mercoledì 27 febbraio 2013

[Dal libro che sto leggendo] Segnali che precederanno la fine del mondo

Fonte: Gocce di vita...Fatata

Inizia con una partenza questo libro, senza "se" e senza "ma". Una partenza che ha una motivazione appena accennata ma che, nel viaggio, diventa altro ovvero diventa metafora di passaggio della frontiera della "vita verso la morte o verso una nuova vita". E questa "frontiera", come nella migliore tradizione dantesca, è rappresentata da un fiume che simbolicamente lava il bello e il brutto di entrambe le sponde e per questo riveste anche il ruolo mistico di "colui che divide senza impedire lo sguardo". Il bello dell'utilizzo di questa metafora è che questo "guado", che non impedisce lo sguardo da una sponda all'altra del fiume ma contestualmente ne "nasconde le potenzialità"- guardando al di là, infatti, non è così facile intuire come se è meglio o peggio della sponda dove invece siamo - diventa rappresentazione delle nostre paure e la loro motivazione così come avviene, ad esempio per la paura di morire o anche quella di emigrare. La radice delle nostre paure, in sostanza per  Herrera, sembra stare nel non poter sbirciare. 
E' un libro "metaforico" di straordinaria bellezza - anche nel modo tutto particolare di scrivere e di strutturare visivamente le pagine - il cui finale però mi ha lasciata interdetta. Questo perché, nella costruzione, il libro può essere letto in tre modi ovvero come una storia surreale, come la metafora dell'emigrazione e come metafora della morte. E sebbene tutti le tre tipologie di interpretazione reggono per la durata del libro alla fine la soluzione rimane un po' sibillina e sospesa. Probabilmente ha bisogno di essere digerita nel tempo.
Veramente una bella prova d'autore, 
buone letture,
Simona Scravaglieri


1.

La terra

Sono morta, si disse Makina quando tutto davanti a lei si imbizzarrì: un uomo con il bastone attraversava la strada, all'improvviso uno schianto secco spaccò l'asfalto, l'uomo rimase in attesa che gli ripetessero una domanda mentre il suolo si spalancava sotto i suoi piedi: inghiottì l'uomo, e con lui anche un cane, tutto l'ossigeno nell'aria attorno e persino le urla dei passanti. Sono morta, si disse Makina, e appena lo ebbe mormorato tra sé, il corpo reagì alla sentenza e si mise a sbattere disperatamente i piedi all'indietro, ogni passo a pochi centimetri dal precipizio. finché la voragine divenne un cerchio perfetto e Makina fu in salvo.

Maledetta città infida, pensò, sempre sul punto di finire sottoterra.
Era la prima volta che le toccava quel delirio tellurico. La Cittadina era crivellata di gallerie e buchi scavati nell'arco di cinque secoli di voracità mineraria per colpa dell'argento e ogni tanto qualche malcapitato scopriva a proprie spese come fossero stati ricoperti alla meno peggio. Alcune case avevano trasloca all'aldilà, assieme a un campo di calcio e mezza scuola, fortunatamente vuota. Certe cose succedono  sempre agli altri, finché non succedono a te, pensò. Gettò un'occhiata alla voragine, provò compassione per lo sventurato finito all'altro mondo, Buon Viaggio, disse senza alcuna ironia, poi mormorò: Sarà meglio che mi sbrighi a fare questa commissione. 

Sua madre cora l'aveva chiamata per dirle: Vai, porta questo foglio a tuo fratello, non mi fa piacere chiederlo, bambina, ma di chi potrei fidarmi, di un uomo forse? Poi l'abbracciò e la tenne stretta a sé, in grembo, senza drammi né lacrime, solo perché Cora faceva sempre così: anche standole a due passi era come se ti prendesse in grembo, tra i seni scuri, all'ombra del collo largo e grasso, bastava che ti rivolgesse la parola per sentirti protetto. E le aveva detto Vai nella Cittadina, prendi contatto con i tipi che contano, i veri duri, offro loro i tuoi servigi, fatti dare una mano per il viaggio. 

Non aveva alcun motivo per recarsi prima dal signor Dovappiù, ma il bisogno di darsi una ripulita la portò diretta alla sauna che quello gestiva. si sentiva la terra fin sotto le unghie come se fosse caduta anche lei nella voragine. 

Alla cassa c'era un ragazzo sanguigno e orgoglioso con cui Makina aveva avuto un approccio in una certa occasione. Era successo nel modo impacciato con cui spesso avvengono queste cose; ma dato che gli uomini sono convinti di essere bravissimi a fare quel genere di esercizio fisico, mentre con lei se l'era cavata proprio male, da allora il ragazzo abbassava lo sguardo ogni volta che la incontrava. Makina gli passò davanti camminando lentamente e lui si sporse fuori dal botteghino come se volesse dirle No, non si può, o piuttosto Tu no, tu non puoi: lo fece con un impeto che durò tre secondi, perché lei non si fermò e lui non riuscì a dirle niente, limitandosi a squadrarla con una certa autorità quando lei era già passata oltre dirigendosi al bagno turco.
Il signor Dovappiù era una vero spettacolo di gaudente rotondità, con la pelle bianca solcata da venuzze azzurrine; il signor Dovappiù se ne stava nella sala immerso nel caldo umido. Le pagine del giornale del mattino erano praticamente incollate alle piastrelle e il signor Dovappiù le staccava una alla volta man mano che andava avanti nella lettura. Quando vide Makina non sembrò sorpreso. Come va, disse, bevi una birra? Perché no, rispose Makina. Il signor Dovappiù prese una birra dal secchiello del ghiaccio ai suoi piedi, la stappò e gliela porse. Se ne scolarono una a testa senza riprendere fiato, neanche fosse una gara. Poi rimasero a godersi in silenzio la scaramuccia tra l'acqua di fuori e quella di dentro.

Questo pezzo è tratto da:

Segnali che precederanno la fine del mondo
Yuri Herrera
La Nuova frontiera Edizioni, Ed. 2012
Collana "Liberamente"
Prezzo 14,00€

domenica 24 febbraio 2013

Umberto Eco, "Fare romanzi: libertà e costrizione dello scrittore", Lect...

Inizia dicendo: "Non vi aspettate che vi parli de "Il nome della rosa"" e prosegue dicendo la maledizione che lega gli autori con i libri famosi "Ho scritto sei romanzi eppure ogni volta che esce un nuovo romanzo la gente pensa - E' uscito un nuovo libro di Eco, ma io ancora non ho letto "Il nome della rosa", che tra parentesi è pure in una collana economica!
Bella questa "lezione", di circa 50 minuti, di Eco al salone del libro del 2010, anno in cui uscì "Il cimitero di Praga", l'ho trovata molto interessante e quindi ve la propongo. Per Eco fare romanzi è "Scegliere un personaggio e mettersi in poltrona e limarsi le unghie guardando il personaggio che fa tutto da solo"... In fondo, poi parte e approfondisce proprio il libro di cui non vuole parlare ed è particolarmente interessante "carpire" la planimetria del luogo e il confronto con, l'allora nuovo, "Il cimitero di Praga". C'è pure la confessione di un errore su quest'ultimo romanzo, ma questo lo lascio scoprire a voi!
Buona visione e buone letture, 
Simona Scravaglieri




venerdì 22 febbraio 2013

"Nemesi", Jo Nesbo - Aggirare le regole...

