui, pensavo di ritrovarmi in una cameretta da studente, con una finestra minuscola affacciata sulla scala antincendio. Invece in agosto ho aperto la porta di questo appartamento e la prima cosa che mi ha colpito è stata proprio la luce così invadente. È uno studio, due locali con bagno. Però la parola mi piace, dà l’impressione di essere come quegli artisti morti di fame che hanno abitato in minuscole soffitte per secoli. Si trova esattamente sopra un minimarket aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, quindi non è quello che propriamente si dice silenzioso, ma ha una bella vista sulla Broadway, che si insinua come un ruscello nel rigido reticolato delle strade di Manhattan. Ormai è ottobre, ma continua a farmi effetto.
Irv Franks, del 14D, sta calando il cestino davanti alla mia finestra, con la solita lista della spesa e un biglietto da venti dollari attaccato al filo. Come sempre uno dei coreani del negozio di sotto sta aspettando il cestino. Sì, sta sorridendo, me lo immaginavo. Chiunque, da qualsiasi paese provenga, sa quanto sia piacevole riprodurre la vita del villaggio in questo modo; e tutti sono contenti che funzioni ancora.
Non sono venuta a New York per evadere dai confini della mia cittadina inglese. Non pensavo che New York mi avrebbe aiutato a esprimere al meglio la mia personalità, e neppure che avrebbe contribuito a rinvigorire il mio animo depresso. Il mio animo si deprime assai raramente. Non ho commesso l’errore, o nutrito la speranza, di pensare che New York sarebbe stata il santuario della mia redenzione. La Columbia University mi ha offerto un posto dove studiare storia dell’arte, e in più mi ha messo a disposizione una borsa di studio. Nessun altro mi aveva offerto soldi.
Ecco perché sono venuta qui. All’inizio, la situazione non sembrava promettente. Sono arrivata come tutti gli altri, dopo aver giurato di non essere una spia o colpevole di depravazione morale, e di non portare lumache con me. Nei primi sconvolgenti minuti fuori dal JFK, un venerdì notte di pioggia, ho visto taxi gialli sfrecciare per la strada mentre inservienti dell’aeroporto si lanciavano insulti e limousine lucide passavano in mezzo a quel manicomio: sembrava di essere sull’orlo del caos. Come tanti altri, anch’io ho pensato: “Impossibile, non ce la farò mai”. Ma poi ce la si fa, eccome. Si riesce a entrare in città di sera senza venire uccisi, e a svegliarsi il giorno successivo ancora vivi, e un attimo dopo ci si ritrova a passeggiare sulla Broadway sotto il sole.
Fonte: Style.it |
Giovedì 6 ottobre 1949
Parigi
Alle sette in punto di un tetro pomeriggio sulla Rive Gauche, Julia si accingeva a mettere in forno i piccioni per la seconda volta in vita sua.Questo pezzo è tratto da:
La prima volta l'aveva fatto quella mattina stessa, durante la sua primissima lezione di cucina, nell'angusto seminterrato della scuola di cucina Cordon Bleu, al numero 129 di Rue du Faubourg Saint- Honoré. E adesso ne stava arrostendo degli altri nella cucina dell'appartamento preso in affitto con suo marito Paul: una stanzetta in cima ad una stretta scala che un tempo, prima che la vecchia casa fosse suddivisa in più alloggi, era la zona riservata alla servitù.
I fornelli e il piano di lavoro erano troppo bassi per lei, come qualsiasi altra cosa su questa terra. Eppure, Julia preferiva la sua cucina a quella della scuola: le piacevano la luce e l'aria che si respirava lassù, le piaceva il montavivande che avrebbe trasportato i volatili giù, in sala da pranzo; le piaceva la possibilità di cucinare con il marito seduto a tavola a tenerle compagnia.
Presto ci avrebbe fatto l'abitudine, ai ripiani di quella cucina, ne era certa. Quando trascorri un'intera esistenza a guardare il mondo dall'alto del tuo metro e ottantotto, finisci per adattarti un po' a tutto.
Anche adesso Paul era lì con lei: di tanto in tanto le scattava una foto, mentre scriveva al fratello Charlie. " Se vedessi Julie infilare il pepe e lardo nel didietro di un piccione morto" diceva nella lettera, "ti renderesti conto di quanto sia già profondamente cambiata."
In realtà Paul non aveva visto ancora niente. Sua moglie Julia Child, all'età di trentasette anni, aveva deciso di imparare a cucinare.