Fonte: AmericaCube

Negli ultimi anni, dopo la famosa pubblicazione della trilogia Laarson, pare che in Italia ci sia una vera e propria mania per gli autori svedesi e norvegesi, che ha dato vita ad un gruppo di affezionati che seguono la scia di qualsiasi scrittore sia nato in quei luoghi. Quello che ho sempre sostenuto (e difficilmente ritratterò) è che, per me,  "scrivono troppo". Intendiamoci, non scrivono "troppi libri" ma "scrivono troppo per ogni libro" che pubblicano che, di solito, va dalle 400 pagine (per il loro standard è probabilmente uno che non ha molto da dire!) alle 700-900 al massimo. E se 800 pagine posso a malapena concepirle per "I pilastri della terra", famoso romanzo follettiano che narra una saga di famiglia lunga un intero secolo, nel caso avvenga per un lavoro che viene catalogato "Thriller" credo che difficilmente si possa pensarlo come un qualcosa di particolarmente riuscito. Per alcuni generi, infatti,  la lunghezza può essere giustificata con il voler sottolineare le caratteristiche di un luogo o di un tempo o anche di una situazione ma, necessariamente, deve avere una scrittura scorrevole e accattivante a evitare che il lettore sbuffi all'ennesima divagazione. Se la descrizione/divagazione è dichiaratamente "un'allungamento di brodo", a qualsiasi genere appartenga quel lavoro, sarà probabilmente un testo abbandonato o alla fine odiato. 

Quando ho acquistato "Nemesi" - è uno dei libri della categoria "Ma non l'hai letto?? Devi farlo assolutamente!" -, il primo pensiero è stato "Beh 400 pagine, allora forse è veramente thriller" e, confesso, di non aver indagato nemmeno sulla provenienza dell'autore - cosa che probabilmente mi avrebbe spinta, viste le precedenti esperienze con altri autori come Laarson e Jonasson, a rimetterlo sullo scaffale e a prendere un qualsiasi altro libro in sostituzione. Il problema è che un lavoro, appartenente al genere "thriller",  dovrebbe istigare quell'atmosfera di "tensione" che ti costringe a rimanere incollata al  libro fino all'ultima pagina per sapere come va a finire e, se riesco a concepirla come persistente per 300 pagine, forse anche per 400, laddove si vada oltre questo limite, per me, diventa solo noia. Quindi, visto che a Gennaio stavo male e l'avevo già acquistato da un po' di tempo  ho preso l'insana decisione di leggerlo, sperando di trovare una storia che mi facesse passare il tempo, e, invece, quando l'ho chiuso a Febbraio - Sì! Ci ho messo una vita a finirlo! -, mi sono resa conto che nulla di questo è successo. Non mi sono divagata e non ho letto "un thriller"  e per giunta mi sono anche annoiata nel leggerlo fino all'ultima pagina sperando in una soluzione dei casi descritti che, manco a dirlo, non c'è.

Siamo nella fredda Oslo. Fa freddo non solo perché siamo in Norvegia, ma anche perché è inverno. All'interno di una banca cittadina si stanno svolgendo delle azioni di routine; gli impiegati stanno facendo sportello servendo annoiati clienti e il direttore, chiuso nella sua stanza, fa i conti. Arriva un furgone portavalori per la consegna due cassette, che devono essere inserite nel bancomat, e per ritirare quelle che invece non servono più; il direttore esce, fa le abituali operazioni (del tipo "inserisci prima una chiave e poi un'altra"), e lo scambio è concluso. Tutto ritorna alla normalità. Poco dopo entra un uomo con il passamontagna e armato di tutto punto, dice una frase in inglese che pochi capiscono, poi si affianca, saltando dall'altro lato del bancone, ad una impiegata cui fa capire che sarà lei la sua voce e che dovrà ripetere le sue istruzioni così da evitare che, la voce del rapinatore, venga riconosciuta dalle registrazioni delle telecamere di sorveglianza. L'obiettivo sono i soldi appena depositati nel bancomat e il direttore di banca ha 25 secondi per consegnarli altrimenti la sua impiegata morirà. I soldi vengono consegnati in 26", l'uomo prende la borsa sembra che stia per andare via ma si ferma, si gira, avvicina il viso alla donna, le sussurra una frase e poi le spara e finalmente scappa, dileguandosi nel traffico cittadino.

Comincia con questa scena "Nemesi" ma, e c'è più di un "ma", ci sono altri due casi che impegnano Harry, l'ispettore protagonista di questo libro, ovvero quello della sua ex, che lo invita  a cena, e il giorno dopo - quando lui pensa di essere tornato a casa ubriaco e non si ricorda nulla della sera precedente - viene trovata morta suicida a casa sua e, infine, il caso della sua amica e collega uccisa mentre cercava di risolvere, a sua volta, un altro caso. Insomma, se siete donne e siete ad Oslo e si presenta un ispettore che si chiama Harry è il caso che scappiate a gambe levate, perché probabilmente, se diventate amici o amanti, non rivedrete la successiva alba. Tre casi e sette soluzioni. Troppe? A quanto pare, per chi pubblica Nesbo, non solo qui in Italia, apparentemente no. Delle sette soluzioni:
- tre sono sbagliate e in una delle tre una è la soluzione di un altro dei casi citati che, però rimane alla fine irrisolto;
- due sono soluzioni suggerite al lettore ma mai rese evidenti ai protagonisti e quindi non servono a nulla;
- due sono "le soluzioni", che sembrano essere definitive, anche se accompagnate da spiegazioni piuttosto confuse e all'apparenza un po' labili. 
E se vi sta venendo il dubbio che sia un'enciclopedia di " casi polizieschi" ecco sappiate che, per me, a pagina 425, questa, era praticamente una certezza!

In più in un thriller che si rispetti c'è un crescendo, ovvero tutte le situazioni dovrebbero puntare alla "scena clou" del libro,  ovvero quella che decide tutto e che porta alla soluzione di tutta la situazione, e invece, vuoi perché non si capisce qual'è l'indagine principale su cui si dovrebbero concentrare o perché il nostro Harry ha i piedi in troppe scarpe (e fidatevi non è una metafora!) per tutto il libro la situazione non decolla ma vola rasoterra. Pertanto, visto il piattume generale, leggere questo libro non solo non è divertente, ma, ancora una volta, consolida il mio pensiero che se agli autori - norvegesi, svedesi o affini appartenenti a questa stessa scuola-, si taglia la metà delle pagine dei loro lavori non si fa alcun danno!
In questo, in particolare, nemmeno tale operazione sarebbe corretta, perché nemmeno Nesbo sa cosa voleva scrivere visto che pare proprio che ad un certo punto si perda per strada, nella miriade delle piccole storie che dovrebbero fare da contorno e che, invece,  hanno, sparse per i vari capitoli, ruoli ora secondari e ora principali contribuendo ad aumentare la confusione del lettore! 

L'unica cosa che potrei ricordare a questo autore è che le buone regole del thriller dovrebbero essere:
- Obiettivi chiari ovvero la storia principale in giusta luce e la necessità di congegnare una debita chiusura che sia credibile e la cui spiegazione sia comprensibile (e sopratutto che, quest'ultima, ci deve pur essere, altrimenti, non ha senso scrivere il libro!) .
- Pochi fronzoli, nessuna luce primaria per tanti personaggi altrimenti, se non la si sa gestire, si perdono i riferimenti!
- La creazione dello "stato di suspance" altrimenti non è un thriller ma un giallo e a volte nemmeno quello!
Peccato che in "Nemesi" nulla di tutto questo ci sia e che non si possa nemmeno catalogare se non come "un polpettone di pezzi di libri, mai costruiti, messi insieme" e che, con il loro rimanere "casi irrisolti" fanno pensare all'uscita di un altro un altro libro "chiarificatore" di altre 400 e passa pagine! Dio ce ne scampi e liberi!
Inutile specificare che non ha preso un buon voto.
Buone letture,
Simona Scravaglieri 


Nemesi
Jo Nesbo
Piemme Edizioni, Ed. 2010
Collana "Bestsellers"
Prezzo 11,60€





mercoledì 20 febbraio 2013

[Dal libro che sto leggendo] La casa dei sette cadaveri



Fonte: Daily

Sorpresa! Facciamo un'eccezione alla formula de "Dal libro che sto leggendo"...




E ora, scusandomi per la voce ancora rauca, passiamo al libro di oggi. Questo non l'ho letto in questo periodo, ma come già detto un paio di domeniche fa è un libro letto a Dicembre dello scorso anno. Però nel controllare, mi sono accorta che un "assaggio" non l'avevo messo e che il libro in questione mi guardava storto dalla pila dei libri "sospesi" ovvero quelli che devono essere recensiti o di cui voglio segnalarvi qualche pezzo in particolare.

Torniamo pertanto indietro nel tempo e siamo nel 1939 anno in cui esce questo giallo e 7 anni dopo l'uscita di "Number Seventeen" film diretto da Alfred Hitchcock per il quale partecipò alla sceneggiatura. Questo  un intricato caso che vede la scoperta della presenza nel salotto di un cottage in riva ad un fiume chiuso, come se i suoi abitanti dovessero star fuori molto tempo, in cui uno "sfortunato" ladro trova nel salotto chiuso a chiave e le cui imposte sono inchiodate 7 cadaveri di persone mai viste nei dintorni. Da subito si tratta di una questione spinosa e apparentemente irrisolvibile. 
Come già detto il caso ha un crescendo che fa pensare ad un precursore del genere thriller  e si chiude con una soluzione insperata e niente affatto scontata.
Pertanto, 
buone letture,
Simona Scravaglieri


Questa non è la storia di Ted Lyte. Lui ha avuto solo l'incredibile fortuna di finirci invischiato e di restarne coinvolto più a lungo di quanto non desiderasse. Se avesse fatto suo il consiglio del cardinale Wosley e si fosse sbarazzato dell'ambizione, continuando a limitare i suoi atti illegali ai furtarelli e ai borseggi in cui era decisamente esperto, so sarebbe risparmiato, in quello storico sabato mattina, il momento più orribile della sua vita. Un momento così orribile da privarlo temporaneamente delle sue facoltà mentali.Ma lui non era un profeta; tutto ciò che poteva predire del futuro era solo l'attimo dopo, e spesso anche quello in modo erroneo; e quel cancello aperto, da cui si intravedeva  la finestra con le imposte, era stato una tentazione irresistibile.
Non aveva avuto molta fortuna negli ultimi tempi. Ed era proprio su quella triste circostanza che si era messo a rimuginare, mentre cercava cianfrusaglie sulla spiaggia deserta. Ma tutto quello che trovò fu solo fango; e fu proprio quel fango, unito forse al suono deprimente della sirena da nebbia, a spingerlo più all'interno, vicino ad Havenford Creek. Ma una finestra con le imposte suggeriva opportunità più promettenti. E se fosse riuscito a trovare un minimo di coraggio - perché era proprio la mancanza di coraggio che gli aveva impedito di diventare un Napoleone nel suo campo - forse avrebbe potuto trovare un bottino niente male dietro le imposte. Perché no?
Diede un'occhiata da una parte all'altra del viottolo.. L'occhiata fu soddisfacente. Non c'era un'anima in vista. Nemmeno una casa, a parte quella. Guardò di nuovo verso il cancello aperto. Oscillava leggermente sui cardini che cigolavano debolmente. Un rumore sgradevole. Quas così sgradevole come la sirena da nebbia. Ted era molto sensibile a qualsiasi forma di sgradevolezza in quel momento perché era da parecchio che aveva consumato il suo ultimo pasto completo, e quando una persona ha lo stomaco vuoto la sua virilità finisce a gambe all'aria. E comunque, fino a quando non ci capiterà di vivere  in un mondo in cui la gente si prende cura di noi, bisogna darsi da fare per guadagnarsi il pane quotidiano.
Così tirò un sospiro e s'introdusse nella proprietà. Adesso era sul vialetto di ghiaia, e sentiva il cigolio del cancello dietro di sé, non più davanti. Il vialetto non era molto curato. La ghiaia era piuttosto grossolana, con delle erbacce che vi crescevano in mezzo. Il vialetto correva intorno a un tratto di terreno erboso in stato di abbandono. Lo si poteva aggirare da un lato o dall'altro  per raggiungere il portico anteriore bastava scegliere. Ted, però, non era sicuro di poter scegliere. Mentre fissava la casa - una casa  a due piani, con mura  di mattoni grigi coperti per metà da rampicanti avvizziti - la casa lo fissò di rimando con un occhio chiuso. L'occhio chiuso era la finestra con le imposte serrate a destra del portico. Sulla finestra di sinistra, invece, non c'erano imposte. L'ospite non invitato si formò la spiacevole sensazione che la casa gli stesse strizzando l'occhio.
Ma c'erano altri segnali ben più favorevoli. Non si vedeva il minimo movimento, da nessuna parte. Nessuna traccia di fumo che uscisse dal comignolo. Niente cani. Queste mancanze erano troppo preziose perché potesse ignorarle, dato lo stato in cui versavano le sue finanze, e  furono proprio quelle a spingerlo a correre il rischio. Tutto ciò che gli restava da fare, perciò, era trovare un modo per introdursi in casa. 
Lanciò una rapida occhiata dietro di sé per accertarsi che il breve tratto di strada visibile al di là del cancello fosse ancora sgombro, poi si affrettò verso il portico. La porta d'ingresso, naturalmente, non gli offriva grandi opportunità, come pure la finestra con le imposte serrate. Tutte le altre finestre sul davanti erano saldamente chiuse, e lui riservò l'idea di forzarne una solo per quando avesse esaurito altre opzioni meno rumorose. Non essendo uno scassinatore de professione, non aveva con sé alcun attrezzo che potesse assisterlo nelle operazioni. Un ladro specializzato avrebbe potuto incidere il vetro e asportarne un pezzo in un batter d'occhio.
Nella speranza di trovare una finestra aperta girò intorno alla casa. Sulla sinistra c'era uno stretto passaggio che correva tra il muro e un'alta siepe, ma c'era qualcosa lì che in un modo o l'altro non gli piaceva, così optò per il prato sulla destra. Il prato si stendeva dalla casa fino a un ampio intrico di alberi scuri, e un portafinestra vi si affacciava proprio di fronte. Anche questa, come la finestra del lato anteriore, era schermata da un'imposta.
"Vorrei proprio sapere perché su questo lato della casa ci sono le imposte e sull'altro no", borbottò Ted.
Se ne avesse saputo il motivo, le sue ginocchia si sarebbero rifiutate di portarlo più in là. Ma nella sua beata ignoranza passò davanti del portafinestra.

La casa dei sette cadaveri
Jefferson Farjeon
Polillo Editore, ed 2011
Collana "I Bassotti"
Prezzo 13,90€

domenica 17 febbraio 2013

L'ha detto...James Parkinson

Immagine presa da qui


Cosa guadagni, amico, se invece di quattro scellini né incassi sei, se quello che hai in più lo devi dare al medico? 

 James Parkinson

venerdì 15 febbraio 2013

"Sofia si veste sempre di nero", Paolo Cognetti - Il mistero del colore verde...

Fonte: ESpress 451


Vi confesserò un segreto: è vero, Sofia si veste proprio di nero. E lo fa per tutto il libro! Questo libro apre una questione assai spinosa che fa riflettere ovvero se "essere" è meglio di "avere" ossia se essere un libro, costruito in maniera magistrale con racconti che possono anche sussistere da soli e che nel contempo riescono ad essere pertinenti come romanzo unico, sia preferibile ad una storia che si perde un po' negli stessi, perdonate la ripetizione, racconti. Quando l'ho preso ho pensato "Un pomeriggio e lo finisco!". E quando mi sono ritrovata a leggerlo per portarmi avanti con gli impegni - è uno dei libri scelti per il salotto letterario di Febbraio -, ad un certo punto ho pensato di essere davanti ad un libro un po' magico, ovvero un testo che è stampato in maniera normale, con un numero adeguato di righe per pagina e con una lunghezza delle stesse standard, che, nonostante questo, sembrava avere ogni pagina più piena delle paritetiche di altri autori. Alla fine riflettendoci mi sono data una risposta ed è che le pagine trasudano così tante informazioni perché ogni capitolo è scritto non come un romanzo ma in maniera a sé stante e quindi come un racconto. È probabilmente per questo che ha dei giudizi così contrastanti nei social dei lettori.

E se la formula di scrittura è vincente, la storia ci perde un po'. Questo perché per scelta di Paolo Cognetti, ogni racconto ha un suo soggetto principale e quindi, sebbene Sofia compaia ovunque, la storia principale ne risente. In sostanza, Sofia è il frutto della società che si è andata a formare dagli anni 70 in poi. Sofia se fosse reale oggi avrebbe fra i 24 e i 30 anni. Eppure un passato abbastanza contraddittorio, fatto di una madre perennemente depressa e di un padre che deve prendere le misure per trovare un modo per comunicare con lei e di una zia reduce dalle rivolte sessantottine, che ha generato una ragazza confusa e riluttante che a sedici anni, nel momento in cui ci si affaccia alla vita e contemporaneamente ci si ritrae da questo mondo che comunque ci spaventa non poco, decide di tentare il suicidio. I temi della contemporaneità ci sono tutti oltre al suicidio, Sofia è una ragazza che cerca di risolvere i propri problemi col sesso, che li dichiara al mondo con i suoi disordini alimentari e con il suo cronico nervosismo.

Ma c'è da chiedersi: "Noi, siamo così?" Sofia ci rappresenta o è solo la rappresentazione di una minoranza degli anni ottanta che però è diventata realtà nel nuovo secolo? Poi però se si soppesano le parole si scopre che Cognetti fa un lavoro di fino. Sofia cresce nella periferia di Milano e lo fa quando i genitori decidono di provare ad iniziare una nuova vita lasciandosi dietro litigi e recriminazioni. Ma in ogni luogo in cui sarà, anche al centro delle grandi città, Sofia, nonostante non se ne renda conto, continuerà a vivere ai margini volutamente e risentirà di questa mancanza di appartenenza al gruppo cui vuole tenacemente appartenere ovvero al quel grande pulsare e rumoreggiare della moltitudine che pensa metta in silenzio le solitudini. Questo lascia pensare che nel mucchio di storie e di vite, Cognetti, abbia deciso di accendere una luce speciale solo su una, che fosse il più particolare possibile, per poter raccontare tutto quello che sta intorno e rimane in ombra. Quindi, questo particolarissimo romanzo prende le fattezze di una pièce teatrale ove per ogni capitolo la protagonista, anche dove non lo è, rimane evidenziata dalla sua luce, a ricordare agli spettatori che c'è un filone principale da seguire, insieme alla luce che si accende sul protagonista del momento e per un tempo determinato e che racconta il proprio punto di vista e la propria vita permettendoci di buttare l'occhio nelle contestazioni, nelle fabbriche e persino nei modi di vivere di epoche contingenti. Se dovessi fare un paragone con una immagine è come vedere a ripetizione lo stesso fotogramma dove dell'olio cade su una superficie solo che ogni volta che il liquido vischioso cade si sparge in una direzione diversa.

Avere in mano un romanzo così è un po' come avere una di quelle pietre di cristallo ferma fogli che imitano il taglio diamante. È una pietra troppo grossa per dichiararsi per quello che non è e così Sofia non prova nemmeno ad essere qualcosa di diverso e che non le appartiene, e lo dichiara per lei "è il presente che conta e la vita non va costruita, ma deve essere presa come un insieme di presenti"; ma anche il romanzo, nasconde la sua natura di raccolta di racconti, convincendo allo stesso tempo i lettori che si tratti di un unicum.
Il finto diamante ferma fogli è pesante ma è altresì appariscente e quindi attirerà l'attenzione di chi passa per le sue tante sfaccettature. Così questo libro. Ha queste pagine pregne che quando passi da una all'altra ti sembra di aver letto mezzo romanzo ma mantiene questo questo fascino dell'ignoto, della domanda di cosa potrà dire il prossimo protagonista; contestualmente, Sofia, non derogando alla sua cosmologia, subisce la vita con la pesantezza di chi non riesce ad ottenere ciò che vuole o   comprende le cose solo al momento della perdita, contestualmente non si nega nulla, non deve per forza accettare, ma la necessità di una vita sempre vissuta nel presente ha bisogno di continui stimoli che si accettano per come vengono pena un persistente stato di noia.

Potrei continuare all'infinito, ma rovinerei il gusto di leggerlo. A chi mi ha chiesto informazioni mentre lo leggevo ho risposto "È un libro strano" e, in effetti, lo è proprio per questa sua poliedricità. A chi ha commentato il mio dare cinque stelle a Cognetti ho chiesto "Sei persona da racconti o da romanzi?" perché il problema sta lì, se la persona che vi si avvicina non ama i racconti non riuscirà, forse, a goderselo fino in fondo questo sforzo produttivo che ha generato una costruzione quasi gaddiana del libro (solo nell'architettura racconto/romanzo). Consiglio comunque di leggerlo, anche per risolvere il quesito che a me è rimasto in sospeso, ovvero il perché di questo colore verde quasi salvia sul fondo. Per stessa dichiarazione fatta in passato da Minimum Fax, le copertine rispecchiano sempre il libro, pertanto io sull'attimo, arrivata alla fine e chiuso il libro, ho pensato che la risposta fosse "Lagobello" ma non ne son convinta fino in fondo e quindi accetto punti di vista sull'argomento.
Buone letture,
Simona Scravaglieri


Sofia si veste sempre di nero
Paolo Cognetti
Minimum Fax Editore, Ed. 2012
Collana "Nichel"
Prezzo 14,00€




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mercoledì 13 febbraio 2013

[Dal libro che sto leggendo] Atletico Minaccia Football Club




Fonte: Marco Marsullo Blog

Sinceramente non saprei cos'altro aggiungere alla recensione fatta a Gennaio - e che trovate qui Atletico Minaccio Football Club - perché rischierei di essere ripetitiva. Però se state cercando un libro un po' fuori dagli schemi, che vi faccia sorridere e ridere dell'umana stranezza e che vi permetta, con questo, di affrontare un bel lavoro, beh Marco Marsullo è quel che fa per voi. Ospite da tre puntate da "Quelli che il calcio..." riesce a farci sorridere naturalmente anche dallo schermo con la freschezza di colui che affronta tutto con un pizzico di follia...
Io vi direi imperdibile, poi fate voi!
Buone letture,
Simona Scravaglieri


1. 
Come facesse a non schiodare il culo dalla sedia e dargliene di santa ragione a quel giornalista impettito era un enigma che non riuscivo a svelare. 
Io al suo posto gli avrei già tirato contro uno scaldabagno a un tipo così. E forse proprio per questo lui allenava il Real Madrid mentre io stavo sulla sdraio di tela a farmi sgranocchiare dalle zanzare, su quel terrazzino di Mondragone che profumava di mare e munnezza.
José Mourinho era, a mio (e suo stesso) modesto parere, il più grande allenatore del mondo.
E non parlo solo di tattica. Era un genio della comunicazione e dell'intrattenimento; uno così, avesse fatto il presentatore televisivo, avrebbero cremato Pippo Baudo. Riusciva a mantenere uno stoico self-control di fronte alle incombenze dei giornalisti, nonostante la sua squadra avesse miseramente perso la Supercoppa di Spagna contro il loffio Betis Siviglia. 
"Io digo che la esqaudra ha jucatu bene, il risultato di partita è bujardo. Ora conscentriamoci su campionatu, dove vensceremu senza problema, perchè esquadra è la migliora di Espagna", rispondeva flemmatico José. gli occhi chiudi, la barba di tre giorni e la parlata ipnotica, soporifera.
"Con la rosa di campioni che ha, Mourinho, perdere col Betis? Almeno lo ammetta che la sua squadra non c'era oggi in campo! Fossi in lei sarei molto preoccupato", ribatteva il giornalista.
"Lei mi disce di essere preoccupato. Io mi preoccupo se mia moglie està male, se npiote ha la febbre alta, se meu cane non va regulare a fare i bisogni...non se mia esquadra perde una Supercoppa"
Gesù, quanto avevo da imparare da quell'uomo.
Anche se a vedermi così sembrava, con le infradito Havaianas e la canotta bucata, anch'io ero un allenatore di calcio. Sì, io e Mourinho eravamo colleghi. Diciamo che se ci fosse stato un sindacato degli allenatori saremmo stati rappresentati dalla stessa sigla. Eravamo anche coetanei, solo che lui era nato a Setubal da padre allenatore, mentre io avevo visto i natali a Torre annunziata, da padre arrotino. Avessi avuto anch'io il padre Ct, a masticare Plasmon e schemi, a quest'ora altro che Mondragone per fare due bagni alla bambina. Sarei stato, come minimo, in ritiro con la squadra di Serie A per preparare l'imminente inizio stagione. Cento cento.
La mia carriera era iniziata otto anni prima, quando, appena trentasettenne, avevo cominciato ad allenare i ragazzi della scuola calcio Frattura di Torre Annunziata. Dopo il successone del campionato allievi, in cui raggiungemmo gli insperati play-off, venni chiamato ad allenare il Real San Marzano che cercava un volto giovane per rilanciarsi nel campionato di Promozione. Sembrava un sogno. Avevo la tuta societaria, le trasferte pagate a metà ( nel senso che loro mi pagavano l'andata, ma come tornare era un problema mio), e talvolta anche interviste postpartita per testate regionali.
Mi esonerarono alla prima di ritorno, dopo il penultimo posto e i sette punti in classifica.
Da allora, negli ultimi sei anni, ho allenato un po' qui e un po' lì, tra campionati di Prima e Seconda Categoria, senza abbuscare una lira e collezionando esoneri infausti, esclusivamente per colpa della sfortuna che pareva perseguitarmi, subdola e sadica. E un anno si rompeva il centromediano, e un altro s'infortunavano tutti e due i terzini, e l'anno dopo ancora si sfasciava il crociato dell'unico centravanti che vedeva la porta. Ovvio che senza i migliori giocatori non ce la potessi fare.
Per Mourinho era facile , invece. Se si faceva male un terzino, ad esempio, bastava voltarsi in panchina e trovava una truppa di fluidificanti con polpacci grandi come angurie. Si faceva male un centrattacco? E dov'era il problema? Chiedeva al presidente un nuovo acquisto e il giorno dopo si presentava in ritiro una montagna umana da tre gol a partita.
Invece, quando si fece male Crispino (seconda punta di movimento del Casoria Warrios), come alternativa c'era solo quel fracico di Buonaforte, che aveva pure i suoi trentanove anni, mica potevi dirgli qualcosa. Niente di meno che quando lo incrociavo in allenamento gli davo del lei.
Avessi avuto io le rose di José, altro che esoneri a metà febbraio.
Afferrai il telecomando e tolsi l'audio alla tivvù. All'improvviso Mourinho diventò un mimo fascinoso che gesticolava nel teleschermo. Rimasi in silenzio qualche istante, il vento caldo di Mondragone mi avvolse come cellofan.
Ma a chi le andavo a raccontare...
Sicuramente Mou avrebbe fatto correre Buonaforte più di un ghepardo con le caldane, dettandogli tempi e affondi giusti. Gli avrebbe fatto scoprire le zone del campo in cui muoversi per prendere più palloni, trasformandolo nel bomber che con me non era mai stato.
Sì probabilmente Mourinho, quell'anno il Casoria Warrios l'avrebbe salvato.
Mi alzai dalla sdraio sulla sigla della Domenica sportiva estate. Entrai nel nostro appartamento di quaranta metri quadri boccheggiando. Andai verso il frigo ciabattando con le infradito, presi la bottiglia di Coca e mi ci attaccai, approfittando che Lina, quello che rimaneva della donna sposata vent'anni prima, dormisse. In sua presenza un gesto del genere mi sarebbe costato quarantacinque minuti di rimbrotti sguaiati ("Ma alla bambina che ti guarda non ci pensi?", oppure: "Ma ti credi che la bocca là vicino ce la devi mettere solo tu?"). Peggio che giocare un tempo regolamentare con l'uomo in meno e due gol da recuperare.
Guardai l'orologio sulla parete segnare l'una e venti. Non avevo sonno e Marzullo era andato in ferie da un pezzo. Sentivo Lina russa dalla stanza in fondo al corridoio. Raggiunsi guardingo l'uscio, attento a non fare rumori molesti.
Lei dormiva a quattro di bastoni sul letto matrimoniale, la bocca spalancata e gli occhi semichiusi. Nell'angolo della stanza il lettino ospitava Chiara (quattordici anni a settembre avrebbe esordito al ginnasio). Anche lei dormiva, la pancia all'aria e le braccia divaricate, come a volersele staccare dal corpo per la canicola.
Accostai la porta e tornai in cucina.
I tremila euro di debiti per quelle due settimane di vacanza li avrei ripagati, anche a costo di vendermi un rene. Cazzi ben più seri mi facevano el maneaito bì bì tra i pensieri.Uno a caso: non avevo una squadra con cui iniziare la nuova stagione.
L'anno prima ero stato ingaggiato come allenatore in seconda dalla Poggio Marino Soccer, dietro al grande maestro Geppi Savona, vecchio bucaniere delle categorie minori campane. Aveva sessantaquattro anni e durante una partita del girone d'andata, fu stroncato da un infarto al ventinovesimo della ripresa dopo il gol vantaggio di Ignazio Delfino. Lo stadio era esploso, insieme alle sue coronarie.
Così il presidente aveva deciso di affidare a me la guida della sua prima squadra, definendomi pronto e all'altezza della situazione. In realtà non c'erano soldi per ingaggiare un altro allenatore.
Inutile dirvi che Delfino si ruppe la tibia e perone in allenamento e, senza quel marcantonio di due metri a centro area, conquistai due miseri punti in nove partite. Mi cacciarono.
Al mio posto scelsero proprio Delfino, che durante il periodo di convalescenza avrebbe fatto da mister ad interim. Dissero che vedevano in lui un'ottima guida per lo spogliatoio e che inoltre aveva un futuro in panca assicurato. In realtà non c'erano, ancora una volta, soldi per ingaggiare un altro allenatore.
Da marzo di quell'anno ero disoccupato e senza un euro. Non che prima mi pagassero chissà quanto, ma non lo facevo per i soldi. Io ero un allenatore, non potevo fare nient'altro che allenare. Sarebbe stato come chiedere a un cantante di fare l'imbianchino o, che so, a una letterina di fare la ministra.
Io ero nato per il calcio e sarei morto per il calcio. A centrocampo, sarei voluto morire a centrocampo. O meglio ancora sulla trequarti avversaria. Non c'è posto al mondo più bello della trequarti avversaria. E' una conquista, un'invasione. Una scoperta.
Passai il resto della nottata a leggere una copia sgualcita del "Gazzettino della Campania". Seguivo sempre con attenzione le pagine dedicate al calcio minore, sperando nel fantasma di un esonero, in clamorose dimissioni o in una polemica al napalm tra presidente e allenatore. Quell'estate però sembravano andare tutti d'accordo.
Il pomeriggio seguente, dopo una mattinata sotto l'ombrellone a mangiarmi il fegato, mi sdraiai sul letto stordito dal sole. Fuori le cicale cicaleggiavano incessanti e in cucina Lina preparava devota le melanzane al funghetto sulle note spumose di Pupo.
Chissà come se la passava Mourinho in ritiro sui Pirenei, a millecinquecento metri sul livello del mare. Sicuramente non aveva la pelle ingrassata dal sudore e l'affanno del cavalcante. Me lo immaginavo serafico, fischietto in bocca, il cuore a cinquantacinque battiti al minuto, regolare come un metronomo, il capello sistemato nell'invidiabile riga Oxford e la barba a puntellargli selvatica il viso spigoloso. Senza una goccia di sudore a sporcare quel capolavoro umano che sembrava disegnato apposta da Armani. Magro, in forma, atletico, saettante.
Mi trascinai davanti allo specchio che copriva interamente un'anta dell'armadio. Afferai ai due lati quell'ammasso di grassi saturi che mi sporgeva dal ventre e rimasi così, a fissarmi disgustato per un lunghissimo minuto, in cui - come dicono che accada nell'istante prima della morte - mi lasciai scorrere tutta la vita davanti agli occhi.
I primi Natali, mia mamma in cucina col capitone, le scuole, l'oratorio, Bearzot, l'urlo di Tardelli, Zoff con la coppa, gli occhi spiritati di Totò Schillaci a Italia'90, Sacchi che abbraccia Baresi in lacrime a Pasadena, il corso a Coverciano per il patentino, gli esordi sulle panchine polverose e gli esoneri. Alla fine mi balenavano solo una sfilza d'esoneri e le telefonate di circostanza dei presidenti, uomini che di calcio non capivano notoriamente un'acca, per piazzarmelo a quel posto.
Quante volte avrò sentito la frase:"Penso che siamo arrivati ad un punto di non ritorno, alla squadra serve cambiare aria". E l'aria ero sempre io.
Mollai la pancia, che rimbalzò impietosa verso il basso. Avrei dovuto perdere almeno cinque o sei chili. Che razza di sportivo ero diventato?
Corsi in bagno, mi sciacquai alla bene e meglio e tornai in camera oer infilare i calzoni Sergio Tacchini e le scarpe da corsa.
Svicolai fuori dall'appartamento che Lina nemmeno se ne accorse, tutta rapita dalle melanzane e dalla voce sexy di Pupo.
Mi fiondai sul lungomare per correre. Lo avrei macinato almeno un paio di volte.

Questo pezzo è tratto da:

Atletico Minaccia Football Club
Marco Marsullo
Einaudi Editore, ed. 2013
Collana "Stile libero Big"
Prezzo 17,00€

domenica 10 febbraio 2013

Zygmunt Bauman, "La solidarietà ha un futuro?", Pistoia, Dialoghi sull'u...

Ha dell'interessante la possibilità di poter seguire eventi di questo genere anche a distanza di tempo. In primis perché dà l'opportunità di sentire interventi interessanti come quello di Zygmunt Bauman sulle dinamiche della società moderna e in secondo luogo perché queste dinamiche rappresentano la nostra identità sia dell'uomo come individuo singolo che come appartenente ad una società di valori che, in fondo, anche se non hanno cambiato nome hanno profondamente modificato il loro significato oggettivo. 
Spesso gli amici si domandano come faccia a tenere perennemente spenta la tv, la risposta è qui, la rete offre una varietà di contenuti da rendere quasi inutile accendere la televisione per vedere discussioni senza alcun appiglio e approfondimento.
Ma veniamo alla "Lectio" che vi presento oggi. Siamo a Pistoia  ad una manifestazione a cura della Biblioteca San Giorgio il 27 Maggio 2012. Lo spunto di partenza è il movimento di Wall Street, ch da più di un anno presidia la City americana proponendo giornalmente idee e valori che rispecchiano il modo passato di vivere. Ma questa solidarietà, che non si intende come beneficenza, ma come comunione di intenti ha un futuro? Perché l'azione solidale, ha come obiettivo principale non solo il confronto di più persone su un tema unico ma, soprattuto ha come fine ultimo il cambiamento dello status quo.
Nonostante Baumann non lo nomini, uno degli esempi più eclatanti delle teorie e delle analisi su cui si riflette qui è la Russia e lo è dalle prime rivoluzioni. La Russia, quella che raccontava Salamov ne "La quarta Vologda" e che raccontano molti altri scrittori, anche se non il pensiero di sottolineare questo modo di agire e pensare, è un cumulo di idee e un crogiolo di confronti oratori e di di pensieri, eppure, nonostante la solidarietà d'intenti, ogni volta, chiunque è andato al potere ha sempre adottato politiche che prima di avere il comando ha sempre condannato.
E' un intervento imperdibile, pertanto preparatevi una bella tazza di tè fumante e accomodatevi. Va ascoltata con calma.
Buona visione e buone letture,
Simona Scravaglieri




sabato 9 febbraio 2013

Le sorprese del Corriere della sera...

Ci sono giorni che non t'andrebbe nemmeno di alzare un dito e il tempo non passa mai e giorni invece che ti senti come se non bastassero 24 ore! Poi esistono invece quei giorni in cui ti sembra che la congiuntura astrale ti guarda benigna e ti aiuta grazie ad una felice decisione presa. Ecco, satura del freddo di Roma, sono venuta ad Anzio, ridente cittadina del litorale romano luogo in cui ritrovo la mia dimensione non solo per l'aria temperata che si respira ma soprattutto perché ritrovo delle abitudini che solitamente in altri luoghi non ho. Tra queste oltre al riuscire a dormire come un sasso c'è la colazione al bar e la visita in edicola e oggi indovinate su cosa mi è caduto l'occhio?
Sul Corriere della Sera che pubblica oggi in allegato con il giornale "La casa dei sette cadaveri"!
Già vedo qualcuno degli amici che mi vede solitamente dire "Simò ma la novità dove sta?" La novità sta nel fatto che sono i libri della collezione "I bassotti" della Polillo Editore ristampati per il Corriere. I libri in questione sono gialli selezionati in un periodo molto prolifico per questa branca della letteratura e vanno dagli anni '20 ai '50 circa e sono di autori che in Italia sono poco conosciuti in parte perché all'epoca non furono stampati in nessuna collana o perché non sono più stati ristampati. In questo blog "La casa dei sette cadaveri" è stato già recensito a Dicembre dello scorso anno - sto scrivendo questo post con il cellulare e dall'applicazione non vedo i post precedenti poi ve lo linko - e come detto allora e ridetto a dicembre di quest'anno con un altro libro della collana che non è in questa raccolta questi gialli hanno un forte sapore retrò che ci riporta a quando il giallo era un vero esercizio di forza tra autore e lettore. La difficoltà sta nel dare tutti gli indizi al lettore senza però far scoprire subito l'assassino o il metodo o anche il movente. È da questi lavori che poi si sono formati e diventati famosi altri grandi della letteratura di genere.

Leggerli è una sfida e una scoperta che fa sì che oltre a scoprire dei giallisti d'eccezione vi permetta anche di scoprire sfide alla costruzione del giallo che nel tempo hanno dato vita alle varie branche di genere che poi sono diventati categorie a sè stanti come il noir e il thriller ma che allora rappresentavano una novità stilistica che oggi non sempre ha paragoni.

Guardando sul sito http://bit.ly/GialliDelCorriereDellaSera le uscite sono 20 e le successive al libro di oggi costano 6,90€ l'una. I libri sono stampati bene e su carta pesante e non rischiate, rileggendoli che si riducano a fascicoli settimanali perché la qualità è quella garantita di Polillo. Visto il risparmio e la qualità dei libri vi sfido non solo a comprarli ma a dirmi sinceramente che non vi hanno stupito piacevolmente come è successo a me!

Vi allegherei una foto del mare che ho davanti e magari del vicino che sbircia il giornale e libro da quando ho iniziato a scrivere... Probabilmente lo farò quando avrò un pc davanti! Mi limito a scusarmi per eventuali errori che il t9 mi avrà fatto fare e buon giallo a tutti!!
Buone letture,
Simona Scravaglieri

venerdì 8 febbraio 2013

"Castel Volturno", Sergio Nazzaro - Il pensiero solidale differente...

"Moschea" - Da "Vita da immigrato" di Giovanni Izzo
Fonte: Izzo Fotografia
In un video che ho inserito nelle prossime uscite Bauman, studioso delle dinamiche della contemporaneità, si sofferma a riflettere sul futuro del pensiero e dell'agire solidale. In sostanza il pensare e agire solidale, che è quello rappresentato da gruppi eterogenei che si confrontano e combattono e/o manifestano per un comune ideale migliore per tutti, frana davanti alla possibilità di effettuare il vero cambiamento nel momento in cui, a seguito di eventi che hanno ribaltato la situazione contestata, bisogna agire per il bene comune.
Questo non avviene solo all'estero con i movimenti che hanno visto scendere in piazza a Wall Street e in Egitto nonché in Siria milioni di persone, ma avviene anche nel nostro piccolo quotidiano. Il pensiero solidale si frantuma davanti alla necessità di azione e rimane arenato solo alla parola scritta o parlata o alla manifestazione con fiaccole o affini. Uno dei casi più eclatanti che ci hanno visto fallire è quello del movimento di pensiero de "L'antimafia per tutti". Offuscati da improbabili predicatori o giornalisti che poco hanno da raccontare sulla questione che non hanno mai approfondito, ci siamo ritrovati a fare "antimafia" come si seguono le partite in tv alla domenica, ovvero da allenatori da poltrona. La logica di questa situazione è che, pur di appartenere al gruppo di riferimento che ha in comune - almeno in apparenza -  un grande disegno - quello della liberazione dai gruppi di associazione mafiosa -, si deroga il proprio pensiero a favore di quello "comune" le cui sfaccettature non sempre ci appartengono. Si tollera, ma come dice Bauman, la "tolleranza" non è un pensiero "democratico" perché spesso, dietro, nasconde il sentimento di superiorità e quindi quello status che ci rende "in grado di tollerare pensieri e comportamenti altrui che però non condividiamo".    

Un'altra derivazione di questo movimento mutilato della sua componente principale è che non siamo sempre in grado di distinguere realtà da quello che non vi appartiene, quindi, quando immaginiamo zone come la provincia di Caserta, spesso pensiamo ad un Far West che nulla a che fare con la realtà. Sono invece saggi come questo che ci restituiscono il polso della situazione riunendo, come fa Sergio Nazzaro, in una serie di racconti tutte le anime, o forse parte di queste, che fanno di questi luoghi un mondo che nelle sue contraddizioni e diversità ha creato delle eccellenze. E questo mondo ha un confine che viene spiegato al lettore già dal primo capitolo descrivendo non solo nei limiti fisici ma anche quelli psicologici. Questo perché se è vero che lo "stato" e il "mondo" sono presenti solo quando si accendono le telecamere, anche i luoghi di queste vite, che scorrono con un ritmo normale, scelgono di ignorare un mondo da cui si sentono messi da parte. E' forse questa la sconfitta più grande del pensiero solidale che ci vede esseri pensanti e convinti che l'Italia sia una e indivisa.

A questa sconfitta, però, fa eco una vittoria di un altra tipologia di "pensiero solidale" che non è frutto di accordi e discussioni ma è insito nell'uomo e nel suo agire civile e civico dell'individuo,  nel suo DNA. Pensiero che immagina e pretende un mondo migliore e diverso e agisce per il cambiamento in base a questo desiderio. Così il poliziotto, il fotografo, l'associazione si contrappongono ma non si scontrano con la drogata, l'immigrato e il trafficante. E questo non avviene in funzione di una "tolleranza" ma in deroga ad un equilibrio che diventa quasi manicheo. Se male e bene ci sono comunque, il diminuire l'influenza dell'uno e dell'altro è una necessità che richiede non solo competenze ma anche la conoscenza profonda del territorio e, in più, il male - come anche il bene- ha un segreto ovvero quello che "il tempo, è gentiluomo" - come si diceva in un film - e se ci si da tempo e si impara a guardare indietro probabilmente ci darà l'opportunità capire errori e onori che hanno caratterizzato la nostra vita. Il senso  non è imporre un giudizio, ma imparare dalla propria esperienza e cercare di cambiare il corso della vita sia nostra che degli altri grazie a quella legge della favola alla Basile che pretende che alla fine ci sia sempre una morale e un insegnamento. E' così che avviene con Palma di Dio, donna che è quasi alla fine della sua vita. Il tempo le ha regalato una casa povera e la solitudine, quasi una punizione per quel che non ha fatto e costruito nella sua vita, ma l'ha anche resa in grado di scindere, all'interno del racconto che fa del suo passato delle fasi di dannazione di questa vita condannata dalle droghe. O anche il viaggio dell'immigrato, scandito di sconfitte e di una vittoria - l'arrivo in Italia - che nel tempo si rivelerà non più come tale. E' un momento di riflessione e per tirare le somme di una vita che non è andata come la si pensava. ma è contemporaneamente l'unico modo che quest'uomo ha per raccontare l'epopea che ogni giorno vivono milioni di uomini, donne e bambini, nella speranza di una vita diversa.

A queste persone che hanno vissuto le loro vite  fanno eco altri personaggi che nel loro quotidiano vivere trasformano l'usuale impedimento e limitazione, di uno stato presente solo nei vicoli e nei tagli, in opportunità di fare la differenza. Avviene nelle caserme dove uomini che devono garantire l'immagine di uno stato - che è lontano e non dovrebbe esserlo -, riescono a controllare un territorio che ha un confine profondo fra l'emerso ufficiale e il sommerso di cui "si sa ma non si dice". Conoscono luoghi, persone e storie e riescono anche nel sommerso ad avere quella autorevolezza che permette loro di essere non solo controllori della legalità ma anche entità di riferimento per chi vuole raccontare la propria storia. E ci sono persone come Giovanni Izzo, figura molto conosciuta e che da anni racconta a chi "sa ascoltare con gli occhi" le  storie  storie di immigrati e di persone comuni con un solo scatto, che fissa per l'eternità un occhio, un gesto o anche un luogo. Quando si ha il privilegio di parlare con un artista così si scopre,  che quello scatto, come racconta Nazzaro, non è un semplice click di una macchina fotografica ma è il riassunto di una fase di studio, conoscenza e riconoscenza che ha permesso di raccontare una storia di cui l'immagine è la sintesi. Seguire, grazie a Sergio Nazzaro questo fotografo diviene uno spunto per approfondire il suo pensiero riguardo questo mondo tanto dannato quanto amato.

Eccellenze e non eccellenze si fondono in un unicum quasi perfetto di contrapposizioni. Hanno tutti, questi personaggi,  un desiderio comune, una vita migliore in un mondo migliore che salvi l'uomo da sé stesso, ma per costruire quest'immagine comune sembrano non aver bisogno di mettersi d'accordo e di discutere. Non è più tempo di teorie, ma di azione che è completamente in mano del singolo. E le trasformazioni radicali che questa provincia italiana - condannata dalla mitologia gommorresca da anni ad inferno d'Italia - ha raggiunto, sono frutto di questo pensiero e non della presenza del movimento antimafioso di "rappresentanza". E, forse, la risposta a Bauman alla domanda di quale sarà il futuro del pensiero solidale e alla sua declinazione della modernità in questo mondo parallelo è nascosta in libri come questo, che non hanno l'intenzione di fornire una risposta ma solo un quadro di un vissuto che non è poi diverso da quello di tante altre province italiane e del mondo. Un quadro che si pregi di un nuovo Sergio Nazzaro che ieri si presentava ai suoi lettori come "scrittore, giornalista e lavoratore" e oggi invece diviene altro fondendo queste sue sfaccettature in un unica forza narrativa del tutto nuova. Nei racconti troverete la precisione del lavoratore nel seguire le direttive di un racconto classico fuse con la perizia del giornalista cui l'interesse è quello di portare ai suoi lettori una notizia più completa possibile raccontata con il linguaggio in alcuni punti anche lirico o romanzato tipico degli scrittori. Probabilmente risultato di quella maturazione che si ottiene dopo anni di gavetta e di libri scritti o di articoli che con lucido realismo e attenta calendarizzazione pubblica sul suo sito. Leggerlo è stato come visitare questi luoghi e aver sentito parlare con queste persone e, per esperienza personale vi consiglio di diffidare da chi parla di scritti cruenti. Non c'è l'effetto "cruento" nel realismo, c'è solo realtà. Forse una realtà vista a rallentatore, visto che lui parla di slow reportage, ma che ha un suo ritmo nel continuo rinnovarsi della quotidianità che permette a questo lavoro di non sembrare un saggio quanto un libro di narrativa.

Un'ottima prova d'autore che non si può che consigliare.
Buone letture, 
Simona Scravaglieri 

Castel Volturno
Reportage sulla mafia africana
Sergio Nazzaro
Einaudi Editore, ed. 2013
Prezzo 17,00€ (ma lo trovare in sconto 15%*) 
Ebook 9,99€

P.s: mi scuso per il ritardo nella pubblicazione, ma sto peggiorando le riscrivo troppo queste recensioni! Mi prenderò un we di riposo chissà che la cosa si risolva!
P.p.s.(*): questo libro è disponibile anche in versione Ebook, e a parte una differenza irrisoria di prezzo fra cartaceo e digitale, nel caso compraste la copia digitale perdereste l'opportunità di vedere dal vivo e in versione completa una delle tante bellissime foto di Giovanni Izzo. Quindi, date retta alla lettrice sconclusionata, andate a vedere il libro dal vivo e poi mi darete ragione.





mercoledì 6 febbraio 2013

[Dal libro che sto leggendo] Grazie Jeeves


Fonte: ArmasDesign


Si comincia con una catastrofe! Jeeves, fido maggiordomo e unico ostacolo alle brutte figure di Bertie Wooster, protagonista di questa serie di libri, si licenzia. Lo fa per un motivo, per il suo padrone, futile - non sentir più suonare il suo padrone il banjoele. Ma lo fa. Questo è il primo di una serie di libri, racchiusi nella collana "I Jeeves" che sono parte dei 90 e passa romanzi scritti da Wodehouse e ripubblicati da Polillo Editore che aveva già coniato la collana nel 2005.
Dichiaro subito che Wodehouse non è proprio fra i miei preferiti, ma è solo dovuto alla "lentezza" - insolita per la letteratura inglese - che non è dovuta al fatto che il lavoro scorra  nella trama in modo indolente, anzi vi ritroverete a sorridere e a ridere abbastanza spesso. La questione è più sottile. Wodehouse è uno scrittore di pièce teatrali e con la stessa tecnica scrive i suoi romanzi che sono un continuo botta e risposta. E', come vi capiterà di vedere anche in questo pezzo, questo che per me rallenta la lettura. e forse è la contrapposizione padrone-servo a rendermelo non di mio gusto, proprio perché spesso le risposte si ripetono, un po' più di quanto io sia disposta ad accettarle (sì, lo so, sno capricciosa!). Rimane il fatto che l'ironia pungente, che rappresenta questo contrasto forte fra aristocrazia ignorante e futile e il mondo dei servitori - che invece mostrano l'intelligenza e la saggezza del lavoratore -, ha il suo culmine in una storia che rasenta il paradosso facendo in alcuni punti il verso a "Le affinità elettive" di Goethe e in altri ai fortunati scritti di Jerome. Va presa come narrativa d'intrattenimento e nulla più e devo ammettere che tutto sommato fa quel che promette.
Buone risate e buone letture,
Simona Scravaglieri
1 
JEEVES SI LICENZIA

Ero lievemente turbato. Niente di che, in realtà, solo un po' preoccupato. Mentre me ne stavo seduto nel mio vecchio appartamento e pizzicavo oziosamente le corde del mio banjoele, uno strumento che mi aveva parecchio assorbito negli ultimi tempi, non avreste potuto dire che la mia fronte fosse proprio aggrottata, eppure, d'altro canto, non avreste potuto affermare decisamente che non lo era. Forse la parola "meditabondo" rende l'idea. Mi sembrava che fosse sorta una situazione gravida di imbarazzanti potenzialità.
"Jeeves", dissi "sai una cosa?"
"No, signore".
"Sai chi ho visto ieri sera?".
"No, signore".
"J. Washburn Stoker e sua figlia Pauline".
"Davvero, signore?".
"Devono essere qua".
"Così parrebbe, signore".
"Imbarazzante no?".
"Posso immaginare che dopo quanto accadde a New York potrebbe essere penoso per lei incontrare Miss Stoker, signore. Ma suppongo che tale eventualità non debba necessariamente presentarsi".
Soppesai quell'osservazione.
"Quando cominci a parlare di eventualità che si presenta, Jeeves, la mia mente prende a vacillare e mi sfugge il nocciolo della questione. Vuoi dire che dovei riuscire a starle alla larga?".
"Sì, signore".
"A evitarla?".
"Sì, signore".
Suonai cinque battute di "Old Man River" con un certo abbandono. Il suo commento mi aveva sollevato lo spirito. Seguivo il suo ragionamento. Dopo tutto, Londra è un posto grande. Semplicissimo non imbattersi nella gente, se non lo si vuole.
"Ho avuto un bello shock, però".
"Non stento a crederlo, signore".
"Accentuato dal fatto che erano accompagnati del Sir Roderick Glossop".
"Davvero, signore?".
"Sì. E' stato al Savoy Grill. Stavano mangiando insieme a un tavolo vicino alla finestra. E c'è  una cosa piuttosto strana, Jeeves. Il quarto membro della compagnia era la zia di Lord Chuffnel, Myrtle. Che ci faceva in quella banda?".
"Probabilmente sua signoria è una conoscenza di Mr Stoker o di Miss Stoker o di Sir Roderick, signore".
"Sì, può essere. Già, potrebbe spiegare la cosa. Ma mi ha stupito, la confesso".
"Si è intrattenuto in conversazione con loro, signore?".
"Chi io? No, Jeeves. Sono uscito dalla sala a razzo. A parte il fatto che volevo evitare gli Stocker, mi ci vedi ad andare deliberatamente e senza motivo a chiacchierare col vecchio Glossop?".
"Di certo, non si è mai dimostrato un interlocutore molto piacevole in passato, signore".
"Se c'è un uomo al mondo con cui spero di non scambiare mai più di una parola è quel vecchio barbagianni".
"Ho dimenticato di accennare al fatto, signore, che Sir Roderick è venuto a trovarla stamane".
"Come?".
"Sì, signore".
"E' venuto a trovare me?".
"Sì, signore".
"Dopo ciò che c'è stato fra noi?".
"Sì, signore".
"Be', che io sia dannato!".
"Sì, signore. L'ho informato che lei non era ancora alzato e ha detto che sarebbe tornato più tardi".
"Ah, sì, eh?". Feci una risata. Una di quelle sardoniche. 
"Be', quando arriva, aizza il cane contro di lui".
"Non abbiamo un cane, signore".
"Allora scendi al piano di sotto e fatti prestare il volpino di Mr Tinkler-Moulke. Venire a fare visita dopo come si è comportato a New York! Mai sentita una cosa simile. Hai Mai sentito una cosa simile, Jeeves?".
"Confesso che, date le circostanze, la sua venuta ha destato in me una certa sorpresa, signore".
"Vorrei ben vedere! Santiddio! Santo cielo! Santi numi! Quell'uomo deve avere la scorza di un rinoceronte!".
E quando vi avrò fornito i retroscena, penso che converrete con me che la mia furia era giustificata. Lasciatemi procedere con ordine e arrivare al punto.


Questo pezzo è tratto da:

Grazie, Jeeves
P. G. Wodehouse
Pollillo Editore, ed. 2005
Collana "I Jeeves"
Prezzo 12,40€



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